Titolo

The old oak
 

da domenica 12 a venerdì 17 gennaio 2025

 

            

THE OLD OAK

regia di Ken Loach

 

 


“Ha un gran rigore “la vecchia quercia”: più vicino ai novanta che agli ottanta, insieme al fidatissimo e bravissimo sceneggiatore Paul Laverty, Ken Loach realizza un film pulito, semplice, lineare, limpidissimo negli intenti e nella forma, dove i due protagonisti (…) sono continuamente circondati, protetti, ostacolati dal coro mutevole dei rifugiati e dei locali. Non ci sono buoni e cattivi tra i personaggi (anche se alcuni sono francamente antipatici), solo gente infelice e impoverita che la miseria e la disillusione spingono all’astio e all’aggressività. Loach li segue, li controlla, non eccede, non bara; persino ti aspetti quello che succede (perché, come diceva Hitchcock, “Se in un film fai vedere una pistola, poi quella pistola deve sparare”). Eppure, The Old Oak non è mai banale, “telefonato”, risaputo. Sappiamo dove vuole portarci e sappiamo che non ci resta che assecondarlo, perché la misura della speranza sta proprio in quelle pieghe della Storia, e in quelle piccole storie personali intraviste, sfiorate da una macchina da presa che sa ritrarsi, sa mettersi in secondo piano rispetto all’idea che vuole rappresentare.”

Emanuela Martini, da cineforum.it


 

 

 

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Perfect days
 

da domenica 15 a venerdì 20 dicembre 2024

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PERFECT DAYS

regia di Vim Wenders

 

“Si chiama Hirayama, proprio come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè. Lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo e conduce una vita abbastanza abitudinaria. Parla pochissimo e ha una grande passione per la musica, i libri e gli alberi che ama fotografare. Wenders segue il suo protagonista, dove la grandissima interpretazione Kôji Yakusho (premiato a 76° Festival di Cannes come miglior attore) crea con il suo personaggio un’intimità nascosta. Diventa il punto d’incontro tra il cineasta e quello che sta filmando. Si esprime quasi esclusivamente con il linguaggio del suo corpo. Prende per mano un bambino che ha perso la madre. Ripete quotidianamente i suoi gesti come quello di farsi la barba la mattina. Trova corrispondenze con sconosciuti come il foglietto della partita a tris in bagno. Cerca la bellezza anche guardando la partita di baseball in tv mentre mangia. Attraverso Hirayama, Wenders trova con una semplicità sconvolgente la poesia del quotidiano, in uno dei suoi film più belli e liberi di sempre. (…) I suoi legami non solo con il suo passato ma proprio con la sua storia personale riemergono con una copertina di un libro di William Faulkner, le musicassette di album come quelle di Lou Reed, Patti Smith, sogni in bianco e nero che sono forse le zone d’ombra, proprio come quelle oniriche del cinema di Truffaut.
È ancora un cinema on the road che svela il personaggio attraverso il viaggio, anche è quello della metropoli con cui condivide i ritmi, i rumori, gli umori. In Perfect Days c’è un documentarismo soggettivo, con tracce del cinema muto (dall’alba alla notte come Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann), con le inquadrature dall’alto, le luci del traffico, la pioggia. Il protagonista è spesso accompagnato solo dalla musica. “Sometimes fills so happy/Sometimes fills so sad” proprio come nel brano Pale Blue Eyes dei Velvet Underground. Forse i giorni sono tutti perfetti (ancora Lou Reed con il brano che dà il titolo al film), forse no. Ma al tempo stesso c’è anche la necessità nel suo cinema di un altro viaggio nella città giapponese dopo Tokyo-Ga. Certo, per ritrovare Ozu, ma non solo. Forse è da lì che riparte il suo cinema del passato. Forse lo sguardo sereno di Hirayama è lo stesso, oggi, di quello di Wenders. Che riguarda le bellezze del suo passato, quindi del suo cinema, senza rimpianti.”
Simone Emiliani, da sentieriselvaggi.it

Giulio Martini

Domenica pomeriggio

come immergersi nell' animo di Tokio avendo stavolta come perno la Torre della TV, simile alla Colonna della Vittoria nel cielo sopra Berlino ?
Facendo reagire al baluginare del sole che si leva  tra i rami degli alberi ( Komoredi )  un monaco metropolitano votato alla pulizia delle cose e alla purificazione delle passioni.
Senza l'ombra di una turpe emozione beluina  (nel film non compare neppure  un animale... ) ma esponendosi alla luce ,come  fa un albero o una foglia o una fotografia e una pellicola, il film invoca un' esistenza che sia unicamente  collezione  di memorie e immagini  delicate e tremule.
Sensibilità nipponica  (anche se ormai solo della generazione che sta scomparendo ) condivisa al 100% da un tedesco  sempre sensibile alla precarietà della vita e alla ricerca della serenità nell'attimo impermanente.
Ma c'è  anche  un grumo di infelice mascolinita', incapace di sintonizzarsi sull' evanescente sentire al femminile.
Anche questo tipico dei giapponesi e di Wenders.

Angelo Sabbadini

(Lunedì sera)

Per l'assoluto minimalismo drammaturgico sembra agli spettatori del Bazin che Perfect Days rappresenti un esplicito omaggio al cinema di Ozu. E in effetti il grande cineasta nipponico aleggia come una sorta di nume tutelare lungo tutto il film. Non è certamente un caso che il nome del protagonista – Hirayama – sia lo stesso di quello della famiglia di Il gusto del sakè (1963). E i più ricordano l'appassionato omaggio di Wenders a Ozu in Tokyo-Ga (1985). Alla fine del confronto tutti i visionari sono però concordi nel sottolineare come la predisposizione di Wenders verso il Giappone abbia subito uno scarto significativo. In Tokio-Ga prevaleva la nostalgia verso un Giappone che si temeva perduto sotto l'incombere della cultura occidentale . Mentre in Perfect Days sembra emergere un'adesione nei confronti del paese del Sol Levante e delle sue ritualità.

Marco Massara

Mercoledì sera

Un percorso emozionante ed affascinante alla scoperta di sé.
Hirayama nell’esercizio quasi sacrale della sua professione ai minimi della scala sociale scopre che può essere amato, acquista un ruolo fondamentale nel suo rapporto con la nipote e fa giocare una persona minata nella salute e che  che lo ha scambiato per l’amante della sua ex-moglie.
Il tutto con piccoli passaggi ricchi di significazione affidati ad una straordinaria prestazione attoriale di  Koji Yakush
o  
   .

E come canta nello splendido finale Lou Reed: E’ un nuovo giorno, è una nuova vita per me. E mi sento bene!”

Giorgo Brambilla

(venerdì sera)

In Perfect Days sembra che la bellezza passi attraverso le fessure: può consistere in uno scorcio di cielo colto da una finestra semiaperta, nel riflesso sul tetto metallico di un bagno pubblico, nel sole che filtra attraverso le foglie delle piante nelle foto scattate senza guardare nell’obiettivo, o nelle piantine che crescono per caso in posti improbabili e il protagonista porta a casa e cura amorevolmente. La vita è dura, il film ci lascia intravedere un rapporto difficile del protagonista con la famiglia d’origine, ma si può scegliere di vivere serenamente distinguendo l’adesso dalle altre volte, stando accanto alle persone che si incontrano, sforzandosi di cogliere il bello dovunque, chiudendosi in una bolla fatta di libri e musicassette, con una ritualità identica ogni giorno ma ogni giorno ricca, alla faccia di Spotify. Quindi non è che il dolore non esista e bisogna lottare per sorridere nonostante tutto, come si vede nell’ultima inquadratura (e unica frontale) di Hirayama, ma pare proprio che ne valga la pena

 

 

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Wim Wenders, protagonista nei primi anni ‘70 del Neuer Deutscher Film, è stato, tra tutti i protagonisti di quella straordinaria esperienza produttiva, il più permeabile alle suggestioni che venivano da lontano: in questo Perfect days, infatti, si intrecciano le suggestioni orientali e l’amore per gli USA (compreso un omaggio a Patricia Highsmith, da cui trasse, nel 1977, il notevole L’amico americano, con Dennis Hopper e Bruno Ganz). Il plot, infatti, discende diritto diritto dalla tradizione western: un tizio, per qualche ignota ragione che tuttavia possiamo intuire (incompatibilità sociale, potremmo dire: pare che il nostro protagonista nell’altra vita fosse manager ricco ma infelice, un classico), molla tutto (casa, famiglia, parenti e benessere) per vivere ai margini, isolato e ai limiti dell’indigenza. Unici passatempi: passeggiate in bicicletta, qualche libro, qualche serata in un saloon confortato da una “comprensiva” barista (qui però andiamo tra gli archetipi del narrare e ci troviamo catapultati sulla riva del mare, dove la locandiera Siduri, custode del giardino del dio Sole, offre a Gilgamesh birra e consigli). Musica all american, rock e blues. Ma si sa: il rock salva la vita, genera desideri, sogni e creatività. Piatto forte americano con contorno nipponico: i celebri bagni pubblici di Tokio, l’ombra del cinema classico giapponese (Ozu, in primis), l’ansia di fermare la luce in una foto, diventare albero tra gli alberi percorsi dal baluginio del sole. Un regista meno attrezzato ne avrebbe ricavato un pasticcio intollerabile, lento e falso, ma la fotografia è uno splendore, l’attore è magnifico (di quelli capaci di ridere piangendo e piangere ridendo, e sono pochi), la musica onnipresente e insopportabile (ma qui devo confessare la mia viscerale avversione per ogni forma di rock, straniero o nostrano). Il risultato un po’ così: il film si lascia vedere ma non suscita la curiosità di conoscere Tokio.
   

 

 

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La festa continua (2)
 

da domenica 24 a venerdì 29 novembre 2024  

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E la festa continua!

regia di Robert Guédiguian

 

“Improvvisamente, un terribile fracasso”. Comincia con questa didascalia E la festa continua! anticamera di una tragedia che dà il via al film più personale di Robert Guédiguian e forse più bello. Il 5 Novembre 2018 due palazzi al 63 e al 65 di rue d’Aubagne a Marsiglia, nel cosmopolita quartiere di Noailles quasi attaccato al famosissimo e cinematografico Porto Vecchio, crollano su loro stessi. Difetti di progettazione, allerte ignorate e la turistificazione selvaggia del posto hanno ucciso, quella terribile notte, otto persone. Le immagini di repertorio che scorrono sullo schermo sembrano preludere ad un lungometraggio d’inchiesta o ad un cinema sociale che racconti il vissuto della comunità o ad un cinema sociale che racconti il vissuto della comunità francese. Ed invece la mdp si sposta dentro una chiesa occupata mostrando Alice, attrice ed attivista, alle prese con le prove del coro. Lo scarto di Guédiguian è aspro: il racconto corale sceglie infatti di mettere a fuoco la famiglia del promesso sposo della ragazza, Sarkis, e della sua famiglia armena, alle prese invece con una quotidianità borghese quasi per nulla intaccata dalla catastrofe mostrata nei primi minuti. È il primo di una serie di bellissimi falsi indizi con cui una sceneggiatura, scritta in punta di penna ed intinta in un calamaio di ottimismo e bonomia straordinari, depista continuamente lo spettatore. Sullo schermo scorrono scene stracolme di vita e di poesia perché i tanti personaggi del film hanno un’energia, un attaccamento l’uno all’altro ma anche al nuovo (il tenero amore tra i futuri suoceri sbocciato così spontaneamente e con ardore adolescenziale) spiegabile solo con la malia di una città fondata non dai focesi, come vorrebbe il busto di Omero svettante sulla piazza, ma dagli armeni. (…) In questo poema urbano lieve ma non leggero (…) “Niente è finito, tutto comincia”. A Marsiglia, come al cinema.”
Mario Turco, da sentieriselvaggi.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Affettuoso e caldo coinvolgimento nella comunità (ormai poco comunista) degli Armeni di Marsiglia, tra nostalgia della Patria e delle tradizioni  paterne, non solo ideologiche ma anche etniche ed etiche.
La politica è ormai solo esortazione degli animi, poesia della solidarietà, libertà di sperare nell' aiuto e nella comprensione reciproca, anche se sembra troppo tardi per amarsi ancora.
Il quartiere diventa metafora dell'Armenia intera, che rischia di continuo un nuovo genocidio e la distruzione, ma resta la casa indimenticabile e meravigliosa da tener sempre viva e popolata.
Girato con semplice raffinatezza e arguta eleganza.

Angelo Sbbadini

(lunedì sera)

Ritorno all’amata Marsiglia per Robert Guédiguian dopo la parentesi africana. Ritorno alla sua famiglia cinematografica (Ascaride, Meylan, Darroussin, Boude) per riprendere la ricerca di spiragli di speranza. E con un tono leggero il regista riversa sullo schermo tutte le sue ossessioni: l’agonia comunista, l’eredità armena, i rapporti familiari, la miseria umana e sociale e la corruzione politica. “E la festa continua!” è un film dove si concentra tutto il rumore del mondo. Un film corale per credere in una seconda possibilità in amore, in politica e nel ricordo del padre. Non è anche questa una forma di impegno? I visionari del Bazin sostengono di si e plaudono ai personaggi del filmRitorno all’amata Marsiglia per Robert Guédiguian dopo la parentesi africana. Ritorno alla sua famiglia cinematografica (Ascaride, Meylan, Darroussin, Boude) per riprendere la ricerca di spiragli di speranza. E con un tono leggero il regista riversa sullo schermo tutte le sue ossessioni: l’agonia comunista, l’eredità armena, i rapporti familiari, la miseria umana e sociale e la corruzione politica. “E la festa continua!” è un film dove si concentra tutto il rumore del mondo. Un film corale per credere in una seconda possibilità in amore, in politica e nel ricordo del padre. Non è anche questa una forma di impegno? I visionari del Bazin sostengono di si e plaudono ai personaggi del film.

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Simpatico, nostalgico e ottimista o “ruffiano” e “buonista”? Oppure tutto questo insieme? Troppe storie che faticano a coesistere o un vortice di personaggi che gravitano naturalmente attorno a Rosa, protagonista e istanza narrante? Qualsiasi sia il vostro giudizio, un film sulla complessa natura della sinistra nella contemporaneità non può che porre problemi che Guediguian ora con allegria giovanile ora con pensosità matura ma la costruzione narrativa e filmica è molto tradizionale. Tra Marsiglia, Gramsci, Aznavour, l’Armenia, le autocitazioni e il monte Ararat, abbiamo trascorso due ore di tranquilli rimpianti e presente malinconia.

Rolando Longobardi

(venerdì sera)

Non convince pienamente il gioco tra realismo (materialismo dialettico) e utopia sentimentale che Guédiguean vuole rappresentare con il suo ultimo lungometraggio. La tragicità dell'esistenza, manifestata dalla presenza di Omero in forma marmorea, eterea, evocata, risulta a tratti eccessiva e rende la narrazione didascalica. Buono l'intento filantropico e intimo anche se poco convincente se relazionata nella realtà di una Marsiglia politicamente inesistente. Si inizia con immagini reali di repertorio, ma poi ci si perde nel frammento di citazione sinistra radical chic

Marco Massara

(Jolly)

E’ un film politico ?  Ebbene sì
E’ un film intimista  Altrettanto sì.

Peccato che, nonostante la gradevolezza dovuta ad ottima recitazione e doppiaggio il film non sa mai decidere su quale delle due strade prendere ed il tutto lascia un senso di incompiutezza.
Comunque affascinante.
Maria Cristina Cinquemani Come quasi sempre Guédiguian m'incanta. 
La sua narrazione è leggera ma anche profonda, piena di poesia, con uno sfondo musicale che ti conquista (con Mozart non si sbaglia mai), anche con le prove del coro diretto da Alice.
Non siamo più nell'ambito del povero proletariato di Marius e Jeannette, ma in una famiglia borghese di origine armena, comunque i personaggi sono sempre gli stessi, pieni di vita e di ideali, impersonati ottimamente dai suoi attori preferiti.
E' un film sereno e quasi fiabesco, colmo di bontà e di ottimismo, ma che non tralascia di affrontare le piaghe, purtroppo ovunque diffuse, dell'incuria e della negligenza che uccidono persone innocenti.
Bellissima la scena della piazza battezzata col nuovo nome: ha la potenza di un coro del teatro greco.

 

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povere creature
 

da domenica 1 a venerdì 6 dicembre 2024  

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Povere creature!

regia di Yorgos Lanthimos

 

“Il settimo film del regista greco Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato a undici premi Oscar, è una stupefacente creatura ibrida, di bianco e nero e di colori saturi, di convivenze che stridono e passano sempre vicinissime al troppo senza mai esagerare, come le chimere al tempo stesso penose e adorabili che gironzolano per tutta la pellicola. Povere Creature!, tratto dal romanzo omonimo del 1992 di Alasdair Gray, è un viaggio che parte da una Londra gotica e steampunk, come si conviene piena di vapore, metallo e macchine bizzarre, e sgorga in un flusso travolgente e divertentissimo di libere associazioni senza morale — ma non immorali —, una mano giù a pescare nell’inconscio puro, senza simbolismi elaborati o sovrastrutture intellettuali da decifrare, più vicina al Lamento di Portnoy (Roth, 1969) che a Mulholland Drive (David Lynch, 2001), tra Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974) e il Tim Burton de La sposa cadavere (2005). Le vicende di Bella Baxter (Emma Stone), corpo di giovane donna suicida e cervello del feto che aveva in grembo, sono un delirio controllato di sadismo e creatività, che si trasformano lentamente nel racconto della lotta per liberazione morale e sessuale della donna attraverso i secoli. Bella, man mano che il cervello si sviluppa, impara a camminare e a conoscere il suo corpo da miserabile Lolita-Oggetto (...) Vederla donna con movenze da bambina ci spinge a immedesimarci nello sguardo di una serie di adulti confondenti, che distorcono la tenerezza e la seduttività del cucciolo fino ad abusarne, sfruttando perversamente i bisogni e la pulsionalità del polimorfismo infantile. Lanthimos in effetti fa ampio uso di un grandangolo deformante come fosse l’occhio di chi vede l’altro attraverso la bramosia del potere esercitato con il sesso, la conoscenza o la sopraffazione fisica. Povere Creature! è una storia geniale di orrori e di trasformazioni, raccontata attraverso i corpi e i sensi ancor più che con le parole; una storia di umanizzazione a mio parere più vicina nella sua essenza a una declinazione moderna e femminista di Pinocchio che al più citato classico di Mary Shelley.
Il creatore di Bella, Godwin Baxter (detto God, Willem Defoe), è un grottesco dottor Frankeinstein a sua volta abusato e distorto dal sadismo del padre scienziato. Ridicolo e ripugnante, è il primo adulto mancato della storia, mai del tutto cresciuto e colonizzato dalle intrusioni paterne, col destino già inscritto nel nome. Anche se non incapace di tenerezza, fino alla fine non riesce a distinguere tra conoscenza e amore e a malapena trattiene gli impulsi sessuali per la figlia-creatura. Bella è dunque creata orfana, costretta a nascere e crescersi da sola, appellandosi alla sua vitalità e curiosità per il mondo, imparando da sé a sfruttare i suoi “poteri”. All’inizio per difendersi e poi, col tempo e apprendendo dall’esperienza, per scegliere di chi e cosa circondarsi, in un percorso di emancipazione in cui si vede benissimo la psiche incarnarsi nel corpo, passo dopo passo, attraverso la scoperta del piacere e del dolore e fuori da ogni convenzione sociale. (…) Lanthimos getta un amo politico al tema del corpo e della soggettivazione femminile ma riesce a farlo senza la grevità del pamphlet moraleggiante, non perdendo mai la capacità di giocare trasformando, come un bimbo che inventa con la plastilina.(…) La protagonista cresce quindi sulla sua stessa pelle, creando, sgomitando e… (non oso inventarmi un verbo per dire che si fa largo attraverso la genitalità, ma di questo si tratta!), infine trasformando la passività in attività e rompendo la coazione a ripetere dell’essere trattata come un feticcio. In questo film c’è tantissimo da districare, ma su tutto prevale un inno alla libertà e alla diversità così come alla singolarità, intesi come antitesi della perversione, che livella tutti i rapporti e schiavizza la curiosità. Eppure, la perversione resta sempre sullo sfondo come tentazione costante, come in effetti emerge nella punizione-trasformazione finale del personaggio più negativo e in fondo motore primo del film, pur catartica e coerente con tutto il resto.”
Filippo Barosi, da spiweb.it

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

 Con una fantasmagorica dovrabbondanza di scenografie e costumi e con la semplice/diabolica  idea  dell' innesto del cervello /animo di una figlia  nel  corpo di sua madre il film documenta e denuncia il destino eterno  - vile e servile - delle donne, condannate da una sessualità sottomessa al maschio ed a una sorte  fatale  - non solo nella cultura  vittoriana - per cui  invita alla fine ad una legittima rivolta.
Eccessivo e dark per scelta sui versanti visivi e sonori,ma lucidamente ed ironicamente recitato da tutti gli interpreti, lo spettacolo sconvolge il pubblico, impreparato ad una favola così aggressiva e cinica,eppure così realistica e liberatoria.

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Questa volta Lanthimos e il fido McNamara, grazie all’adattamento della graphic novel dello scozzese Alasdair Gray, si divertono assai. Costruiscono una spericolata favola gotica con al centro Bela Baxter (Emma Stone), versione femminile e femminista del mostro di Frankenstein. Con la scatenata eroina mettono in scena un Gran Tour distopico in cui il modello di riferimento è il cinema di James Ivory debitamente rovesciato di senso e di prospettiva. E poi caricano nell’impresa tutti i passeggeri possibili: l’horror, il cinema erotico, il romanzo di formazione, ecc. Ne risulta un caleidoscopio di suggestioni narrative, visive e sonore che prima stupisce e poi conquista i visionari del Bazin.

Marco Massara

(mercoledì sera)

-    A un bambino si concedono comportamenti anomali perché non ha autocontrollo
-    Se un bambino prova piacere lo pratica senza considerare le ricadute etiche e di costume.
Su questi assiomi l’analisi del film rivela il senso ultimo del film, passando per comportamenti a volte incoerenti ed altri assolutamente determinati,i per arrivare ad una ipotesi accettabile di emancipazione e autodeterminazione femminile.
Visionarietà ed eccessi sono la base su cui lavora Lanthmos, senza mai stordire lo spettatore, ma semmai affascinandolo progressivamente.
Emma Stone straordinaria.

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Povere creature racconta il cammino d’emancipazione di una donna che in teoria sarebbe una specie di mostro, in pratica risulta essere molto meglio di tutti gli esseri cosiddetti normali che la circondano. Corpo adulto con un cervello da bambina, sorta di creatura di Frankenstein, si forma divenendo una persona consapevole e libera, superiore ai tre uomini che cercano di farne quello che desiderano, tutti a loro modo malati di qualcosa: God (win) di fiducia esagerata nella scienza, quella stessa per cui suo padre ne ha fatto un mostro in primis; Duncan di dipendenza dal sesso, del quale esalta la libertà, salvo non riuscire ad accettare quella di lei; e il generale Blessington di pretesa di possesso, il peggiore dei tre. Nata Victoria, recante quindi in sé il nome che caratterizza un’epoca di perbenismo ipocrita, diverrà Bella, di nome e di fatto, e giungerà alla maturità attraverso la ricerca del piacere e l’accettazione del dolore; il suo candore infantile si trasformerà in capacità di autodeterminarsi restando fedele a se stessa e ne farà una creatura simile al film che la racconta, eccessivo ma affascinante da ogni punto di vista

Guglelmina Morelli

(Jolly)

Tipico film divisivo: o piace o lo detesti, senza via di mezzo. Appartengo alla seconda schiera, da anni, da quando mi capitò di vedere Kinetta e Kinodontas: li giudicai eccessivi, disturbanti, sostanzialmente noiosi. Lo stesso mi accade anche per questo ultimo, che riprende uno dei motivi tematici di Kinodontas (un padre rinchiude i figli in casa per evitare loro il contatto col mondo) ma si differenzia per la prolissità della vicenda, per le scenografie (grottesche, eccessive, il sogno di un folle o di un gran burlone, sostanzialmente ridicole) e per la valanga di denari che devono essere costati i costumi, i costumisti, i truccatori e i tecnici di computer grafica. Inutile, sconclusionato, talvolta il registra dà la sensazione di non credere neppure lui alla sua storia e, quindi, di prenderci vagamente in giro. Si salva la Stone, così fuori ruolo da risultare magnifica, inutile la divina Hanna Schygulla, qui però non metaforicamente “sulla riva del Nulla”. Considerazione finale: checché se ne dica, il cinema è Hollywood e nessuna produzione nazionale può competere con la sua potenza di fuoco. Infatti il nostro Lanthimos ricorda la Grecia solo perché un cliente di Bella in versione prostituta ne parla. In Grecia il film più visto e premiato (e che mai vedremo, cfr sopra) si intitola L’assassina, trae spunto da un racconto di Papadiamantis, un contemporaneo di Verga, è girato nelle campagne del Mani, Peloponneso. Andateci, nel Mani: ve ne innamorerete (il racconto è tradotto in italiano, leggetelo, vi innamorerete anche di quello per la sua straordinaria modernità.)
Maria Cristina Cinquemani
Nonostante i premi e le ottime critiche che questo film ha ricevuto non riesco a farmelo piacere.
Bellissime certe immagini fiabesche, bravissimi Dafoe, Ruffalo e la Stone, ma troppo gotica la narrazione e troppo piena di tutto: dalle scene di sesso a quelle di sadismo, dagli squartamenti ali esperimenti di trapianto. Non vi ho trovato neppure una gran difesa della emancipazione femminile.
Del resto non possiamo avere tutti gli stessi gusti.

 

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La zona di interesse
 

da domenica 17 a venerdì 22 novembre 2024    

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La zona di interesse

regia di Jonathan Glazer

 

“Se il film è tratto dall'omonimo romanzo di Martin Amis, è peraltro categorico nello scarnificarne la drammaturgia, implicando e mai evidenziando un racconto, consegnandosi, come fa, al puro dispositivo. È questo, del resto, il fondamento dell’operazione: lamentarsi, come si è fatto, per la mancanza di una progressione narrativa significa proiettare un’esigenza personale estranea a un film che questa convenzione la rifugge scientemente. Se tentare di fare prosa o poesia sull’Olocausto è operazione difficilissima e sempre ai limiti della pornografia, Glazer, con questa scelta drastica, sembra volerci dire che oggi l’unico modo di esprimersi cinematograficamente sull’abominio dei lager, senza cavalcarlo, sia mettere a rischio il prodotto film, renderlo difficile, ostico, non addomesticarlo a un pensiero comune subito digerito. E non tentare di conquistare l’attenzione dello spettatore con la commozione o con il raccapriccio: piuttosto, invece, sfidarlo proponendogli una rinuncia, che è quella all’intrattenimento, alla narrazione, alla esplicitazione didattica del senso della Storia. Impegnarlo sul serio. Non mostrando il campo di sterminio, ma solo evocandolo, Glazer impone al pubblico di completare il quadro: è in questa indotta ricostruzione mentale - non attraverso le immagini esplicite - che La zona di interesse riesce limpidamente a porsi come un film sulla memoria, una memoria davvero sollecitata, una memoria che si esercita fuori dalle retoriche e dagli automatismi commemorativi che inevitabilmente tolgono forza a questo tipo di esercizi morali. (…) Allo spettatore, dunque, l’elaborare l’incipit al nero, il fumo delle ciminiere, il titanico lavoro sul sonoro, la corolla di un fiore il cui rosso dilaga sullo schermo fino a esaurirlo.
E inevitabili baleneranno in testa i paralleli con il contemporaneo - la propria sicurezza domestica al confine con la tragedia - ché a dettare il comportamento di questa famiglia, prima dell’ideologia nazista di cui il marito/padre è strumento diretto, è una certa logica piccolo-borghese che mette il proprio benessere al primo posto rispetto a tutto, fosse anche il massacro di un popolo. (…) Ecco allora che La zona di interesse - per la densità di questa esperienza in equilibrio tra il detto e il non detto, il visto e il non visto - riesce ad essere da un lato un film sulla Shoah semidefinitivo, dall’altro - proprio per la dedizione assoluta con la quale il regista si pone al servizio della sua idea di messa in scena - un ossimorico scontro tra il dato storico e la modalità ipercontemporanea di ritrarlo: oscillando tra la logica del circuito chiuso delle telecamere di sorveglianza e quella voyeuristica a cui la televisione ci ha ormai abituato da decenni, l’opera si risolve in un’avanzatissima, quasi estrema sperimentazione sul cinema di consumo («Anche se l’abbiamo girato nel vero campo di concentramento, non è un film vintage, in costume, da mettere al museo. L’ho costruito con la lente del nostro mondo»), ottenuta attraverso un lavoro certosino (due anni solo per la postproduzione) volto ad ottenere un realismo a suo modo inedito («Sentivo di dover filmare tutto questo come se stessi riprendendo le persone reali»).”
Luca Pacioli, da spietati.it

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Nonostante alcune oscurità espressive ( le scene notturne mischiate alla fiaba di Hensel e Gretel ) un film dal messaggio  limpido e lineare, con una beffarda luminosità cromatica che fa da reagente alle tante immagini memorizzate al cinema della Shoa.
Originale anche l'uso del sonoro come stimolo al pubblico perche' almeno intuisca quello che i protagonisti  non vogliono  minimamente  né vedere.ne' sentire.

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Sono la musica angosciante di Mica Levi e il sound design di Johnnie Burn a destabilizzare gli spettatori del Bazin e a portarli nel senso profondo di La zona d’interesse di Glazer. Un lancinante tappeto sonoro di rumori, urla, suoni che raccontano l’insopportabile strazio del campo di concentramento. Una tragedia che non si vede mai, ma si sente senza soluzione di continuità. E il film di Glazer, appare ai presenti, innanzitutto un film da ascoltare, una composizione tragica con una ouverture iniziale in nero e una conclusione lancinante fatta di grida e clangori.

Guglielmina Morelli

(mercoled sera)

 Impossibile sintetizzare nelle nostre tre righe questo ultimo film visto tali e tanti sono le suggestioni e gli stimoli che dà allo spettatore (cui si chiede autentica compartecipazione). Mi limiterò a sottolineare l’aspetto che più mi è parso moderno: se nel mondo dell’immagine esiste solo il vedere (anche se la visione può essere “falsa” o mistificante) qui conta ascoltare e capire e sapere. Un vero rovesciamento del senso comune e un invito a “guardare” oltre i muri che, isolando e chiudendoci nel nostro illusorio “paradiso”, ci rendono davvero ciechi e sordi.

Giorgio Brambilla

(venerdìì sera)

Mi pare che il senso de “La zona d’interesse” sia esplicitato dai suoi inizio e fine: musica dissonante e rumori di morte su un fondo nero. C’è tutto: l’irrappresentabilità dell’orrore, lasciato costantemente fuori campo e solo evocato; la dissonanza tra la quieta vita della famiglia Höss in un paradiso e l’inferno oltre il muro; la vita da manager del capo della più grande macchina di morte nazista, che tratta con seri industriali in giacca e cravatta venuti a proporgli con orgoglio un modello di crematorio molto più efficiente dell’attuale; la gioia di Rudy alla notizia della progettata eliminazione di ottocentomila di ebrei ungheresi, che gli permetterà di tornare dalla sua amata famiglia; la giovane che, ripresa con camera sensibile al calore e quindi visibile come “in negativo”, sparge di nascosto cibo che i prigionieri possano trovare quando vanno al lavoro, come una sorta di terrorista al contrario; il fatto che lo stesso Höss preghi i suoi superiori di non spostare la moglie e i figli, perché lì hanno costruito l’ambiente perfetto per farli crescere, o che non capisca di essere lui stesso la strega cattiva della favola di Hansel e Gretel, che meriterebbe di finire nel forno. Si potrebbe andare avanti per molto, perché molti sono i momenti esemplari di questo testo che sa unire etica ed estetica con tale sapienza da contribuire in modo significativo a un profondo rinnovamento dell’ampia cinematografia sulla Shoa

Marco Massara

(Jolly)

Un film di rara intelligenza. E’ immediato il riferimento alla banalità del male, tra la pace quasi idilliaca del  giardino di casa Hoss e quello che ci viene fatto immaginare con la ‘tavolozza’ di suoni inquietanti ed espliciti. Ma non solo: un monito assolutamente contemporaneo con la altrettanto esplicita indicazione del rischio di creare una ‘confort zone’ in cui rinchiuderci e che ci separi dall’orrore della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ che invece dobbiamo evitare di isolare con un ‘muro’ virtuale simile a quello fisico di casa Hoss.

Maria Cristina Cinquemani

Il film ha indubbiamente una potenza che colpisce allo stomaco, a partire dalla incredibile immagine della villetta ridente e piena di fiori delimitata dal muro del campo di concentramento, con la torretta di guardia che svetta nel cielo.
Questa perfetta famiglia tedesca potrebbe essere quella di un normale dirigente d'azienda, sereno e felice di tornare a casa dopo una giornata di duro lavoro, soddisfatto degli obiettivi raggiunti.
Una delle scene più agghiaccianti è quella delle signore che, come ad un qualsiasi incontro fra amiche, raccontano dei trofei provenienti dai deportati ebrei di cui sono venute in possesso.
Ho però anche trovato dei lati negativi: una narrazione criptica dove, senza un'accurata spiegazione, non si capivano alcune scene (cosa c'era nel fiume?, cosa faceva la ragazzina di notte?) per non parlare dell'esagerato simbolismo delle schermate nere o rosse.
Decisamente un film da vedere con un manuale d'istruzioni.

 

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