Vermiglio
da domenica 18 a venerdì 23 maggio 2025
VERMIGLIO
regia di Maura Delpero
Quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti”, si sussurra a Vermiglio, ultimo comune della Val di Sole in Trentino, una storica terra di confine. Siamo nell’inverno del 1944, gli ultimi fuochi della Seconda Guerra Mondiale si avvertono come echi lontani (nelle notizie sui giornali) e come sospiri vicini (nella speranza del ritorno dei propri cari dal fronte). La crisi economica, l’instabilità politica, il nuovo ruolo femminile nella sfera pubblica e gli antichi tabù culturali… Vermiglio è un microcosmo sentimentale che rappresenta l’Italia alla vigilia del suo anno zero. Cosa accade? Un giovane soldato siciliano, probabilmente un disertore, si rifugia sulle montagne limitrofe: Pietro è un ospite inatteso che il villaggio accoglie e guarda con sospetto, tra pregiudizi e nuovi affetti. A Vermiglio, infatti, vive un integerrimo maestro elementare (Tommaso Ragno, perfettamente in parte) che ama Chopin e la terra da coltivare, le arti e la natura. È un uomo severo, a tratti autoritario, ma mai tirannico nel rapporto con le sue tre figlie che allegorizzano tre anime dell’Italia che verrà: Lucia siavvicina pian piano a Pietro sposandolo; Ada vorrebbe continuare a studiare ma è destinata a soffocare desideri e aspirazioni; la più piccola, Flavia, è l’erede designata delle aspirazioni sociali del padre ma avverte tutto il peso della responsabilità. La guerra è finita: Pietro può ora tornare in Sicilia per regolarizzare la sua situazione ma questo evento, paradossalmente, romperà la pace del villaggio.
È un film affascinante e ipnotico Vermiglio, costruito su costanti ellissi narrative nelle quali gli eventi accadono spesso in fuori campo, lasciando a noi spettatori la condivisione delle conseguenze umane. Il dramma si insinua silenzioso nella quotidianità, nel fluire della vita e delle stagioni, come correlativo oggettivo di una difficoltà a far collimare l’azione al sentimento. Pensiamo al bellissimo personaggio di Ada e alla sua ricerca identitaria posta sullo sfondo di una tragedia collettiva (la guerra) e di una tragedia privata (il destino della sorella Lucia incinta) che reclamano il primo piano. Eppure Ada è capace di generare emozioni e riflessioni “contemporanee” confinate in una manciata di scene rubate alle linee d’azione principali. (...) Certo, il film sconta qualche schematismo nella definizione dei suoi caratteri e qualche semplificazione narrativa nel comprensibile timore di mettere in chiaro i tanti fronti delle riflessioni contemporanee (la guerra, la maternità, la condizione femminile, l’orientamento sessuale, ecc). C’è tanto altro, però. Perché Delpero continua a fidarsi delle proprie inquadrature aprendole a una moltitudine di significanze possibili, quindi concedendoci il giusto tempo di lettura. Questo è un film che crede ancora nella potenza dei luoghi e dei volti come tramite per andare oltre le storie contingenti, inscrivendosi in una tradizione di cinema italiano che fa dell’etica della forma la sua intima riflessione umanista. Insomma, Vermiglio è un film sincero e onesto con il suo spettatore confermando in Maura
Delpero uno sguardo registico personale e consapevole che arricchisce il panorama del cinema italiano contemporaneo.
Leone d’argento. Gran Premio della Giuria all’81° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia
Da www.sentieriselvaggi.it
“Nel 2019 un piccolo, compatto e struggente film d'esordio conobbe la rara fortuna di ottenere un Premio a Locarno, due candidature come opera prima ai David e ai Nastri d'Argento e una lusinghiera circolazione per Festival Internazionali e distribuzioni varie. Si intitola(va) Maternal, con regia della bolzanina Maura Delpero. Analoga profondità di temi e medesima pulizia di tocco si colgono ora in Vermiglio (è il nome del paese, in provincia di Trento, ma è anche il luogo dell'anima della regista a cui si aggiungono inevitabilmente le suggestioni del nome), ben scelto per partecipare in Concorso alla Mostra del Cinema. “Lessico familiare”, lo ha definito l'autrice, mescolando finzione ed evocazione autobiografica. Un anno, l'ultimo fatidico della Seconda guerra mondiale, a scorrere le quattro stagioni di questo paese/comunità abbarbicato sui monti, in cui domina con pacata autorevolezza sussiegosa la figura del maestro elementare, padre di 10 figli (tra quelli che ce l'hanno fatta a crescere e quelli no) e che ospita in malga anche un disertore siciliano in attesa del mutare degli eventi. Tra rispetto e ritrosia dei tanti verso il forestiero, tra questi e la primogenita (Martina Scrinzi) nascerà una passione elementare e inarrestabile che avrà conseguenze radicali. (...) Musica popolare, cultura montanara, dialetto, tragedie rusticane, il monachesimo come scelta di ribellione e libertà, la maternità come conseguenza naturale, accettata e indiscutibile, con una cadenza che si tiene distante dai ritmi del cinema più commerciale: Vermiglio è, per usare le parole della lucidissima autrice, innanzitutto “un paesaggio dell'anima”, cui accostarsi con rispetto e ammirata stima
Da www.cineforum.it
“Maura Delpero, brava, bravissima. Dopo il pluripremiato Maternal (2019), si volge - e senza deflettere dal femminile, e dal (pluri)materno - al padre, il proprio, rintracciando nel vissuto avito un piccolo mondo antico e le improntitudini dell'oggi, ovvero dell’universale umano. Una sorta di Paternal, mai però paternalistico, istruito dalla morte – e dal sogno di lui bambino nella casa di famiglia – del padre ed elevato a poema esistenziale, mai condannato all’antropologico o al naturalistico, per quanto entrambi contemplati con rigore filologico.
L'albero degli zoccoli, apparentava il direttore della 81 Mostra Alberto Barbera nel presentare questo Vermiglio, ma c'è anche, accanto alla finesse dei bambini e adolescenti di Doillon e Philibert, un esprit de geometrie da Haneke, ossia una coreografia stilistica e morale parimenti del consesso. Modera e insieme smobilita, Delpero, asseverando un cinema-cinema, anche laddove l'immagine sembra desistere dall'imperativo formale - e il dialogo preponderare.”
Da www.cinematografo.it
“Fin dalle sue prime inquadrature, Vermiglio – secondo film di Maura Delpero e vera sorpresa dell’ultimo Festival di Venezia (Gran Premio della Giuria) – ci trascina immediatamente in un immaginario primordiale: vediamo mungere una mucca e quel latte diventare nutrimento per una famiglia. Un gesto semplice e naturale che però ha già dentro di sé una dinamica di rapporto sociale ben precisa: un ruolo predeterminato (quello della mucca allevata), uno sfruttamento di un corpo (la sua mungitura), il beneficio che ne trae la comunità (la famiglia). Un primo indizio, restituito attraverso le sembianze di un quadro fiammingo del ’700, di quello che ci aspetterà per tutto il resto del film. Una storia di ruoli, di
sacrifici e di immolazioni, una narrazione sul dolore per i desideri negati, ma anche sulla necessità di riconoscerli e tenerli vivi, almeno dentro di sé.
Un racconto, insomma, in equilibrio, quasi ai confini dell’umanità e delle sue anime. E non è un caso che Vermiglio, il luogo (o non luogo) sulla montagna del Trentino dove è ambientata la pellicola, sia un borgo che fino al 1918 è stato “ai confini del Regno”, crocevia tra il territorio austro-ungarico e quello italiano. (...) In questo affresco familiare c’è l’Olmi de L’Albero degli Zoccoli (quasi omaggiato), c’è il Giorgio Diritti delle comunità montane, ma c’è anche uno sguardo più contemporaneo e per certi versi anche più politico, che ricorda il cinema di Kelly Reichardt, non solo quello ginocentrico ma anche le sue opere più recenti come First Cow, in cui l’arcaicità del periodo e l’essenzialità della messa in scena sono un filtro per indagare le origini sociali e culturali (del capitalismo per Reichardt, dei rapporti di genere per Delpero). È in questo impianto brulicante di vita brada che Delpero dimostra una capacità fuori dal comune di unire i ritratti dei suoi personaggi, sempre senza un centro propulsore o una gerarchia di eventi, ma dando priorità a una narrazione che si distende in orizzontale, evocando una varietà di microcosmi diversi senza mai risolverli completamente. Al contrario: conferendo un carattere di infinitezza che contrasta con i limiti di un contesto chiuso e ostaggio del proprio tempo.
Ad alimentare questa narrativa è soprattutto un’estetica asciutta, rarefatta, con i freddi toni grigio-bluastri ad accentuare un senso di fatalità: una fatalità che rispecchia sì l’arbitrio della natura circostante (le montagne come prigione dei corpi), ma anche quel mondo sociale ineluttabile, che opprime, che sentenzia, che moraleggia, che insomma rende ostaggi della propria esistenza una serie di personaggi – tutti femminili – testimoni di una genesi fatta di desideri e sacrifici. In un equilibrio continuo e costante che non permette liberazioni, che non consente scelte di vita diverse da quelle predestinate dalla società patriarcale, che permette solo rinunce ai propri sogni e alle proprie ambizioni. Del resto, il vermiglio, inteso non come luogo ma come colore, quello che simboleggia la passione o, se vogliamo, la voglia stessa di passione, non appare mai: è piuttosto la cromia di uno stato d’animo interiore delle tre sorelle, capaci di affrontare con una certa incrollabilità quegli eventi che le travolgono o che semplicemente le standardizzano a una forma sociale predeterminata.
Qui il discorso di Delpero si fa appunto sociologico, ma non si limita a uno sguardo didascalico: si sofferma sui volti e sui dettagli dei luoghi, calcola il minutaggio delle inquadrature per renderle quadri espressivi, fa dialogare campo e fuori campo aprendo all’immaginare più che al raccontare. Insomma: se la semplicità della storia e qualche stereotipo di troppo (soprattutto nell’ultimo atto) rendono Vermiglio un film apparentemente innocuo, è invece lo sguardo autoriale della sua regista che fa implodere l’indagine di quel mondo oltre a quello che vediamo. E allora la guerra, l’immigrazione, la maternità, la condizione femminile, l’orientamento sessuale diventano particelle che risaltano in un flusso inesorabile (di stagioni, di generazioni, di luoghi), e l’evocazione della loro presenza non passa da una centralità dell’azione (che è sempre repressa o messa in secondo piano), ma la percepiamo come sentimento diffuso che vibra di un suo particolare calore. Ogni vita, sembra dirci Delpero, nonostante i contesti e le condizioni sociali, anche nel più sperduto degli spazi e delle epoche, ha una sua tensione, una sua identità, un suo modo per vivere il proprio tempo senza accettare di essere compressa dalle leggi degli uomini.
Raramente, dunque, la destrutturazione per immagini di una storia quasi essenziale restituisce così tanti significati quanti ne riesce a trasmettere Maura Delpero con la sua consapevolezza del mezzo cinematografico. Vermiglio è un ritorno inaspettato e potente alla tradizione più espressiva del neorealismo italiano ma anche una sua attualizzazione necessaria, che proietta la sua autrice in una posizione quasi unica nel panorama del nostro
cinema (che ha scelto proprio lei per rappresentare l’Italia ai prossimi premi Oscar). In un’epoca in cui non c’è bisogno tanto di ulteriori storie da raccontare quanto di (nuovi) sguardi e (vecchie) memorie, Delpero dimostra di avere entrambe le cose: e il materiale di Vermiglio testimonia quanta bellezza si può generare quando si è capaci di farle dialogare insieme.”
Da www.anonimacinefili.it
L'orchestra stonata
da domenica 11 a venerdì 16 maggio 2025
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L'ORCHESTRA STONATA
regia di Emmanuel Courcol
“Bisogna accettare le regole del gioco per potere apprezzare un film come L’orchestra
stonata . Il dover arrivare dove si vuole anche a costo di sacrificare il come. (...) Non bisogna
neppure fare chissà che sforzo d’immaginazione per individuare quale sia il lignaggio
dell’operazione: produce la Agat Films & Cie di Robert Guédiguian, la cui impronta
sentimentale e schiettamente proletaria è evidente in questo terzo lavoro da regista e
sceneggiatore dell’attore Emmanuel Courcol (specializzato in serialità televisiva).
Apprezzabile il fatto che l’ancoraggio emotivo dell’operazione affondi solo in minima parte
nel terreno sempre delicato del tema ospedaliero (l’esperienza della malattia di Thibaut,
molto sfumata) e sia invece affidato alla narrazione della famiglia, del che cosa significhi
averne una - di sangue e non - e di quale potere curativo sia capace nel combattere
sofferenze, insicurezze, solitudini (le vere malattie da curare).
E si comprende allora come il ritrovarsi, poi riperdersi e infine riconoscersi tra l’esponente
agiato di un élite culturale (Thibaut) e il figlio di un proletariato fiero se pure in dismissione
(Jimmy) sia l’espediente per celebrare un’auspicabile fratellanza di classe, che includa
intellettuali e operai lasciando fuori capitalisti e politici al soldo. Utopia amabilmente ingenua
come una commedia di Loach o una favola a lieto fine di Guédiguian. Autori a cui Courcol
guarda anche nella scelta di ambienti, volti e colori, con quella miscela di solare e ruspante
armonia che allevia ogni tensione e disinnesca con ironia i conflitti, che pure ci sono. (...)
Dicevamo dei volti. Il lavoro sul cast è indubbiamente una delle carte vincenti
dell’operazione: Benjamin Lavernhe, non lo scopriamo oggi, è un attore capace di portare a
ogni ruolo che interpreta un tatto, una delicatezza che conquistano. In lui si esalta
quell’attrazione della fragilità che pochi altri attori della sua generazione possono vantare.
Esattamente all’opposto Pierre Lottin, che ha la robustezza sana e l’acume dell’uomo del
popolo. Si dirà che anche fisicamente i due riproducono gli stereotipi dell’intellettuale
gracilino e dell’operaio sanguigno, ma non sono certo gli unici cliché di un film che lavora
proprio sugli hint e le rassicurazioni per un pubblico desideroso di uscire dalla visione
confortato più che provocato.”
Da cinematografo.it
“Non è la classica storia di famiglia su due fratelli che non si sono mai conosciuti. È invece la
musica che diventa l’elemento trainante del terzo lungometraggio diretto da Emmanuel
Courcol: classica, jazz, marce, la Sinfonia n. 3 di Mahler, il Bolero di Ravel. Non solo. Il
cineasta la mette in scena attraverso i corpi dei due protagonisti, interpretati da Benjamin
Lavernhe e Pierre Lottin, che diventano parte integrante di una partitura dove le dichiarate
tracce da melodramma sulla malattia restano sottotraccia per quasi tutta la durata del film.
Thibault, un celebre direttore d’orchestra, scopre di essere malato di leucemia e ha bisogno
del trapianto del midollo osseo. Sua sorella però non è compatibile. L’unico che può aiutarlo
è una persona che non ha mai visto. Si tratta di suo fratello di sangue, Jimmy, un operaio
che suona il trombone nella banda musicale.
Sono i suoni che danno il ritmo, fanno partire una scena (...) la musica è spesso al centro dei
discorsi: i due fratelli parlano del si bemolle in Miles Davis, trovano i primi momenti di
complicità con la copertina di un disco di Lee Morgan. In più c’è una danza trascinante sulle
note di Laissez-moi danser di Dalida.
Anche se L’orchestra stonata – presentato al 77° Festival di Cannes nella sezione Cannes
Première – sconta un certo didascalismo a livello di scrittura soprattutto nel rimarcare le
differenze tra i due protagonisti e una certa prevedibilità in alcune situazioni (il direttore
d’orchestra che lascia la banda), ha il merito di arrivare diretto e di affrontare in modo
efficace la crisi economica accennando alla condizione dei lavoratori della fabbrica dove
lavora Jimmy. In più è proprio la differenza di recitazione tra Lavernhe e Lottin che rende il
film più autentico e che lo fa crescere alla distanza.”
Da sentieri selvaggi.it
“L’orchestra stonata è un bel film, ed è un bel film come soltanto i film francesi (e le dramedy
francesi in particolare) sanno essere belli, larghi, pop, sorridenti e insieme commoventi,
senza mai diventare scontati, melensi o troppo retorici. E soprattutto sanno tenere insieme
generi diversissimi, come il cancer movie (che però qui diventa solo pretesto, innesco per la
trama), il family drama e la commedia sociale con la massima spontaneità e semplicità,
muovendosi naturalmente tra una certa delicata ironia e toni invece più seri (ma mai seriosi).
Il tutto attraversato dalla musica (la classica, il jazz, ma anche brani meno scontati, come
Emmenez-moi di Charles Aznavour), che è insostituibile punto d’incontro/scontro tra due
fratelli e il modo di essere comunità, di diventare persino famiglia per una banda
sgangherata della città di minatori di Walincourt, nel distretto di Lille, Francia del Nord.
Qui Jimmy (Pierre Lottin) lavora come inserviente nella mensa della fabbrica che sta per
chiudere, passando gli avanzi agli operai che fanno i picchetti, e suona il trombone a
orecchio nella fanfare, finché qualcuno non arriva nella sua vita e il desiderio di un’esistenza
migliore sembra poter diventare realtà. Quel qualcuno è Thibaut (Benjamin Lavernhe),
direttore d’orchestra di fama mondiale che ha appena scoperto di essere malato di leucemia,
di aver bisogno di un trapianto immediato di midollo osseo e – contestualmente – di essere
stato adottato. Indovinate chi è il suo fratello biologico.
C’è la commedia sociale britannica di Ken Loach ma con un gusto che resta
meravigliosamente francese e c’è anche l’ottimismo della volontà – per dirla alla Gramsci –
di Robert Guédiguian (che, non a caso, produce) in questo nuovo film di Emmanuel Courcol
(Un triomphe). Che è esattamente quello che i francesi sanno fare meglio di tutti (e che in
Italia non riusciamo a fare, non così): il grande cinema popolare che – attenzione – non vuol
dire necessariamente feelgood movie (anche perché vi sfido a non uscire in lacrime dalla
sala dopo il finale, e mi fermo qua) e nemmeno “basso”, cheap, per intenderci, ma storie che
riescono davvero a toccare il pubblico, grazie soprattutto alle emozioni e all’umanità dei
personaggi in cui ci si può facilmente riconoscere.
Merito anche dei due protagonisti, così diversi eppure così (in)credibilmente fratelli:
Lavernhe più intellò, snob ma fragile e Lottin più proletario, robusto nel fisico e impetuoso
nel temperamento. Sono loro il centro saldissimo dell’Orchestra stonata: il loro rapporto,
l’unione musicale e fraterna tra i loro due mondi.”
Da Rolling Stone.it
“La dote principale del cinema francese - quando scritto, recitato, confezionato con
impeccabile abilità come nel caso di En fanfare - è quella di saper gestire con apparente
naturalezza elementi eterogenei. Emmanuel Courcol, in passato autore dell'ottimo Weekend,
parte dal dramma medico, passa alla vicenda famigliare dell'incontro tra i due fratelli adottati,
poi allo scontro sociale fra i due protagonisti (uno borghese, l'altro proletario, uno realizzato,
l'altro fallito) e infine arriva addirittura al racconto militante e sociale, con l'accenno alla crisi
economica del nord e alle proteste operaie per la chiusura delle fabbriche... A fare da
trait-d'union è naturalmente la musica, anch'essa connotata in modo duplice, raffinata e
orchestrale nel caso di Thibaut, immediata e grezza, da fanfara per l'appunto, in quello di
Jimmy, ma capace di avvicinare i due fratelli. Grazie anche all'opposta, perfetta
interpretazione di Benjamin Lavernhe (Thibaut) e Pierre Lottin (Jimmy), il primo sensibile e
un po' supponente nella scoperta di un mondo infinitamente distante dal suo, il secondo
istintivo e umorale, desideroso di riscatto ma troppo orgoglioso per ammetterlo, il film alterna
vari registri senza perdere il controllo della materia. Mai patetico o all'opposto manipolatorio
(nonostante ci siano tutti gli elementi del caso, dalla relazione di Jimmy con una collega alla
simpatia di un ragazzo down membro dell'orchestra), En fanfare dimostra limiti proprio in
una scrittura fin troppo controllata.
Roberto Manassero da MYmovies.it
Giulio Martini Domenica pomeriggio |
finalmente un successo dell'attempato inventore di storie,qui che mai affiliato al clan di Guediguian. Con una tessitura simile a quella tipica del Produttore, ma più movimentata e densa di colpi di scena , ed in aggiunta evidenti metafore sui vari modi analoghi di far musica ( armena e non ) e fare cinema il film spizza di meditato ottimismo. Un ottimismo " nonostante tutto ", perché la micidiale casualità della vita può essere trasformata in opportunità da giocarsi al meglio, specie se sostenuta dalla fratellanza e dalla solidarietà sociale. |
Angelo Sabbadini Lunedì sera |
Agli spettatori del Bazin la definizione di commedia sta stretta: ai più L’orchestra stonata sembra un melodramma comprensivo di agnizione e tragedia finale. Ma ciò che piace di più è la musica: da Clifford Brown ad Aznavur, da Mendelssohn alla dance anni Settanta di Dalida, dalla tromba jazz di Benny Golson a Maurice Ravel. Una manna servita da due bravi attori: Benjamin Lavernhe, proveniente dalla Comédie Française, e Pierre Lottin, portamento da bell’imbusto e faccia da schiaffi. Alla fine, prima volta nella stagione, in sala scatta l’applauso. |
Guglielmina Morelli Mercoledì sera |
Abbiamo terminato il nostro filotto di film francesi con questo gradevolissimo L'orchestra stonata. Bello perché racconta una storia con personaggi “veri”, senza melodrammi e con rigore e linearità nello svolgere la vicenda, perché ci dice che la salvezza è solo nell'aiutare e nel farsi aiutare (chi salva chi in questo film? Il trombonista proletario che offre il suo midollo o il raffinato musicista che dà consapevolezza? O i due finiscono per scoprire una fratellanza adulta e solidissima?). Nessuno qui è lasciato indietro o disprezzato: la vita si percorre insieme agli altri. E poi la musica che contrappunta le fasi della storia e tre sono, a mio parere, i brani decisivi, anche perché tornano più volte e suggeriscono senso: I remember Clifford, lo struggente omaggio ad un genio morto giovane, standard jazz che fa riconoscere simili i due protagonisti; Emmenez-moi, che si ascolta per tre volte, il sogno di un caldo “paese delle meraviglie” (cantato ovviamente da Aznavour) dove vivere; infine il Bolero, che diventa nel finale la musica di tutti, orchestra, banda e persino spettatori. Davvero commovente ma senza essere strappalacrime: così si fa! |
Rolando Longobardi venerd sera |
Si vede che Courcol ha una grande esperienza da narratore e sceneggiatore. En fanfare è un racconto ben riuscito che è capace di rendere in modo armonico (appunto) tutto quello che la vita può riservarci: salute, lavoro, famiglia e arte.
Non si scade mai sotto tono drammatico o patetico ma questo film sa essere un crescendo di emozioni e suoni, diversi ma che sanno renderci uguali. Un bel film, positivo, nonostante i tempi (ahimè poco udibili e molto stonati) che stiamo vivendo.
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Marco Massara Jolly |
Quando in un film inserisci alla fine un’orchestra che suona(bene)la carica emotiva prevale. In questo caso per non bisogna dimenticare una certa superficialità, o meglio una eccessiva disinvoltura nel trattare temi importanti (sulla scoperta del fratello adottato ci sono molti film dedicati solo a questo) e anche i colpi di scena generano dei troppo forti cambi dei registri della narrazione. Il regista, nonostante i suoi 67 anni suonati è alla sua opera prima, dopo tuna buona carriera attoriale, e come tale si comporta: come diceva Giuseppe II a Mozart n Amadeus: “troppe note” e troppo disinvolte. |
Diamanti
da domenica 27 aprile a venerdì 2 maggio 2025
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DIAMANTI
regia di Ferzan Ozpetek
"Ci saranno in tutto quattro uomini", annuncia fieramente: e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. Più che al Pedro Almodovar cui all'inizio della carriera veniva paragonato, Ozpetek richiama qui il Francois Ozon di Otto donne e un mistero, dove gli uomini sparivano completamente (uno per mano di una delle protagoniste), e più che a Douglas Sirk strizza l'occhio al Leo McCarey di Un amore splendido. "Non c'è niente di quello che ti aspetti", annuncia Ozpetek alle sue attrici, e invece Diamanti è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità. (...)
Tutto il cast corale è in forma smagliante, e svettano Mara Venier nei panni dimessi di Silvana, Milena Mancini in quelli di Nicoletta e Milena Vukotic nel ruolo della zia Olga. Ma è una gara di bravura e Lunetta Savino, Paola Minaccioni e Geppi Cucciari gestiscono le parentesi comiche alleggerendo una trama che talvolta vira al melò. Vanessa Scalera è come sempre potente nel ruolo di Bianca Vega, che comanda le donne ma si lascia intimidire davanti all'unico uomo (Stefano Accorsi, nei panni del regista del film per cui Vega crea i costumi). Ozpetek compare occasionalmente fra le sue attrici, a ricordarci metacinematograficamente che questa è una messinscena polifonica.”
Paola Casella da www.mymovies.it
“Del mondo fuori c’è l’eco: le contestazioni giovanili e il femminismo, per esempio, ma anche un bambino spaesato e una carrozzella, sono solo chiavistelli per irrompere nell’unico mondo che conta. Quello del cinema, cioè la sartoria dove si creano i costumi che edificano i personaggi (un plauso al lavoro di Stefano Ciammitti), nonché la finzione subito esplicitata dall’incipit programmatico: il regista, Ferzan Özpetek, e tutto il cast attorno a una tavolata, in attesa di mangiare (topos dell’autore, d’altronde) e leggere il canovaccio di Del mondo fuori c’è l’eco: le contestazioni giovanili e il femminismo, per esempio, ma anche un bambino spaesato e una carrozzella, sono solo chiavistelli per irrompere nell’unico mondo che conta. Quello del cinema, cioè la sartoria dove si creano i costumi che edificano i personaggi (un plauso
al lavoro di Stefano Ciammitti), nonché la finzione subito esplicitata dall’incipit programmatico: il regista, Ferzan Özpetek, e tutto il cast attorno a una tavolata, in attesa di mangiare (topos dell’autore, d’altronde) e leggere il canovaccio di Diamanti. (...) Siamo nel 1974, certo, ma la Sartoria Canova è un mondo a parte incastonato tra muri “parlanti” (con murales ovviamente femminili) e strade senza traffico (quasi precluse a quelle auto che portano morte), un altrove che trascende la cronaca e appartiene alla mitologia, abitato da personaggi barricati nel ricordo (gli amori perduti e le figlie perse che impediscono di vivere serenamente), nella nostalgia (Mara Venier ex soubrette reinventatasi cuoca), nelle bugie a cui vogliamo credere (Anna Ferzetti che rimpiange il forse agiato compagno turco), nella reticenza (la liaison segreta di Lunetta Savino, le violenze domestiche subite da Milena Mancini), nel divismo (Carla Signoris e Kasia Smutniak che si scontrano come in un Match di Arbasino), nell’ansia da prestazione (Vanessa Scalera costumista da Oscar). Diamanti si concentra su un mese forsennato, con la sartoria è impegnata su più fronti, in particolare nell’impresa di completare i costumi di un kolossal ambientato nel Settecento (le indicazioni della costumista sono chiare: evitare la deriva documentaristica, seguire l’istinto, ricorrere alla fantasia. Come le eroine del film, Özpetek difende il fortino del suo immaginario: in continuità con il sottostimato Nuovo Olimpo, si dichiara cittadino del cinema, incastra la storia nella realtà e si serve degli incidenti della vita (l’intervento di Elena Sofia Ricci, che ha due apparizioni magnifiche, è un manifesto teorico), omaggia maestri (“Vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”) e simulacri (l’evocazione del costume da vescovo di Roma di Fellini, opera di Danilo Donati), rimpiange quel che fu (le grandi produzioni che investivano sui costumi) e quel che resta (...) E, in parallelo, si fa sacerdote di un mondo salvato dalle donne, siano esse al comando (le sorelle Luisa Ranieri, algida e severa con parrucca rossa, e Jasmine Trinca, sofferente e tormentata con tendenza alcolica, entrambe emancipatesi da un destino deludente) o pezzi di una comunità solidale (i maschi vanno disinnescati, smontati, desacralizzati e magari sessualizzati: Geppi Cucciari docet).”
Lorenzo Ciofani da www.cinematografo.it
“Ogni film di Ferzan Özpetek è un film su Ferzan Özpetek. E ogni suo nuovo lavoro rappresenta una summa del suo cinema. Tutto qui? Tutto qui (...). C'è chi vede Özpetek in sempiterna crisi artistica: perché non sa rinnovarsi, perché ripete fino allo sfinimento i medesimi concetti riproponendo all'infinito lo stesso pattern visivo ed emotivo. In realtà, per Özpetek, il cinema è un mezzo potentissimo, quasi una seduta psicoanalitica condivisa. Lui ci mette la sua passione per l'arte, per i sentimenti e per la vita (la sua, come un invito a raccontarsi in perenne divenire), spesso con minime variazioni di senso, e li dà in pasto al pubblico. Özpetek è sempre in purezza: «Diamanti è nato con l'idea di esporre la cosa che faccio sempre quando ho un progetto in testa, ovvero chiamare gli attori, raccontargli la storia, e poi andare avanti con la sceneggiatura. Tanti miei film partono dagli attori, nel senso che ho una traccia, ma poi scrivo dopo l'incontro con loro» (Rolling Stone, 16 dicembre 2024). Con didascalismo smaccato e consapevole il regista ci mostra i suoi diamanti fin da subito: 18 attrici, tra nomi ricorrenti della sua filmografia (Luisa Ranieri, Elena Sofia Ricci, Jasmine Trinca, Nicole Grimaudo) e new entry (Vanessa Scalera, Mara Venier, Sara Bosi, Geppi Cucciari). La dimensione metacinematografica sa di omaggio, ma anche di sberleffo: si discute sul film da girare tutti attorno ad un tavolo, location amata dall'autore e da sempre criticata dai detrattori, e proprio per questo luogo privilegiato in cui si sciolgono tensioni e intrecci. (...) Diamanti è, quindi, un film ambientato al contempo nel 2024 e nel 1974, con l'immersione in medias res – come un ricordo che all'improvviso riaffiora nei meandri della nostra memoria, trasfigurando e romanzando – all'interno della gloriosa Sartoria Canova, specializzata in costumi per il cinema e per il teatro (...). Di tutto ciò che può accadere fuori ci arriva solo una lontanissima eco, a dimostrazione di come tempo e luogo siano qui solo
uno spunto, del tutto trascurabile. Contano le battaglie dei singoli, che possono però affrontare e sconfiggere i propri demoni – la violenza domestica, l'ombra della depressione, le nostalgie e i rimpianti che trafiggono la nostra quotidianità – solo con il supporto di una comunità solidale e riconoscendo il valore fondante di una unione, di un sentire condiviso, che travalichi i confini canonici/imposti di “famiglia”. Per quanto alcuni passaggi possano risultare più deboli e programmatici (la volontà di incastrare tutto e di chiudere ogni sottotrama, il controfinale nuovamente meta- che rischia di indebolire il vero epilogo), a Diamanti vanno riconosciute delle qualità che forse diamo per scontate o che forse non siamo più abituati a riscontrare: la sincerità, la gentilezza, l'amorevolezza, l'umanità. Come un abbraccio, quando meno ce lo aspettiamo, che scalda mente e corpo, e per il quale essere profondamente grati.”
Filippo Zoratti da www.spietati.it
“ In Diamanti 18 differenti personaggi femminili, uniti solo dall’amore per la moda e per il cinema, animano quello che Geppi Cucciari, alla sua prima esperienza con il regista turco, definisce in una battuta del film un “vaginodromo”, per sottolineare la quasi totale assenza di uomini sul set. Per Stefano Accorsi, Vinicio Marchioni e Carmine Recano, unici nomi maschili presenti nel cast e tutti già noti al regista, non esistono infatti ruoli da protagonisti o co-protagonisti al maschile com’è stato spesso in passato. Loro e gli altri uomini che compaiono sullo schermo sono relegati da copione a margine del racconto, quasi come fossero delle comparse. A prendere tutta la scena nel quindicesimo lungometraggio di Ozpetek arrivato nelle sale il 19 dicembre, e diventato in poco tempo il film italiano con il maggiore incasso a cavallo delle vacanze natalizie di quest’anno (10.657.945 di euro di incassi e un milione e mezzo di presenze), sono unicamente le donne. Imperfette, combattenti, vanitose, empatiche, resilienti e soprattutto luminose. Ovvero resistenti, indistruttibili, ma anche piene di sfaccettature che riescono a riflettere colori differenti in base alle diverse angolazioni della luce che le pervade proprio come i diamanti. Donne di diverse età ed estrazione sociale che mettono in scena una celebrazione corale.
Diamanti si rivela un meta-racconto. Che sia un film femmineo non è una sorpresa: il regista non ne ha mai fatto mistero e anche i trailer e le immagini diffuse prima dell’uscita lo mostravano chiaramente. Chiunque, però, abbia immaginato un racconto preciso e affilato delle pieghe dell’animo umano in pieno stile Ozpetek, probabilmente, poi, seduto sulla sua poltrona al cinema è rimasto deluso in questa aspettativa. (...) Un omaggio alle donne nella loro totalità e nel loro essere div(in)e, dunque. Ma anche al gioco di squadra, alla sorellanza e alla complicità. Un inno cinematografico timidamente ma incisivamente femminista.”
Da www.gqitalia.it
Cosa sappiamo realmente di tutte quelle figure, che i riflettori dello spettacolo eludono continuamente, mostrandoci invece le star, le celebrità e la loro inevitabile coolness? Poco, forse niente. Eppure sono proprio quelle figure a rendere cool ciò che di fatto sarebbe convenzionale e incolore, se non addirittura modesto e anonimo. Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, con Diamanti Ferzan Özpetek sceglie di celebrare l’importanza assoluta del dietro le quinte, degli uomini, ma soprattutto delle donne che, pur restando ai margini dello sfarzo e della passerella, non smettono mai di dar vita alla magia, osservando tanto le logiche del professionismo quanto quelle dell’amicizia e dell’amore.
“Cosa permette a un diamante di brillare, se non la presenza di qualcuno capace di prendersene cura? Ecco il perché di quel passaggio: “Siamo come delle formiche noi,
sembra che non contiamo niente, ma tutte insieme, tutte insieme”. Non è mai il singolo, piuttosto la famiglia e più in generale l’unione, a decretare il pieno raggiungimento dell’obiettivo. Lo sa bene Nina (Paola Minaccioni), che osserva la depressione e nega l’esclusione. Ancor più di fronte alla violenza matrimoniale e alla vendetta, che con un guizzo d’ironia nerissima tipicamente ‘alla Coen’, riflette sul tema oggi attuale più che mai della violenza di genere. Traccia che Özpetek ribalta sagacemente, con una risata a metà e una consapevolezza tragica, che un po’ spaventa e un po’ conforta.
Ancor prima della violenza, però, c’è la sorellanza che, nonostante le gerarchie di potere e i ruoli da mantenere, lega tra loro un gruppo di sarte, reclutate dalle sorelle Alberta (Luisa Ranieri alle prese con il suo personaggio più duro e complesso) e Gabriella (Jasmine Trinca, in una prova matura sull’incomunicabilità del dolore). Pur possedendo capacità differenti, non vi è mai competizione tra loro, piuttosto conforto, comprensione, ascolto e solidarietà. Tanto da trasformare ben presto la sartoria da cinema in un vero e proprio rifugio per anime perdute. Le stesse che si ritrovano via via nell’arte e nella magia dei costumi, come la giovane eppure esperta Beatrice di Aurora Giovinazzo.”
Eugenio Grenna da www.sentieriselvaggi.it
Guglielmina Morelli Domenica pomeriggio |
Si può chiedere a Ozpetek di essere sobrio (oops) e misurato?
No di certo: l'ipertrofia è parte del suo cinema, che corre sempre sull'orlo pericoloso del melò. Anche questo Diamanti |
Angelo Sabbadini Luned sera |
“Il paradiso delle signore ambientato nella sartoria di Umberto Tirelli”. Il giudizio folgorante sull’ultimo Ozpetek viene sussurrato timidamente dalla platea del Bazin. Però a ben vedere è ineccepibile: nel film ci sono i simulacri del vecchio rito cinematografico confezionati in modo magistrale da Piero Tosi, Danilo Donati e Maurizio Millenotti e c’è la televisione del presente con il generoso cast attoriale e con la sua struttura narrativa ripetitiva. La fortuna e i limiti del piacevole Diamanti sono tutti contenuti in questa giustapposizione. Il resto, come il risibile metacinema, hanno poco da dirci |
Giulio Martini Mercoled sera |
il miglior film del gay Ozpeteck che celebra e proietta nelle18 donne che adora la sua stessa sensibilità. Racconto sontuoso e travolgente del piacere e del gusto di elaborare non il cibo ma i tessuti, e manifestare attraverso i vestiti la molteplicità delle proprie vibranti emozioni altrimenti represse.
Il tutto in un omaggio ai tanti registi omo nascosti ( a cominciare da Visconti) e ai tanti scenografi/costumisti italiani - Premi Oscar - dimanticati ( a cominciare dall' imperiosa Canonero ) che esalta al pari di chi - fin da bambino in famiglia - lo ha iniziato alla voluttà del dress-crossing.
|
Marco Massara Venerdì sera |
Ferzan Ozpetek si scrolla di dosso l’etichetta di regista legato molto ai temi omosex realizzando un film corale al femminile che è anche un omaggio al cinema quale straordinaria macchina del tempo. Raramente si visto un regista cos abile nell’entrare in sintonia con la psicologia femminile nelle sue manifestazioni di solidarietà e compattezza di reazione, ironia e guizzo di comportamento. Elogio del lavoro manuale, con una simpatica citazione della scena delle torte ne “La finestra di fronte” e soprattutto un uso perfetto delle canzoni di repertorio e della colonna sonora in generale.
Con un brivido finale quando la biglia di vetro, portata all’altezza dell’occhio, emula il mirino della macchina da presa. Bravo! |
Rolando Longobardi Jolly |
Non convince pienamente questo nuovo lavoro di Opzetec nonostante, o forse proprio perché, siano presenti tutti i riferimenti utilizzati e tanto amati dal regista a partita da Le fate ignoranti. La solidarietà femminile, la comunità, l'intreccio psicoanalitico e sociale sino allo stile al setting tipico del regista (vedi l'immancabile tavolo da lavoro e da discussione). L'idea del meta-cinema è interessante così come la messa in evidenza dei diamanti attori e attrici, che lasciano l, come in un racconto pirandelliano, sfondare la quarta parete. Non convince il finale (doppio e troppo meta) e l'accanimento su alcuni temi già visti e ritrattati. |
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Berlinguer - la grande ambizione
da domenica 4 a venerdì 9 maggio 2025
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BERLINGUER - la grande ambizione
regia di Andrea Segre
Berlinguer. La grande ambizione
“In Berlinguer - La grande ambizione Andrea Segre non si limita a raccontare alcuni anni
cruciali nella vita personale e politica del Segretario del Partito Comunista Italiano finito
persino sulla copertina di Time.
Segre non crea un semplice biopic, ma dipinge con pennellate decise il ritratto di una
"democrazia zoppa e bloccata", ieri come oggi gravata dalle influenze straniere, e mai
abbastanza coraggiosa nel portare avanti una vera evoluzione socioeconomica. Allo stesso
modo il suo film delinea con precisione i limiti della Sinistra italiana anni '70, soggetta allo
scrutinio di Mosca e alla crisi del capitalismo mondiale.
"Se vinciamo, cosa ci lasceranno fare?" è la domanda che aleggia persino su un eventuale
vittoria comunista. "Questo è il vostro momento", dice Andreotti a Berlinguer, ma i per
comunisti quel momento non arriverà, e dopo la morte di Moro il Paese "scivolerà nel buio".
Ed è tragicamente ironico che l'unico momento che ha visto i politici italiani allineati e
compatti è quello in cui hanno deciso unanimemente di non trattare con i terroristi per il
rilascio del politico prigioniero. (...) Enrico, che da piccolo interpretava Robespierre, da
grande - nella lettura di Segre - detesterà ogni tipo di divisione, cercherà di smarcare il suo
Partito dall'Unione Sovietica inseguendo l'ideale di eurocomunismo che l'avvocato Agnelli, e
Confindustria con lui, vedevano come il Male assoluto, condannerà ogni violenza estremista
in Italia e la persecuzione politica dei dissidenti nell'URSS, inneggerà alla "realizzazione
piena di tutte le libertà dell'individuo, tranne quella di sfruttare gli altri", e preferirà la
collaborazione alla competizione, perseguendo un principio di solidarietà che è un monito al
presente. Del resto anche i suoi avvertimenti nei primi anni Settanta contro l'inevitabilità di
una crisi strutturale del capitalismo globale danno prova della lungimiranza della sua visione
politica. (...) La grande ambizione del titolo non è un esercizio narcisistico ma lo sforzo di
elevare un'intera comunità, compiuto da un uomo per cui "potere" era un verbo, non un
sostantivo egoriferito. La sua lotta contro "la degradazione della persona umana a scopo
produttivo" e contro "la logica dei meccanismi automatici" ci fa desiderare oggi un politico di
altrettanta lucidità e levatura istituzionale.
Il Berlinguer di Segre non chiede a nessuno di fare ciò per cui lui sarebbe pronto a
sacrificarsi per la ragion di Stato: compreso se si fosse trovato al posto di Moro. Berlinguer
sognava una politica "non da utopisti, estremisti, schematici o opportunisti". Soprattutto,
desiderava porsi alla guida di un partito "che rappresenti tutti i lavoratori italiani": chi oggi
può, o vuole, dire altrettanto?”
Paola Casella da MYmovies.it
“No, non è che il film La grande ambizione non mi sia piaciuto, la mia reazione è stata
diversa: mi ha addolorato. Il film è ben fatto, sia Elio Germano che Andrea Segre sono stati
bravi, come del resto sempre sono. Ma certo, il film bellissimo che Andrea ha girato nella
Venezia resa deserta dal Covid, un’atmosfera stravolta rispetto alla sua immagine abituale, è
un’altra cosa, in quel film c’è la sua anima, in quello su Berlinguer non può esserci niente.
(...) Per ragioni generazionali Andrea non può aver conosciuto né il Pci né Enrico, e dunque
il film deve esser stato scritto e girato riferendo con perizia quanto gli è stato raccontato da
chi non voleva esser rimproverato per averlo sciolto e così ha tralasciato tutto quanto di
straordinario quel partito è stato – e lo dico sebbene siano noti i dissensi che ho avuto anche
con Enrico, che poi, e questo spiega anche molte cose, mi/ci ha chiesto di rientrare.
Comunque qui ne parlo per spiegare che quella esperienza è stata una storia centrale della
mia vita, e anche drammaticamente vissuta. Il mio modo di guardare il film non può dunque
che essere divergente, e così il modo di «sentirlo», non può essere che diversissimo.
Credo non serva spiegare altro, basta riflettere sul lunghissimo arco di accadimenti,
emozioni, dolori, tristezze, arrabbiature verificatesi dal giorno lontanissimo del 1947 quando,
io diciottenne, ho parlato per la prima volta con Enrico (fu, ricordo, nella sede del Celio
dell’appena ricostituito Fonte della Gioventù e lui mi chiese di spostare una panca). A
seguire anni con lui nella Fgci , poi tanti di divergenze dolorose e convergenze felici, in
particolare in quegli ultimi anni della sua vita che la pellicola racconta, quando la vicinanza è
stata assai stretta, ma anche molto dolorosa per l’incomprensione con cui le sue scelte,
anche coraggiosamente autocritiche, erano state accolte dalla maggioranza della leadership
del partito di cui pure lui stesso era segretario. Anni di riflessioni preziose e anticipatrici,
basti rileggere la sua acuta denuncia della crisi della democrazia che stava travolgendo il
paese, e che sarebbe un bene fosse fatta conoscere ai ragazzi cui viene invece presentato
uno che la democrazia la invoca come avrebbe potuto fare un esponente del partito liberale.
(...) Più chiaro il giudizio di Nanni Moretti, che va dritto al compromesso storico, che tuttavia,
peraltro, è proprio la scelta che neppure io ho condiviso, ma quella che proprio Berlinguer
nell’arco di tempo che il film illustra sta faticosamente e dolorosamente lasciandosi dietro le
spalle. E lo sta facendo con un’argomentazione ricca di riflessione critica sulle grandi novità
che delineano il nuovo tempo in cui stiamo entrando: la crisi della democrazia, innanzitutto,
come dicevo, ma anche quella ecologica, di cui comincia a capire gli aspetti, quelli
nuovissimi che sono stati portati alla ribalta dalle grandi e assai significative lotte operaie del
decennio precedente, proprio quelle che producono il principale dissenso con la
maggioranza della leadership del Pci che non nasconde la sua simpatia per Craxi. Mentre
proprio ai congressi del Psi Berlinguer viene ostentatamente e clamorosamente fischiato.
Non c’è una di queste problematiche su cui nel film si dà voce a Berlinguer, solo una piatta
esaltazione della democrazia (quale?) su cui fa delle lezioncine a bulgari, sovietici e
compagni. È sulla base di queste lezioncine che Berlinguer sarebbe diventato così
popolare? Andiamo!, il popolo comunista lo ha amato perché gli ha riconosciuto la forza e il
coraggio di provare a conciliare l’orizzonte di una nuova società comunista con le scelte
immediate che i lunghi processi di cambiamento oggi impongono a chi non abbia rinunciato
a fare la rivoluzione. Rendere centrale l’idea che l’insuccesso sia dipeso dalle operazioni
della Cia che hanno fatto ammazzare Moro, ecco, anche questa mi sembra una
reinterpretazione della storia che non sta in piedi.
Che il film abbia suscitato tanto entusiasmo fra i compagni mi dà gioia e tristezza: gioia
perché le occasioni di letizia per i vecchi comunisti sono ormai tanto rare che l’aver trovato
un modo per consolarli va bene. Ma altrettanta amarezza nel credere che sia possibile far
tornare ai giovani la voglia di cambiare il mondo coi santini. Anche a me, certo, commuove
vedere quelle piazze colme di gente. E capisco anche che un film non è un libro di storia. Ma
non posso fare a meno di pensare che non dovrebbe neppure renderne più difficile la sua
comprensione. Sono solo molto contenta di aver accettato, dopo anni di rinnovata amicizia,
l’invito che Enrico rivolse al nostro partitino, il Pdup, a rientrare nel Pci per contribuire a
cambiarlo. Fu qualche mese prima della sua fatale scomparsa.”
Luciana Castellina da il manifesto
“Un leader politico, secondo Gramsci, deve essere ambizioso, ma la sua ambizione deve
essere “grande” perché solo così rispetta, senza alcun tornaconto personale, le persone che
l’hanno messo nella posizione in cui si trova. Per i suoi seguaci un capo senza ambizione
non è un capo, ma un elemento pericoloso, un inetto o un vigliacco. Per questo deve
compiere scelte difficili e puntare al governo e non all’opposizione, considerata come fine a
se stessa, e deve farlo proprio perché rispetta il mandato di chi l’ha messo lì, nel caso del
Partito comunista italiano (Pci), la classe operaia. Volendo raccontare gli anni del
compromesso storico, cioè il tentativo del Pci di Berlinguer di uscire dalle secche di
un’opposizione destinata a durare per sempre (per via della collocazione internazionale
dell’Italia), un estratto da questa citazione di Gramsci messa all’inizio del film di Andrea
Segre, La grande ambizione, è una premessa indispensabile per capire il resto: “Di solito si
vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione,
che è invece indissolubile dal bene collettivo”.
Il film sembra quasi una messa in scena di questa pagina dei Quaderni, che ha segnato non
solo le scelte dei comunisti degli anni settanta ma anche la successiva lettura dei loro atti
politici. Un azzardo non da poco abbracciarla.
Ma La grande ambizione dichiara di voler raccontare nient’altro che le ragioni di Berlinguer,
lo sguardo di Berlinguer, perfino gli abbagli di Berlinguer (l’attentato in Bulgaria, su cui non ci
sono certezze ma che per certo Berlinguer vive come tale, l’incomprensione per il
movimento del settantasette eccetera). Segre sceglie, dunque, in modo consapevole una
“linea politica”, la dichiara addirittura, grazie a quella citazione di Gramsci da cui tutto inizia.
La chiarezza quasi didascalica con cui il regista compie questa operazione dovrebbe essere
sufficiente per smontare alcune critiche al film, come quella di Nanni Moretti che, un po’
ironicamente e un po’ no, ha detto che se Segre avesse avuto vent’anni nel 1973 sarebbe
stato contrario, ferocemente contrario, al compromesso storico. (...) Il film è stato scritto e
interpretato da chi negli anni settanta non c’era o se c’era era troppo piccolo, e ha scelto, tra
le varie ipotesi interpretative di una stagione lontana, quella che lo convince di più. Può
piacere, non piacere, ma è così. La memoria non c’entra niente con questa opera, l’identità
dei comunisti nemmeno, c’è solo la storia, che non significa “le cose come sono andate
veramente” (una pretesa che non ha la storiografia, quantomeno la migliore, figuriamoci il
cinema), ma “i fatti come li riusciamo a raccontare” a partire dalle fonti che decidiamo di
usare.
Con altre fonti, anche semplicemente testimoniali, la storia raccontata sarebbe stata un’altra,
come ha notato Luciana Castellina, ma – ancora una volta – questo non significa che Segre
abbia sbagliato, significa che ha scelto.
Senza alcuna pretesa di esaustività, offre un punto di vista stretto su una figura che nella
storia d’Italia è stata molto amata, anche molto odiata, e comunque mal sopportata dai tanti
che continuano ad accusare Berlinguer di essere stato il meno comunista tra i segretari del
Partito comunista italiano, colui che avrebbe portato il Pci alla sconfitta, all’irrilevanza degli
anni a venire, il responsabile della fermezza, del 7 aprile, l’alleato di Cossiga nella
repressione del movimento del settantasette, e tanto altro ancora.
Il periodo raccontato da La grande ambizione va dal 1973 al 1978, che per i comunisti
italiani coincide con l’ipotesi del compromesso storico, un progetto di alleanza con la
Democrazia cristiana (Dc), partito la cui maggioranza relativa viene messa fortemente in
crisi dall’avanzata del Pci dopo il 1968. Uno dei più discussi tra i progetti politici del
dopoguerra, sia mentre è in atto sia in seguito nel dibattito pubblico che ha costruito la
memoria di quegli anni, soprattutto dopo il 1991, quando il Pci ha cambiato nome.
Si apre con i volti sorridenti dei sostenitori di Salvador Allende in Cile, un estratto dal film
Cile 1972 di Monica Maurer. Una gioia subito spazzata via dai caccia che l’11 settembre
1973 bombardano La Moneda, portando al potere il dittatore Augusto Pinochet. Dietro
l’operazione militare ci sono gli Stati Uniti e la volontà di non far passare governi di sinistra in
America Latina, quello che ancora, a centocinquant’anni da quando l’aveva detto il
presidente James Monroe, era considerato “il cortile di casa”.
La scelta iniziale è d’obbligo, non tanto perché quello di Allende è un governo socialista
particolarmente amato dal segretario comunista Berlinguer, quanto perché, dopo la strage di
piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (anche se questo nel film non c’è né viene evocato) il
timore di un colpo di stato, di una soluzione autoritaria sul modello greco di fronte
all’avanzata delle sinistre in Italia, è diffuso al punto che dopo la vittoria del fronte popolare
cileno, Berlinguer decide che l’unico modo per governare, evitando una Moneda italiana, è
farlo con la Dc.
Ripeto Dc, anche se nell’ipotesi di compromesso storico la presenza e l’alleanza con il
Partito socialista italiano (Psi) sono centrali, ma questo il film non lo approfondisce. Il Partito
socialista è evocato, ma i socialisti non ci sono mai (giusto il presidente della repubblica
Sandro Pertini, che ormai vediamo solo ai funerali in tutti i film o documentari che
ricostruiscono quel decennio).
E questo è il punto cruciale di ogni ricostruzione storica cinematografica: un film non è
un’enciclopedia, un compendio, il Bignami per immagini di un fatto storico (per questo è così
rischioso usare i film per sostituire la lezione di storia). Un film risponde alla domanda che si
fa chi lo scrive, alle sue intenzioni, non alle aspettative, i pregiudizi, le convinzioni giuste
perché fondate su esperienze personali, di chi lo guarda. Dunque che film è La grande
ambizione?
È un film storico. Una banalità. Però cosa ci aspettiamo da un film storico? Non che dica
tutto, ma che abbia un punto di vista. E questo il film di Segre ce l’ha chiaro, come abbiamo
detto. Non finge di essere vero, anche se usa repertorio e documenti, perché da un’altra
prospettiva la stessa storia potrebbe essere raccontata in un altro modo e questo il film lo
dice quando dà voce ai figli di Berlinguer, ai compagni di partito, agli operai nelle fabbriche,
al movimento del settantasette.
Da un film storico ci aspettiamo anche dialoghi all’altezza del progetto che ha in mente, e
questo il film lo fa bene quando il piano è quello politico, ma è meno efficace quando entra
nel privato. Forse con un budget diverso avremmo avuto dei flashback, invece di costringere
gli attori a dialogare intorno a episodi del passato di Berlinguer come quello della madre
malata, che il segretario del Pci ha perso da bambino. Non basta il bravissimo Elio Germano
a non far notare quanto sia un espediente per colmare un vuoto.
In compenso tutti gli attori e le attrici sono bravi, anche i volti di chi appare nella folla non
tradiscono quasi mai il fatto di essere a noi contemporanei. Belli i costumi, belle le
ambientazioni, perfetta la giustapposizione di girato e di archivio.
Un archivio in gran parte mai visto anche da chi, come me, da anni lavora sui documentari di
montaggio. Bravissimo Daniele Ongaro, ricercatore che negli ultimi anni ha portato alla luce
pezzi dimenticati della nostra storia televisiva e documentaristica, come alcuni film girati da
registi vicini al Pci o per conto del partito stesso e oggi conservati all’Archivio audiovisivo del
movimento operaio e democratico (Aamod). Sequenze che raccontano la controstoria visiva
d’Italia, fatta di immagini che non troviamo negli archivi Rai o del Luce da cui vengono
invece le immagini che vediamo di solito (anche se pure lì ci sarebbe ancora molto da
scavare).
La grande ambizione, poi, è un film dove si piange, questo l’hanno detto in molti. Segno che
il film piace e funziona (come disse Goffredo Fofi quando lesse La storia di Elsa Morante:
qui si piange). Ma non si piange solo di nostalgia, come alcuni hanno sostenuto un po’
infastiditi invitando a “seppellire il cadavere” di Berlinguer. Senza dubbio c’è chi ha pianto
per nostalgia, perché magari con Berlinguer ha lasciato indietro anche la giovinezza. Ma c’è
anche chi, vedendolo, ha pianto per gratitudine di fronte alla scelta di stare dalla parte delle
persone che, nelle baracche, decidono di occupare un campo destinato alla speculazione
edilizia sulla via Tiburtina, a Roma. Dalla parte di chi chiede ragione della persecuzione di
Sacharov e dell’alleanza con una Dc che è sempre stata dalla parte dei padroni e mai degli
operai. Momenti diversi e complementari di una storia di cui essere grati, così come siamo
grati a chi ha portato il primo bambino disabile in una scuola, a chi ha restituito gli oggetti
personali ai ricoverati negli ospedali psichiatrici, a chi ha deciso di non usare i voti a scuola
per punire e escludere. Non perché queste cose non ci siano più, ma proprio perché ci sono
ancora oggi e ci scalda il cuore vedere da dove vengono.
È vero, come ha notato ancora una volta Castellina, ma non solo, che vedendo il film non si
capisce perché un italiano su tre votasse comunista: il rapporto di Berlinguer con la base del
partito e con chi votava il partito non emerge dal film in tutta la sua originalità. Così come è
vero che chi non sa niente di questa storia potrebbe pensare che la Cia, i servizi segreti
statunitensi, siano stati gli unici responsabili della fine del progetto del compromesso storico
e della morte stessa di Aldo Moro.
Ma ancora una volta viene da rispondere: possiamo chiedere a Segre di fare da solo quello
che avrebbero potuto fare, e non hanno fatto, scrittori, giornalisti, autori televisivi negli ultimi
quarant’anni?”
Vanessa Righi da Internazionale
Giulio Martini Domenica pomeriggio |
un racconto attentamente bilanciato nella dialettica di fitti dialoghi con le masse, colloqui in famiglia, sfibranti dibatti tra funzionari di partito e umili chiacchiere con la gente. Utopia e minimalismo sardo a disegnare il profilo mite e cocciuto di un leader che ambiva a cambiare l'ideologia e la storia di e con un Partito rigido ed onnivoro,consumandosi in riflessioni puntigliose nella speranza di un progresso sociale non rivoluzionario ma ragionevole e ragionato.
Film teneramente empatico, quasi devoto ad una figura diafana, ricercata nel b/n dei vecchi documenti visivi e sonori e accarezzata con una sincera gratitudine che il moderato colore comunque rigenera,idealizzandola senza staccarla dalla stringente ricostruzione dei fatti.
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Angelo Sabbadini Luned sera |
Ammirazione generale al Bazin per Elio Germano che veste con calda partecipazione i panni di un uomo sobrio, colto e amato. Alla luce degli interventi in sala il fascino di Berlinguer appare immutato ieri come oggi: Germano sa restituirgli il giusto mix di forza e timidezza, ingobbito in completi larghi e sempre uguali. Un uomo piccolo che parlava con curioso accento sardo e incantava le masse, non per incitarle all’odio ma verso la lotta per i loro diritti e per le loro libertà di esseri umani, essendo una soltanto la libertà da evitare: quella “di sfruttare l’uomo per l’uomo”. La regia di Andrea Segre è didascalica e ispirata e conduce il film a conquistare il favore di tutto i presenti |
Guglielmina Morelli Mercoledì sera |
Biopic o film storico? Biopic, probabilmente, ma di un uomo comune, poco carismatico:infatti Segre (che non ha visto nulla di ciò che narra e compie quindi una operazione da storico) inserisce per far procedere la vicenda, accanto a fatti minuti di una normale vita di un borghese politico per bene, gli eventi della Storia. E qui però il film si fa davvero fragile: errori ed omissioni scandiscono la narrazione (la scelta del PCI sul divorzio è falsata, lo slancio del partito a metà anni ’70 è legato anche ad una nuova generazione di elettori giovani desiderosi di profondi e radicali cambiamenti, le BR sono purtroppo prodotto autoctono in risposta proprio al PCI, ecc.) e resta nell'attempato spettatore il rimpianto per un modo entusiasta di far politica (e questo nel film c’è) e l’amarezza per una occasione storica persa (e questo manca). Ma questo sarebbe un altro film. Non basta un onesto attore per fare un buon film e certi figuri che avrebbero dovuto interpretare i membri del comitato centrale del PCI erano inguardabili. |
Giorgio Brambilla Venerdìì sera |
Andrea Segre costruisce un ritratto di Enrico Berlinguer unendo la propri esperienza di documentarista alla capacità di raccontare in modo appassionante la storia (inventata) di persone comuni, rendendole esemplari. Così crea un film biografico dedicato a uno dei più grandi uomini politici della nostra Repubblica, che però è rimasto un uomo semplice e modesto, facendoci percepire come questo sia proprio il tratto che lo ha reso davvero straordinario. Si concentra sui cinque anni che vanno dal 1973 al 1978, sul suo progetto di compromesso storico, lasciando fuori campo tutto quello che non è ad esso strettamente pertinente. Cala il suo protagonista in quel periodo della storia italiana attraverso filmati d’epoca mescolati alla sua minuziosa ricostruzione effettuata insieme ai propri collaboratori, e giunge a proporre un quadro esemplare che commuove gli spettatori che hanno vissuto quei tempi e fanno interrogare tutti sulla qualità di quella classe politica e di quell’epoca, rendendo naturale confrontarle con quelle attuali. Siamo di fronte a un film che, come il suo protagonista, sa comunicare in profondità senza perdersi in vuoti esibizionismi, grazie anche a degli interpreti in sintonia con l’operazione |
Marco Massara Jolly |
Una riuscita integrazione tra documentario basato su materiale di repertorio e finzione biografica. Il periodo a cavallo tra il nascere ed il tramonto della possibilità di un ‘Eurocomunismo’ che avrebbe potuto trasformare la politica non solo italiana. La narrazione scorre senza scossoni mentre la parte di ricostruzione biografica è affidata ad un più che convincente Elio Germano. Purtroppo quello che emerge davvero è la differenza qualitativa tra i “cavalli di razza” di quel periodo (bravissimo Citran ad incarnare Moro) ed il desolante panorama dei politici dei nostri giorni. (O allora era lo stesso ?) |
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Giurato n.2
da domenica 6 a venerdì 11 aprile 2025
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GIURATO N.2
regia di Clint Eastwood
Clint Eastwood non ha più tempo da perdere, a 94 anni continua a girare con la regolarità di un metronomo e va dritto al punto, piombandoci in una (messa in) scena coniugale, un'immagine che il film metterà rapidamente in crisi. Giurato numero 2 gioca costantemente col motivo del visibile e dell'invisibile, dell'evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero 'accecato' dalla carriera... L'autore passa il tempo a evidenziare i punti ciechi, quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce. La fotografia è limpida, l'illuminazione uniforme, l'inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare l'eroe e che richiede una sola scelta giusta. Non è tanto la morale in sé a essere messa in discussione, quanto la nostra capacità di cogliere i fatti a cui applicarla.
Eastwood comincia informandoci meticolosamente su uno degli aspetti fondamentali del sistema giudiziario americano, la rigorosa selezione dei dodici membri della giuria popolare. Con la logica scrupolosa di Sidney Lumet (La parola ai giurati) si addentra nelle convinzioni e poi nei dubbi dei giurati che si confrontano, uno dopo l'altro, ma con l'idea perversa che il giurato migliore, quello che come Henry Fonda non vuole affrettare il destino dell'accusato, non sia altro che il colpevole. Nessuno spoiler, è tutto nel trailer e nel debutto del film. A colpi di flashback, (di)mostra che il giurato numero 2 è quasi certamente all'origine dell'atto criminale. Se il ripiegamento della colpevolezza all'interno del cerchio dei giurati priva improvvisamente lo spettatore di qualsiasi suspense futura, la grande originalità dello script di Jonathan Abrams consiste nello sviluppare un'altra forma di tensione ascendente, stringendo gradualmente il cappio intorno al suo antieroe in preda a un dilemma insostenibile. Così mentre tutti i giurati sono convinti della colpevolezza dell'accusato, Justin, roso dalla colpa, guadagna tempo e prova a convincere chi vuole soltanto chiudere rapidamente.
Manca un minuto a mezzanotte nel giardino del bene e del male, la giustizia ha fatto il suo lavoro e alla fine anche la polizia, sotto l'egida di un poliziotto in pensione, allontanato dal processo perché ha trasgredito le regole dell'imparzialità nel suo ruolo di giurato. Il personaggio incarnato da J. K. Simmons ci ricorda che siamo in un film di Clint Eastwood e che da Dirty Harry in poi, il poliziotto rimane soggetto dell'eccezione, sempre 'oltre il limite' per le regole dell'istituzione. Ma esce presto di campo, è un mediatore evanescente. Resta 'il giurato numero 2', quello che conosce la fine della storia e arriva in fondo a questa storia, in cui l'appello all'imparzialità della giustizia dimostra tutta la sua astrazione. È una finzione minata dall'intreccio di ragioni e sentimenti che pervade i giurati: la giovane donna che vuole vendicare una vittima del sessismo o l'educatore che ha perso un fratello in una guerra tra gang e riconosce nel tatuaggio dell'imputato l'appartenenza a una delle bande. Tutti sono animati da un desiderio di idealismo ma tutti hanno una storia personale con cui devono farei conti.
Clint Eastwood compone con la giuria, con l'accusa e con la difesa, individuando la complessità psicologica di ciascuno dei suoi personaggi e dispiegando la gravitas del film nelle interazioni tra i personaggi. Nessun ruolo, nemmeno il più piccolo, cede alla caricatura, attraversando conflitti intimi e rivelando insieme la fragilità del sistema legale americano, quando pregiudizi e presupposti profondi prevalgono sulle prove concrete, a volte anche con la sincera convinzione di fare del bene. Ma come la sua procuratrice, bussola morale del film, Eastwood non smette di cercare la verità per guardarla in faccia in una sequenza finale sospesa che suona come l'ultima ingiunzione aperta di un autore che non ha più nulla da dimostrare. Affatto interessato a impressionare qualcuno, usa il racconto cinematografico per riflettere costantemente su quello che pensa, convocando una vertigine metafisica. Un'ode al ragionevole dubbio e alla complessità in contrasto con l'attuale polarizzazione delle nostre società e con l'antico riflesso di accontentarsi delle spiegazioni più comode e immediate.
Se la disfunzione delle istituzioni americane non può che portare alla menzogna, quella menzogna finisce per insinuare un'altra forma di istituzione: la famiglia americana. L'autore penetra nel cuore della struttura familiare rassicurante e ideale, virando verso la tragedia o il punto di non ritorno (Mystic River, Million Dollar Baby...). Il danno è stato fatto e il male si accomoda nel focolare domestico dove Justin conversa con la sua consorte al principio del film. Lei si allontana e lo lascia inavvertitamente al buio, spegnendo di riflesso la luce del soggiorno. Un gesto innocuo che dice molto. Il buon cittadino americano, ordinario ma virtuoso, pilastro del sistema democratico, precipita nella notte che lo abita suo malgrado, l'oscurità è entrata nella sua vita molto prima dell'inizio del film. Justin, rovescio di Richard Jewell - innocente che l'opinione pubblica considera colpevole -, è un ex alcolista e il bicchiere che non ha mai toccato la sera nel pub in cui l'imputato discuteva con la vittima non smette di tormentarlo e di amplificare l'abisso. Il bicchiere è il cerchio in cui è rimasto intrappolato, la sua cicatrice, la crepa attraverso la quale è caduto e affonda. Mai bevuto e 'rovesciato' è il prolungamento dell'acquazzone torrenziale di Gli Spietati, è l'acqua nera e pesante di Mystic River con cui Giurato numero 2 condivide una verità impronunciabile e una morale inferiore: punire i colpevoli ideali risparmiando il destino di una meritevole famiglia americana media.
Nicholas Hoult non è Henry Fonda, l'uomo puro e integro, ma un antieroe tormentato che cerca la via d'uscita migliore. Se vuole giustizia, non la vuole a qualsiasi prezzo. L'attore, sguardo laser, bellezza fredda e rigidità posturale, affronta un inferno morale e rende palpabile ogni esitazione, paura e dubbio. Di fronte a lui, riflesso della giovinezza svanita di Eastwood, la pugnace procuratrice di Toni Collette finisce per disertare il tribunale, andare oltre il verdetto e portare avanti la lotta. Un'inversione di strategia politica estremamente contemporanea (e femminista). L'ambiguità che caratterizza il protagonista di Giurato numero 2, giustiziere e colpevole insieme che assiste al suo processo e deve deliberare sul destino di un uomo e sul proprio, aggiunge una nuova pietra all'edificio che il regista ha costruito.
Ieri l'eroe eastwoodiano ci chiedeva di capirlo e persino di amarlo, oggi è un bastardo che ha tradito la legge morale per i propri interessi. Ieri ha dato volontariamente la sua vita e l'ha presa. La sua assunzione è stato il fondamento della sua venerazione, prima ostentata poi sempre più discreta. Ma Justin Kemp è un mondo a parte rispetto al protagonista di Eastwood. Un individuo che si trova ad affrontare situazioni straordinarie, come Richard Jewell o il capitano Sully, causate da lui. L'aporia morale lo conduce in un vicolo cieco dove diventa impossibile seguirlo. Perdonato da chi gli è più vicino, Justin è comunque l'unforgiven a cui la giustizia presenta il conto e nessuna redenzione. Forse è questo il testamento di Eastwood, essere sempre stato dove non te lo aspetti: dietro la porta che si apre sul mistero insondabile della coscienza umana, dentro un epilogo che si gioca sui soli volti di un attore e di un'attrice, nella conclusione (?) struggente di una filmografia che non ha mai smesso di guardarsi in faccia.
In un Paese in cui la verità (fattuale) viene denigrata o totalmente ignorata, Clint Eastwood prende una posizione indispensabile.
Marco Massara (domenica omeriggio) |
“la verità non è giustizia”. Questa battuta chiave dell’ultimo (?) film di Eastwood può essere anche chiave di lettura di buona parte della sua filmografia. Quella tesa ad appianare le contraddizioni della società, americana o non. Un percorso che si snoda attraverso titoli fondamentali (“Million Dollar Baby, Un mondo perfetto, Potere assolto,, Gran Torino…….) e momenti di ripiegamento creativo, con personaggi sempre tesi verso la ricerca e l’attuazione di una giustizia morale e, perché no ?, di un equilibrio sentimentale (I ponti di Madison County). Sempre nel rispetto degli elementi caratteristici dei vari generi cinematografici a cui si è affidato. “PROVACI ANCORA, CLINT !” |
Angelo Sabbadini (Lunedì sera) |
Il novantacinquenne Clint Eastwood con Giurato numero 2 mette in scena in modo magistrale le aporie tragiche dell’azione e i nodi indistricabili della colpa. La condizione tragica dell’individuo non è episodica ma ontologica e coincide con il punto in cui inizia anche la sua presenza al mondo. Il tutto ci viene raccontato sotto la forma di un Legal Thriller teso e senza un attimo di respiro come sottolineano gli spettatori del Bazin. Cast azzeccatissimo dove svetta Toni Collette, poliedrica attrice australiana all'ennesima interpretazione da urlo |
Giulio Martini (mercoled sera) |
utilizzando una delle ultime combinazioni immaginabili su dove mai "collocare" il colpevole in un giallo, l' abile sceneggiatura di Abrams - sempre al limite del verosimile e molto ben filmata dal lucido gran vecchio Eastwood - gli offre la possibilità di tornare sui temi che lo appassionano: onestà intrgrale e salvaguardia dell' onore,ricerca della cruda verità senza gronzoli ma anche della giustizia, ansia di una redenzione possibile per quanto difficile da un passato ambiguo, formali responsabilità pubbliche e acuta coscienza privata.
Quesiti e tormenti che stavolta riguadano entrambe le coppie che strutturano il racconto,in un continuo gioco di inversioni a specchio i tra i ruoli di indagati e di indagatori.
Pero,' la metafora di fondo è chiarissima fin dalla prima inquadratura.
La moglie ormai prossima al parto che nella scena iniziale del film entra in casa sbendata da una fascia nera sugli occhi è nella condizione identica in cui Clint mette alla fine noi e il marito con l'improvvisa " andata a nero" sullo schermo...
Cosi per immagini dice che prima o poi la verità bussa alla porta e si e' obbligati a valutarla/giudicarla.senza che piu' nessun diaframma ne ottenebri o ritardi la vista.
Viene alla luce con fatica e con dolore, ma è un "parto" vitale
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Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Il novantaquattrenne Eastwood costruisce un film processuale che ci dice dall'inizio chi è il colpevole, per seguirlo nel suo tentativo di fare la cosa giusta, ma senza dover pagare le ingiuste conseguenze di questa scelta. Un'immersione nell'intimo del/i personaggio/i principale/i, attraverso la quale ci mostra le storture del sistema giudiziario americano, ma anche le sue potenzialità, che si rivelano quando una procuratrice onesta, come quella interpretata dalla splendida Toni Collette, è disposta a rischiare tutto per far entrare in azione la verità. Astenersi perditempo, come si vede dal fulmneo e spiazzante finale. Inizio an sospettare che Clint sia immortale |
Guglielmina Morelli (Jolly) |
Gli ultimi due films di Clint che avevamo visto al Bazin li avevo trovati deboli nei temi e banali nella struttura e nelle scelte registiche. Vedendo questo Il giurato n. 2 mi sono spiegata quella debolezza (insolita) col doppio ruolo rivestito (errore e regista), forse troppo faticoso. Infatti solo regista Clint si mostra un fantastico costruttore di storie, capace di stimolare via via la nostra attenzione e il nostro giudizio (mai asservito e sempre problematico). Qui si intrecciano varie storie che, persino pirandellianamente, sono variamente viste dai vari protagonisti; ma si avverte il sapore del thriller e della detection. Tutti i personaggi hanno spessore e personalità e persino la Storia non è estranea. Il sottofinale propone a tutti noi un problema morale nella scelta tra verità, giustizia, pentimento, futuro, amore, pregiudizio e mille altre considerazioni. Posto che davvero il giurato 2 sia colpevole, il pubblico ministero sembra aver scelto l'affermazione della verità, costi quel che costi. Se davvero è così è una scelta coraggiosa e onesta. |
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