Cattiverie a domicilio
da domenica 2 a venerdì 7 febbraio 2025
CATTIVERIE A DOMICILIO
regia di Thea Sharrock
“Nel 1922 a Littlehampton la routine di una piccola cittadina viene sconvolta da una serie di lettere anonime oscene e cariche di insulti, indirizzate a Edith Swan. È una donna devota, cristiana, la sua fama di rettitudine e impeccabilità morale la precede. Tutto il contrario della sua vicina di casa Rose Gooding, immigrata irlandese vivace, ribelle e anticonformista. Sarà lei la prima sospettata, e subito arrestata, come autrice delle anonime missive. Sarà vero? A fare luce sulla vicenda, una giovane poliziotta poco rispettata, che insieme alle donne di quartiere si impegnerà a scoprire la verità. Fare commedia in modo arguto, sottile, raffinato, è arte sempre più rara. Appartiene di sicuro alla penna di Johnny Sweet e alla maestria registica di Thea Sharrock, che firmano un’opera deliziosa, scorretta e imperdibile. (…) Siamo nel primo ventennio del Novecento, le donne non sono ben viste in società, e Sharrock ne sottolinea con amara ironia a più riprese la realtà ingiustamente subalterna. A partire dalla protagonista Edith Swan, che vive nella pia devozione cristiana ed è del tutto sottomessa ai voleri e alle isterie del padre/patriarca. Due personaggi drammatici, resi più interessanti che mai non solo dall’abile scrittura, ma anche dalle titaniche performance degli attori Timothy Spall e Olivia Colman. Quest’ultima offre l’ennesima prova d’attrice maiuscola, riuscendo perfettamente a calarsi nei panni di una donna repressa, che trova una via di sfogo nell’amicizia inattesa con la vicina Rose Gooding. Rose è un personaggio-chiave, rappresenta la forza vitale che viene da fuori, un’immigrata irlandese con tanto di figlia al seguito, sboccata, anticonformista, ribelle, pronta a scoccare freccette sulla testa degli uomini, non certo a farsi comandare da loro. Anche Jessie Buckley sfoggia una memorabile abilità recitativa, è perfetta nel dare corpo e grinta alla vera “outsider” della storia, una donna moderna, imperfetta, ritenuta “sbagliata” da tutti, eppure profondamente autentica. Il suo modo di vivere decisamente agli antipodi dell’apparente rettitudine di Edith insospettisce, tuttavia, il padre di quest’ultima, che la ritiene colpevole delle anonime sconce missive che gli arrivano in casa. Il sospetto diventa automaticamente accusa ed Edith viene incarcerata.
Qui la commedia si mischia prima con la “detection”, poi con il “legal movie” quando Rose dovrà affrontare il processo. (…) L’ironia con cui Sharrock porta sullo schermo tutta questa narrazione è feroce e politicamente scorretta, ma soprattutto colpisce tutte e tutti indiscriminatamente: anche le manie delle donne vengono messe alla berlina, dall’irascibilità di Rose al bigottismo di Edith, passando per le loro – indimenticabili – vicine di quartiere, tra cui c’è chi che senza mangiare uova non sa stare. A tutto questo si aggiunge l’umorismo marcato, e amaro al tempo stesso, con cui si affronta in maniera narrativamente ammirevole il fenomeno contemporaneo degli “haters”, attraverso questa storia “più che vera” (avvertono i titoli di testa).”
Claudia Catalli, da MYmovies.it
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foglie al vento
da domenica 19 a venerdì 24 gennaio 2025
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FOGLIE AL VENTO
regia di Aki Kaurismaki
“Ecco, Aki Kaurismaki è quell’autore, ironicamente, disperatamente romantico, ostinatamente minimalista, sincero, partecipe. Ai suoi personaggi ha sempre voluto bene, anche quando li ha un po’ maltrattati. E ogni sua inquadratura porta impressa la sua firma, la sua visione del mondo. Il suo nuovo film, Foglie al vento, è un piccolo (81 minuti, un miracolo!!!) capolavoro, dove due anime perse nell’algida solitudine della città s’intravedono, forse si piacciono, s’incontrano, si perdono, si ritrovano, si riperdono, ecc. ecc. Si sa che nel mélo, anche in quello raffreddato, il caso gioca quasi sempre a sfavore della coppia; e qui si accavallano folli incidenti “sirkiani” (ma anche un accenno a Un amore splendido di Leo McCarey), senza parere, tra foglie gialle che volano, volti che scrutano attraverso vetri bagnati dalla pioggia, superfici che riflettono, un accenno di colonna sonora (da Magnifica ossessione), cui fa eco, in un altro momento, il Concerto n. 2 di Rachmaninov, appunto da Breve incontro. Più, visto che i protagonisti al primo appuntamento vanno al Cinema Ritz a vedere I morti non muoiono di Jarmusch e che davanti allo stesso cinema ritornano nella speranza di rivedersi, ecco locandine e foto di film di Melville, Jack Arnold, Ozu, e Fu Manchu, Brigitte Bardot, Fat City, Rocco e i suoi fratelli, ancora Lean, Godard e Stranger Than Paradise. Ma questo non significa che Foglie al vento sia un’amorosa collezione per cinefili. Tutt’altro: la sua bellezza, la sua “giustezza”, sta proprio anche nell’autoironia con cui Kaurismaki dissemina le sue passioni cinematografiche (e musicali, con paradossali versioni finlandesi di rock e tanghi e, è ovvio, di Les feuilles mortes di Prévert e Kosma) tra le pieghe di una storia che è molto quotidiana, umana e contemporanea. Anime solitarie (..) e volti imperscrutabili, battute fulminee, silenzi, rotti solo, ogni volta che qualcuno accende una radio (…) Tutto qui: basta poco per catturarti il cuore e lo sguardo, basta essere bravi e limpidi come Aki Kaurismaki. E avere a cuore la gente, come lui e come Chaplin, l’altro spirito guida di questo film, intravisto nei poster fuori dal Ritz e in certe inquadrature e citato nel nome che Ansa dà alla randagia che adotta, una rossiccia di media taglia che pare incredula di aver trovato qualcuno che si occupi di lei. Perché, tra i tanti lati umani di un film di Kaurismaki, non poteva mancare quello canino.”
Emanuela Martini, da cineforum.it
Guglielmina Morelli (domenica pomeriggio) |
Guglielmina ha sostituito Giulio |
Giulio Martini (Giulio ha sostituito Angelo |
auto-ritratto ironico del lo spirito finlandese ad alto tasso alcoolico e a bassissima disponibilità relazionale. Una depressione bislacca piena di assimmetrie nei dialoghi e negli eventi, cadenzata da canzoni che commentano gelidamente i "brevi incontri", ma con finale di tipica marca Chaplin/Kauriamaki, cioè carico di pietas e auguri per i vagabondi della vita e degli affetti. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Tra malinconiche musiche finniche, mambo italiani e struggenti evocazioni delle “foglie morte” (che poi è il titolo del film) di Kosma e Prevert, rigorosamente in lingua finlandese, si dipana questo piccolo (a dimostrazione che ipertrofia non è sinonimo di bello) prezioso film, favola chapliniana di marginali (per scelta, per sorte, per troppo alcool) alla ricerca di d’amore, sotto lo sguardo di locandine di film o di zombie alla Jarmusch. Attori che sotto l’apparentemente inespressività nascondono una sensibilità formidabile, un minimalismo nei sentimenti che ne moltiplica la profondità, una precisione geometrica delle immagini e della struttura. Impagabili i momenti umoristici: le comparse che sembrano uscite da un film degli anni ’70, un’ironia buffa e straniata (i due spettatori, forse critici cinematografici cui I morti non muoiono ricorda “Diario di un curato di campagna di Bresson”) e sottili giochi con le onnipresenti locandine di film (mentre i due si aspettano senza trovarsi davanti al cinema campeggia quella di Breve incontro, quasi il regista ci orientasse verso una pista che si rivelerà falsa), e poi Fat city, Rocco e i suoi fratelli, Un amore splendido, L’argent. Contrariamente al solito, qui non subiscono la violenza spicciola della società solo i due personaggi, ma compare anche la violenza della Storia; una petulante radio tramette le notizie relative alla guerra russo-ucraina: forse in Finlandia, nonostante gli anni trascorsi dal 1939, la Russia fa ancora paura. |
Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Aki Kaurismaki ci regala un’altra opera che commuove profondamente scomponendo tutti gli artifici che di solito vengono usati per colpire lo spettatore. Rende i suoi attori quasi inespressivi e li fa parlare spesso (pochissimo, peraltro) senza che si guardino; lascia fuori campo tanti avvenimenti anche importanti, come il tram che investe il protagonista; usa molto le canzoni per spiegare e dare il tono emotivo a quello che man mano accade invece di sfruttare la musica d’accompagnamento. Questa miscela di ragione e passione, che si esprime anche nella dialettica ricorrente tra colori caldi e freddi, crea un gioiellino capace di divertire e far pensare, sfiorando in varie occasioni la surrealtà, ottenuta pure attraverso una temporalità indefinita che va dall’epoca degli internet café e dei cellulari non smart a quella della guerra in Ucraina. Per citare qualche riferimento cinematografico per illustrare un film che ne è pieno, è come un film di Chaplin recitato da tanti Keaton. Una sintesi deliziosamente intrigante |
Marco Massara (Jolly) |
Kaurismaki continua la sua galleria di piccole/grandi storie di personaggi marginali che vengono condotti attraverso un processo di crescita morale aperta ad una speranza. Molta vodka, qualche citazione di ottimo cinema in locandina e un pizzico di surrealismo : (. Come si chiama il paziente ? . Non lo so . Lei chi è ? . Sua sorella). Un piccolo/grande film! |
Maria Cristina Cinquemani |
Trama semplice e dolceamara, dialoghi ridotti all'osso, personaggi tristissimi e un'atmosfera squallida che ti invita ad evitare Helsinki ad ogni costo.
Nonostante questo il film è piacevole da seguire, partecipiamo facilmente a quel desiderio di felicità che scopriamo nei protagonisti e ne seguiamo le vicende, felici di vedere una conclusione positiva nel finale.
Alcune battute comiche e fulminanti ti strappano un sorriso e l'inquadratura finale merita un applauso.
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Perfect days
da domenica 15 a venerdì 20 dicembre 2024
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PERFECT DAYS
regia di Vim Wenders
“Si chiama Hirayama, proprio come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, Il gusto del sakè. Lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo e conduce una vita abbastanza abitudinaria. Parla pochissimo e ha una grande passione per la musica, i libri e gli alberi che ama fotografare. Wenders segue il suo protagonista, dove la grandissima interpretazione Kôji Yakusho (premiato a 76° Festival di Cannes come miglior attore) crea con il suo personaggio un’intimità nascosta. Diventa il punto d’incontro tra il cineasta e quello che sta filmando. Si esprime quasi esclusivamente con il linguaggio del suo corpo. Prende per mano un bambino che ha perso la madre. Ripete quotidianamente i suoi gesti come quello di farsi la barba la mattina. Trova corrispondenze con sconosciuti come il foglietto della partita a tris in bagno. Cerca la bellezza anche guardando la partita di baseball in tv mentre mangia. Attraverso Hirayama, Wenders trova con una semplicità sconvolgente la poesia del quotidiano, in uno dei suoi film più belli e liberi di sempre. (…) I suoi legami non solo con il suo passato ma proprio con la sua storia personale riemergono con una copertina di un libro di William Faulkner, le musicassette di album come quelle di Lou Reed, Patti Smith, sogni in bianco e nero che sono forse le zone d’ombra, proprio come quelle oniriche del cinema di Truffaut.
È ancora un cinema on the road che svela il personaggio attraverso il viaggio, anche è quello della metropoli con cui condivide i ritmi, i rumori, gli umori. In Perfect Days c’è un documentarismo soggettivo, con tracce del cinema muto (dall’alba alla notte come Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann), con le inquadrature dall’alto, le luci del traffico, la pioggia. Il protagonista è spesso accompagnato solo dalla musica. “Sometimes fills so happy/Sometimes fills so sad” proprio come nel brano Pale Blue Eyes dei Velvet Underground. Forse i giorni sono tutti perfetti (ancora Lou Reed con il brano che dà il titolo al film), forse no. Ma al tempo stesso c’è anche la necessità nel suo cinema di un altro viaggio nella città giapponese dopo Tokyo-Ga. Certo, per ritrovare Ozu, ma non solo. Forse è da lì che riparte il suo cinema del passato. Forse lo sguardo sereno di Hirayama è lo stesso, oggi, di quello di Wenders. Che riguarda le bellezze del suo passato, quindi del suo cinema, senza rimpianti.”
Simone Emiliani, da sentieriselvaggi.it
Giulio Martini Domenica pomeriggio |
come immergersi nell' animo di Tokio avendo stavolta come perno la Torre della TV, simile alla Colonna della Vittoria nel cielo sopra Berlino ?
Facendo reagire al baluginare del sole che si leva tra i rami degli alberi ( Komoredi ) un monaco metropolitano votato alla pulizia delle cose e alla purificazione delle passioni.
Senza l'ombra di una turpe emozione beluina (nel film non compare neppure un animale... ) ma esponendosi alla luce ,come fa un albero o una foglia o una fotografia e una pellicola, il film invoca un' esistenza che sia unicamente collezione di memorie e immagini delicate e tremule.
Sensibilità nipponica (anche se ormai solo della generazione che sta scomparendo ) condivisa al 100% da un tedesco sempre sensibile alla precarietà della vita e alla ricerca della serenità nell'attimo impermanente.
Ma c'è anche un grumo di infelice mascolinita', incapace di sintonizzarsi sull' evanescente sentire al femminile.
Anche questo tipico dei giapponesi e di Wenders.
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Angelo Sabbadini (Lunedì sera) |
Per l'assoluto minimalismo drammaturgico sembra agli spettatori del Bazin che Perfect Days rappresenti un esplicito omaggio al cinema di Ozu. E in effetti il grande cineasta nipponico aleggia come una sorta di nume tutelare lungo tutto il film. Non è certamente un caso che il nome del protagonista – Hirayama – sia lo stesso di quello della famiglia di Il gusto del sakè (1963). E i più ricordano l'appassionato omaggio di Wenders a Ozu in Tokyo-Ga (1985). Alla fine del confronto tutti i visionari sono però concordi nel sottolineare come la predisposizione di Wenders verso il Giappone abbia subito uno scarto significativo. In Tokio-Ga prevaleva la nostalgia verso un Giappone che si temeva perduto sotto l'incombere della cultura occidentale . Mentre in Perfect Days sembra emergere un'adesione nei confronti del paese del Sol Levante e delle sue ritualità. |
Marco Massara Mercoledì sera |
Un percorso emozionante ed affascinante alla scoperta di sé. Hirayama nell’esercizio quasi sacrale della sua professione ai minimi della scala sociale scopre che può essere amato, acquista un ruolo fondamentale nel suo rapporto con la nipote e fa giocare una persona minata nella salute e che che lo ha scambiato per l’amante della sua ex-moglie. Il tutto con piccoli passaggi ricchi di significazione affidati ad una straordinaria prestazione attoriale di Koji Yakusho . E come canta nello splendido finale Lou Reed: E’ un nuovo giorno, è una nuova vita per me. E mi sento bene!” |
Giorgo Brambilla (venerdì sera) |
In Perfect Days sembra che la bellezza passi attraverso le fessure: può consistere in uno scorcio di cielo colto da una finestra semiaperta, nel riflesso sul tetto metallico di un bagno pubblico, nel sole che filtra attraverso le foglie delle piante nelle foto scattate senza guardare nell’obiettivo, o nelle piantine che crescono per caso in posti improbabili e il protagonista porta a casa e cura amorevolmente. La vita è dura, il film ci lascia intravedere un rapporto difficile del protagonista con la famiglia d’origine, ma si può scegliere di vivere serenamente distinguendo l’adesso dalle altre volte, stando accanto alle persone che si incontrano, sforzandosi di cogliere il bello dovunque, chiudendosi in una bolla fatta di libri e musicassette, con una ritualità identica ogni giorno ma ogni giorno ricca, alla faccia di Spotify. Quindi non è che il dolore non esista e bisogna lottare per sorridere nonostante tutto, come si vede nell’ultima inquadratura (e unica frontale) di Hirayama, ma pare proprio che ne valga la pena |
Guglielmina Morelli (Jolly) |
Wim Wenders, protagonista nei primi anni ‘70 del Neuer Deutscher Film, è stato, tra tutti i protagonisti di quella straordinaria esperienza produttiva, il più permeabile alle suggestioni che venivano da lontano: in questo Perfect days, infatti, si intrecciano le suggestioni orientali e l’amore per gli USA (compreso un omaggio a Patricia Highsmith, da cui trasse, nel 1977, il notevole L’amico americano, con Dennis Hopper e Bruno Ganz). Il plot, infatti, discende diritto diritto dalla tradizione western: un tizio, per qualche ignota ragione che tuttavia possiamo intuire (incompatibilità sociale, potremmo dire: pare che il nostro protagonista nell’altra vita fosse manager ricco ma infelice, un classico), molla tutto (casa, famiglia, parenti e benessere) per vivere ai margini, isolato e ai limiti dell’indigenza. Unici passatempi: passeggiate in bicicletta, qualche libro, qualche serata in un saloon confortato da una “comprensiva” barista (qui però andiamo tra gli archetipi del narrare e ci troviamo catapultati sulla riva del mare, dove la locandiera Siduri, custode del giardino del dio Sole, offre a Gilgamesh birra e consigli). Musica all american, rock e blues. Ma si sa: il rock salva la vita, genera desideri, sogni e creatività. Piatto forte americano con contorno nipponico: i celebri bagni pubblici di Tokio, l’ombra del cinema classico giapponese (Ozu, in primis), l’ansia di fermare la luce in una foto, diventare albero tra gli alberi percorsi dal baluginio del sole. Un regista meno attrezzato ne avrebbe ricavato un pasticcio intollerabile, lento e falso, ma la fotografia è uno splendore, l’attore è magnifico (di quelli capaci di ridere piangendo e piangere ridendo, e sono pochi), la musica onnipresente e insopportabile (ma qui devo confessare la mia viscerale avversione per ogni forma di rock, straniero o nostrano). Il risultato un po’ così: il film si lascia vedere ma non suscita la curiosità di conoscere Tokio. |
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The old oak
da domenica 12 a venerdì 17 gennaio 2025
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THE OLD OAK
regia di Ken Loach
“Ha un gran rigore “la vecchia quercia”: più vicino ai novanta che agli ottanta, insieme al fidatissimo e bravissimo sceneggiatore Paul Laverty, Ken Loach realizza un film pulito, semplice, lineare, limpidissimo negli intenti e nella forma, dove i due protagonisti (…) sono continuamente circondati, protetti, ostacolati dal coro mutevole dei rifugiati e dei locali. Non ci sono buoni e cattivi tra i personaggi (anche se alcuni sono francamente antipatici), solo gente infelice e impoverita che la miseria e la disillusione spingono all’astio e all’aggressività. Loach li segue, li controlla, non eccede, non bara; persino ti aspetti quello che succede (perché, come diceva Hitchcock, “Se in un film fai vedere una pistola, poi quella pistola deve sparare”). Eppure, The Old Oak non è mai banale, “telefonato”, risaputo. Sappiamo dove vuole portarci e sappiamo che non ci resta che assecondarlo, perché la misura della speranza sta proprio in quelle pieghe della Storia, e in quelle piccole storie personali intraviste, sfiorate da una macchina da presa che sa ritrarsi, sa mettersi in secondo piano rispetto all’idea che vuole rappresentare.”
Emanuela Martini, da cineforum.it
Marco Massara Domenica pomeriggio |
Quando T.J. restituisce a Yara la macchina fotografica riparata lei gli dice “con questa ho visto cose che senza non avrei mai visto”. Sostituite “questa” con “Cinema” e avete il senso del cinema di Sir Kenneth Loach. E nonostante gli sforzi per raddrizzarla,, ci sarà sempre una ‘K’ che si metterà di traverso. |
Angelo Sabadini (luned sera) |
Serata dedicata a Ken Loach e alla sua carriera inimitabile dedicata al’impegno civile. Con The Old Oak siamo al capolinea e il pubblico del Bazin gli tributa un applauso di riconoscenza per questo film semplice e necessario in cui Ken il rosso c’insegna il valore politico della speranza. Il tutto grazie a un insolito finale, quasi onirico, che pare stridere con l'andamento della storia, ma suona, forse anche per questo, commovente, come uno stoico tentativo di opporsi al corso tragico degli eventi.Serata dedicata a Ken Loach e alla sua carriera inimitabile dedicata al’impegno civile. Con The Old Oak siamo al capolinea e il pubblico del Bazin gli tributa un applauso di riconoscenza per questo film semplice e necessario in cui Ken il rosso c’insegna il valore politico della speranza. Il tutto grazie a un insolito finale, quasi onirico, che pare stridere con l'andamento della storia, ma suona, forse anche per questo, commovente, come uno stoico tentativo di opporsi al corso tragico degli eventi. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Ken il rosso, ormai quasi novantenne, ha affermato di chiudere la sua carriera con questo film: ce lo dice con il sottofinale. Yara, la giovane profuga siriana catapultata con la famiglia e altri connazionali in una lugubre via di un malinconico paese dell’Inghilterra del Nord, dice di trasformare, attraverso le foto che scatta, il dolore e la violenza in speranza. Cosa rappresenta questa affermazione se non l’autoritratto di Loach? Le foto di Yara (il cinema di Loach) riscattano tutte le persone (belle, brutte, goffe, buffe), le collocano nello spazio e nel tempo, mettono in rapporto gli uni con gli altri e fanno sì che una comunità si riconosca come tale, accogliente per tutti; come la cattedrale di Durham e il coro che ivi si ascolta sono segno della bellezza, dell’armonia e una plastica rappresentazione della collettività così uno squallido retrobottega diventa luogo della suggestione delle immagini, della musica e della condivisione (e che la condivisione passi per il mangiare assieme lo dice una parola ormai desueta, “compagno”). Yara-Loach ci stanno dicendo che la via della speranza passa per l’arte e il gesto della ragazza che lascia la macchina fotografica ad omaggio del padre è il gesto di Loach che lascia la macchina da presa dopo avere, per mezzo secolo, cercato di mostrare la speranza che mai si deve perdere, nonostante la violenza delle classi dirigenti ai danni dei lavoratori, nonostante un sordido razzismo da cui, noi italiani, ci credevamo immuni e che invece tanto cresce intorno a noi. E il resto del film? E Ne parleremo un’altra volta, per ora un omaggio a Ken Loach e al suo cinema magari non geniale ma “onesto”. |
Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Ken Loach fa una chiara scelta di punto di vista: mostra l'inizio del film e la fine in bianco e nero,
all’inizio attraverso le foto di Yara, alla fine semplicemente riprendendo la sfilata con i diversi stendardi. Così facendo dice alcune cose:
- che vuole guardare il mondo come la protagonista, profuga siriana che ha visto tanto male e riesce a mantenere una certa serenità solo guardandolo attraverso il suo obiettivo. Ricordiamo che quando al cinema si vede in fotografo o un filmaker in azione, incarna la figurativizzazione dell’istanza narrante o, semplificando, del regista.
- Che rifiuta un modo di usare il video nei social, finalizzato a mettere alla berlina il prossimo, e sceglie di raccontare una società simile a quella che sosteneva i minatori in lotta, e che il coprotagonista TJ rimpiange (anche quelle foto sono in b/n).
Alla sua tenera età, insomma, dichiara di vedere benissimo il male nel mondo, ma che questo può diventare più sopportabile quando gli sceglie di sostenersi reciprocamente. Amen
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Rolando Longobardi
(Jolly) |
Ci sono delle "K" che non cadono mai anche se l'insegna è usurata: quella di Ken (Loach) splendido ottuagenario che non smette di raccontare la sua popolazione che è proletaria tanto nel conto corrente, quanto nei modi. Ancora una volta, la dimensione sociale della solidarietà raccontata nel cinema di Loach si manifesta attraverso una coralità di azioni e di gesti che spingono lo spettatore, lentamente ma inesorabilmente a prendere le parti dei più deboli. La solidarietà non richiede curve di tifosi, si attua e basta ; per questo è reciproca e mai sprecata. Valida tanto tra uomini che tra cani. (Si veda ma bella sequenza sulla spiaggia.)
Chi mangia insieme, resta insieme e chi sa vedere (le fotografie!!) non smette di saper guardare. Bello. Brava, cara vecchia quercia di Ken.
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Maria Cristina Cinquemani |
Se veramente questo sarà l'ultimo Ken Loach ci avrà lasciati con una nota di speranza, non sempre presente nei suoi film passati.
L'argomento dell'immigrazione, con relativi problemi, è quanto mai attuale e scottante e viene qui trattato con serenità e sincerità, mostrando quanta buona volontà dimostrano alcuni e quanta durezza e indifferenza altri.
Vengono anche considerate le ragioni di chi si vede invaso e disturbato o di chi confronta le proprie necessità spesso ignorate con la generosità messa in atto verso i nuovi arrivati.
La narrazione è piacevole e i personaggi ben rappresentati, la cittadina ex mineraria ma sempre grigia e triste ben incornicia tutta la vicenda.
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povere creature
da domenica 1 a venerdì 6 dicembre 2024
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Povere creature!
regia di Yorgos Lanthimos
“Il settimo film del regista greco Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato a undici premi Oscar, è una stupefacente creatura ibrida, di bianco e nero e di colori saturi, di convivenze che stridono e passano sempre vicinissime al troppo senza mai esagerare, come le chimere al tempo stesso penose e adorabili che gironzolano per tutta la pellicola. Povere Creature!, tratto dal romanzo omonimo del 1992 di Alasdair Gray, è un viaggio che parte da una Londra gotica e steampunk, come si conviene piena di vapore, metallo e macchine bizzarre, e sgorga in un flusso travolgente e divertentissimo di libere associazioni senza morale — ma non immorali —, una mano giù a pescare nell’inconscio puro, senza simbolismi elaborati o sovrastrutture intellettuali da decifrare, più vicina al Lamento di Portnoy (Roth, 1969) che a Mulholland Drive (David Lynch, 2001), tra Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974) e il Tim Burton de La sposa cadavere (2005). Le vicende di Bella Baxter (Emma Stone), corpo di giovane donna suicida e cervello del feto che aveva in grembo, sono un delirio controllato di sadismo e creatività, che si trasformano lentamente nel racconto della lotta per liberazione morale e sessuale della donna attraverso i secoli. Bella, man mano che il cervello si sviluppa, impara a camminare e a conoscere il suo corpo da miserabile Lolita-Oggetto (...) Vederla donna con movenze da bambina ci spinge a immedesimarci nello sguardo di una serie di adulti confondenti, che distorcono la tenerezza e la seduttività del cucciolo fino ad abusarne, sfruttando perversamente i bisogni e la pulsionalità del polimorfismo infantile. Lanthimos in effetti fa ampio uso di un grandangolo deformante come fosse l’occhio di chi vede l’altro attraverso la bramosia del potere esercitato con il sesso, la conoscenza o la sopraffazione fisica. Povere Creature! è una storia geniale di orrori e di trasformazioni, raccontata attraverso i corpi e i sensi ancor più che con le parole; una storia di umanizzazione a mio parere più vicina nella sua essenza a una declinazione moderna e femminista di Pinocchio che al più citato classico di Mary Shelley.
Il creatore di Bella, Godwin Baxter (detto God, Willem Defoe), è un grottesco dottor Frankeinstein a sua volta abusato e distorto dal sadismo del padre scienziato. Ridicolo e ripugnante, è il primo adulto mancato della storia, mai del tutto cresciuto e colonizzato dalle intrusioni paterne, col destino già inscritto nel nome. Anche se non incapace di tenerezza, fino alla fine non riesce a distinguere tra conoscenza e amore e a malapena trattiene gli impulsi sessuali per la figlia-creatura. Bella è dunque creata orfana, costretta a nascere e crescersi da sola, appellandosi alla sua vitalità e curiosità per il mondo, imparando da sé a sfruttare i suoi “poteri”. All’inizio per difendersi e poi, col tempo e apprendendo dall’esperienza, per scegliere di chi e cosa circondarsi, in un percorso di emancipazione in cui si vede benissimo la psiche incarnarsi nel corpo, passo dopo passo, attraverso la scoperta del piacere e del dolore e fuori da ogni convenzione sociale. (…) Lanthimos getta un amo politico al tema del corpo e della soggettivazione femminile ma riesce a farlo senza la grevità del pamphlet moraleggiante, non perdendo mai la capacità di giocare trasformando, come un bimbo che inventa con la plastilina.(…) La protagonista cresce quindi sulla sua stessa pelle, creando, sgomitando e… (non oso inventarmi un verbo per dire che si fa largo attraverso la genitalità, ma di questo si tratta!), infine trasformando la passività in attività e rompendo la coazione a ripetere dell’essere trattata come un feticcio. In questo film c’è tantissimo da districare, ma su tutto prevale un inno alla libertà e alla diversità così come alla singolarità, intesi come antitesi della perversione, che livella tutti i rapporti e schiavizza la curiosità. Eppure, la perversione resta sempre sullo sfondo come tentazione costante, come in effetti emerge nella punizione-trasformazione finale del personaggio più negativo e in fondo motore primo del film, pur catartica e coerente con tutto il resto.”
Filippo Barosi, da spiweb.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Con una fantasmagorica dovrabbondanza di scenografie e costumi e con la semplice/diabolica idea dell' innesto del cervello /animo di una figlia nel corpo di sua madre il film documenta e denuncia il destino eterno - vile e servile - delle donne, condannate da una sessualità sottomessa al maschio ed a una sorte fatale - non solo nella cultura vittoriana - per cui invita alla fine ad una legittima rivolta.
Eccessivo e dark per scelta sui versanti visivi e sonori,ma lucidamente ed ironicamente recitato da tutti gli interpreti, lo spettacolo sconvolge il pubblico, impreparato ad una favola così aggressiva e cinica,eppure così realistica e liberatoria.
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Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Questa volta Lanthimos e il fido McNamara, grazie all’adattamento della graphic novel dello scozzese Alasdair Gray, si divertono assai. Costruiscono una spericolata favola gotica con al centro Bela Baxter (Emma Stone), versione femminile e femminista del mostro di Frankenstein. Con la scatenata eroina mettono in scena un Gran Tour distopico in cui il modello di riferimento è il cinema di James Ivory debitamente rovesciato di senso e di prospettiva. E poi caricano nell’impresa tutti i passeggeri possibili: l’horror, il cinema erotico, il romanzo di formazione, ecc. Ne risulta un caleidoscopio di suggestioni narrative, visive e sonore che prima stupisce e poi conquista i visionari del Bazin. |
Marco Massara (mercoledì sera) |
- A un bambino si concedono comportamenti anomali perché non ha autocontrollo - Se un bambino prova piacere lo pratica senza considerare le ricadute etiche e di costume. Su questi assiomi l’analisi del film rivela il senso ultimo del film, passando per comportamenti a volte incoerenti ed altri assolutamente determinati,i per arrivare ad una ipotesi accettabile di emancipazione e autodeterminazione femminile. Visionarietà ed eccessi sono la base su cui lavora Lanthmos, senza mai stordire lo spettatore, ma semmai affascinandolo progressivamente. Emma Stone straordinaria. |
Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Povere creature racconta il cammino d’emancipazione di una donna che in teoria sarebbe una specie di mostro, in pratica risulta essere molto meglio di tutti gli esseri cosiddetti normali che la circondano. Corpo adulto con un cervello da bambina, sorta di creatura di Frankenstein, si forma divenendo una persona consapevole e libera, superiore ai tre uomini che cercano di farne quello che desiderano, tutti a loro modo malati di qualcosa: God (win) di fiducia esagerata nella scienza, quella stessa per cui suo padre ne ha fatto un mostro in primis; Duncan di dipendenza dal sesso, del quale esalta la libertà, salvo non riuscire ad accettare quella di lei; e il generale Blessington di pretesa di possesso, il peggiore dei tre. Nata Victoria, recante quindi in sé il nome che caratterizza un’epoca di perbenismo ipocrita, diverrà Bella, di nome e di fatto, e giungerà alla maturità attraverso la ricerca del piacere e l’accettazione del dolore; il suo candore infantile si trasformerà in capacità di autodeterminarsi restando fedele a se stessa e ne farà una creatura simile al film che la racconta, eccessivo ma affascinante da ogni punto di vista |
Guglelmina Morelli (Jolly) |
Tipico film divisivo: o piace o lo detesti, senza via di mezzo. Appartengo alla seconda schiera, da anni, da quando mi capitò di vedere Kinetta e Kinodontas: li giudicai eccessivi, disturbanti, sostanzialmente noiosi. Lo stesso mi accade anche per questo ultimo, che riprende uno dei motivi tematici di Kinodontas (un padre rinchiude i figli in casa per evitare loro il contatto col mondo) ma si differenzia per la prolissità della vicenda, per le scenografie (grottesche, eccessive, il sogno di un folle o di un gran burlone, sostanzialmente ridicole) e per la valanga di denari che devono essere costati i costumi, i costumisti, i truccatori e i tecnici di computer grafica. Inutile, sconclusionato, talvolta il registra dà la sensazione di non credere neppure lui alla sua storia e, quindi, di prenderci vagamente in giro. Si salva la Stone, così fuori ruolo da risultare magnifica, inutile la divina Hanna Schygulla, qui però non metaforicamente “sulla riva del Nulla”. Considerazione finale: checché se ne dica, il cinema è Hollywood e nessuna produzione nazionale può competere con la sua potenza di fuoco. Infatti il nostro Lanthimos ricorda la Grecia solo perché un cliente di Bella in versione prostituta ne parla. In Grecia il film più visto e premiato (e che mai vedremo, cfr sopra) si intitola L’assassina, trae spunto da un racconto di Papadiamantis, un contemporaneo di Verga, è girato nelle campagne del Mani, Peloponneso. Andateci, nel Mani: ve ne innamorerete (il racconto è tradotto in italiano, leggetelo, vi innamorerete anche di quello per la sua straordinaria modernità.) |
Maria Cristina Cinquemani |
Nonostante i premi e le ottime critiche che questo film ha ricevuto non riesco a farmelo piacere.
Bellissime certe immagini fiabesche, bravissimi Dafoe, Ruffalo e la Stone, ma troppo gotica la narrazione e troppo piena di tutto: dalle scene di sesso a quelle di sadismo, dagli squartamenti ali esperimenti di trapianto. Non vi ho trovato neppure una gran difesa della emancipazione femminile.
Del resto non possiamo avere tutti gli stessi gusti.
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