povere creature
da domenica 1 a venerdì 6 dicembre 2024
Povere creature!
regia di Yorgos Lanthimos
“Il settimo film del regista greco Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato a undici premi Oscar, è una stupefacente creatura ibrida, di bianco e nero e di colori saturi, di convivenze che stridono e passano sempre vicinissime al troppo senza mai esagerare, come le chimere al tempo stesso penose e adorabili che gironzolano per tutta la pellicola. Povere Creature!, tratto dal romanzo omonimo del 1992 di Alasdair Gray, è un viaggio che parte da una Londra gotica e steampunk, come si conviene piena di vapore, metallo e macchine bizzarre, e sgorga in un flusso travolgente e divertentissimo di libere associazioni senza morale — ma non immorali —, una mano giù a pescare nell’inconscio puro, senza simbolismi elaborati o sovrastrutture intellettuali da decifrare, più vicina al Lamento di Portnoy (Roth, 1969) che a Mulholland Drive (David Lynch, 2001), tra Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974) e il Tim Burton de La sposa cadavere (2005). Le vicende di Bella Baxter (Emma Stone), corpo di giovane donna suicida e cervello del feto che aveva in grembo, sono un delirio controllato di sadismo e creatività, che si trasformano lentamente nel racconto della lotta per liberazione morale e sessuale della donna attraverso i secoli. Bella, man mano che il cervello si sviluppa, impara a camminare e a conoscere il suo corpo da miserabile Lolita-Oggetto (...) Vederla donna con movenze da bambina ci spinge a immedesimarci nello sguardo di una serie di adulti confondenti, che distorcono la tenerezza e la seduttività del cucciolo fino ad abusarne, sfruttando perversamente i bisogni e la pulsionalità del polimorfismo infantile. Lanthimos in effetti fa ampio uso di un grandangolo deformante come fosse l’occhio di chi vede l’altro attraverso la bramosia del potere esercitato con il sesso, la conoscenza o la sopraffazione fisica. Povere Creature! è una storia geniale di orrori e di trasformazioni, raccontata attraverso i corpi e i sensi ancor più che con le parole; una storia di umanizzazione a mio parere più vicina nella sua essenza a una declinazione moderna e femminista di Pinocchio che al più citato classico di Mary Shelley.
Il creatore di Bella, Godwin Baxter (detto God, Willem Defoe), è un grottesco dottor Frankeinstein a sua volta abusato e distorto dal sadismo del padre scienziato. Ridicolo e ripugnante, è il primo adulto mancato della storia, mai del tutto cresciuto e colonizzato dalle intrusioni paterne, col destino già inscritto nel nome. Anche se non incapace di tenerezza, fino alla fine non riesce a distinguere tra conoscenza e amore e a malapena trattiene gli impulsi sessuali per la figlia-creatura. Bella è dunque creata orfana, costretta a nascere e crescersi da sola, appellandosi alla sua vitalità e curiosità per il mondo, imparando da sé a sfruttare i suoi “poteri”. All’inizio per difendersi e poi, col tempo e apprendendo dall’esperienza, per scegliere di chi e cosa circondarsi, in un percorso di emancipazione in cui si vede benissimo la psiche incarnarsi nel corpo, passo dopo passo, attraverso la scoperta del piacere e del dolore e fuori da ogni convenzione sociale. (…) Lanthimos getta un amo politico al tema del corpo e della soggettivazione femminile ma riesce a farlo senza la grevità del pamphlet moraleggiante, non perdendo mai la capacità di giocare trasformando, come un bimbo che inventa con la plastilina.(…) La protagonista cresce quindi sulla sua stessa pelle, creando, sgomitando e… (non oso inventarmi un verbo per dire che si fa largo attraverso la genitalità, ma di questo si tratta!), infine trasformando la passività in attività e rompendo la coazione a ripetere dell’essere trattata come un feticcio. In questo film c’è tantissimo da districare, ma su tutto prevale un inno alla libertà e alla diversità così come alla singolarità, intesi come antitesi della perversione, che livella tutti i rapporti e schiavizza la curiosità. Eppure, la perversione resta sempre sullo sfondo come tentazione costante, come in effetti emerge nella punizione-trasformazione finale del personaggio più negativo e in fondo motore primo del film, pur catartica e coerente con tutto il resto.”
Filippo Barosi, da spiweb.it
La festa continua (2)
da domenica 24 a venerdì 29 novembre 2024
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E la festa continua!
regia di Robert Guédiguian
“Improvvisamente, un terribile fracasso”. Comincia con questa didascalia E la festa continua! anticamera di una tragedia che dà il via al film più personale di Robert Guédiguian e forse più bello. Il 5 Novembre 2018 due palazzi al 63 e al 65 di rue d’Aubagne a Marsiglia, nel cosmopolita quartiere di Noailles quasi attaccato al famosissimo e cinematografico Porto Vecchio, crollano su loro stessi. Difetti di progettazione, allerte ignorate e la turistificazione selvaggia del posto hanno ucciso, quella terribile notte, otto persone. Le immagini di repertorio che scorrono sullo schermo sembrano preludere ad un lungometraggio d’inchiesta o ad un cinema sociale che racconti il vissuto della comunità o ad un cinema sociale che racconti il vissuto della comunità francese. Ed invece la mdp si sposta dentro una chiesa occupata mostrando Alice, attrice ed attivista, alle prese con le prove del coro. Lo scarto di Guédiguian è aspro: il racconto corale sceglie infatti di mettere a fuoco la famiglia del promesso sposo della ragazza, Sarkis, e della sua famiglia armena, alle prese invece con una quotidianità borghese quasi per nulla intaccata dalla catastrofe mostrata nei primi minuti. È il primo di una serie di bellissimi falsi indizi con cui una sceneggiatura, scritta in punta di penna ed intinta in un calamaio di ottimismo e bonomia straordinari, depista continuamente lo spettatore. Sullo schermo scorrono scene stracolme di vita e di poesia perché i tanti personaggi del film hanno un’energia, un attaccamento l’uno all’altro ma anche al nuovo (il tenero amore tra i futuri suoceri sbocciato così spontaneamente e con ardore adolescenziale) spiegabile solo con la malia di una città fondata non dai focesi, come vorrebbe il busto di Omero svettante sulla piazza, ma dagli armeni. (…) In questo poema urbano lieve ma non leggero (…) “Niente è finito, tutto comincia”. A Marsiglia, come al cinema.”
Mario Turco, da sentieriselvaggi.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Affettuoso e caldo coinvolgimento nella comunità (ormai poco comunista) degli Armeni di Marsiglia, tra nostalgia della Patria e delle tradizioni paterne, non solo ideologiche ma anche etniche ed etiche. La politica è ormai solo esortazione degli animi, poesia della solidarietà, libertà di sperare nell' aiuto e nella comprensione reciproca, anche se sembra troppo tardi per amarsi ancora. Il quartiere diventa metafora dell'Armenia intera, che rischia di continuo un nuovo genocidio e la distruzione, ma resta la casa indimenticabile e meravigliosa da tener sempre viva e popolata. Girato con semplice raffinatezza e arguta eleganza. |
Angelo Sbbadini (lunedì sera) |
Ritorno all’amata Marsiglia per Robert Guédiguian dopo la parentesi africana. Ritorno alla sua famiglia cinematografica (Ascaride, Meylan, Darroussin, Boude) per riprendere la ricerca di spiragli di speranza. E con un tono leggero il regista riversa sullo schermo tutte le sue ossessioni: l’agonia comunista, l’eredità armena, i rapporti familiari, la miseria umana e sociale e la corruzione politica. “E la festa continua!” è un film dove si concentra tutto il rumore del mondo. Un film corale per credere in una seconda possibilità in amore, in politica e nel ricordo del padre. Non è anche questa una forma di impegno? I visionari del Bazin sostengono di si e plaudono ai personaggi del filmRitorno all’amata Marsiglia per Robert Guédiguian dopo la parentesi africana. Ritorno alla sua famiglia cinematografica (Ascaride, Meylan, Darroussin, Boude) per riprendere la ricerca di spiragli di speranza. E con un tono leggero il regista riversa sullo schermo tutte le sue ossessioni: l’agonia comunista, l’eredità armena, i rapporti familiari, la miseria umana e sociale e la corruzione politica. “E la festa continua!” è un film dove si concentra tutto il rumore del mondo. Un film corale per credere in una seconda possibilità in amore, in politica e nel ricordo del padre. Non è anche questa una forma di impegno? I visionari del Bazin sostengono di si e plaudono ai personaggi del film. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Simpatico, nostalgico e ottimista o “ruffiano” e “buonista”? Oppure tutto questo insieme? Troppe storie che faticano a coesistere o un vortice di personaggi che gravitano naturalmente attorno a Rosa, protagonista e istanza narrante? Qualsiasi sia il vostro giudizio, un film sulla complessa natura della sinistra nella contemporaneità non può che porre problemi che Guediguian ora con allegria giovanile ora con pensosità matura ma la costruzione narrativa e filmica è molto tradizionale. Tra Marsiglia, Gramsci, Aznavour, l’Armenia, le autocitazioni e il monte Ararat, abbiamo trascorso due ore di tranquilli rimpianti e presente malinconia. |
Rolando Longobardi (venerdì sera) |
Non convince pienamente il gioco tra realismo (materialismo dialettico) e utopia sentimentale che Guédiguean vuole rappresentare con il suo ultimo lungometraggio. La tragicità dell'esistenza, manifestata dalla presenza di Omero in forma marmorea, eterea, evocata, risulta a tratti eccessiva e rende la narrazione didascalica. Buono l'intento filantropico e intimo anche se poco convincente se relazionata nella realtà di una Marsiglia politicamente inesistente. Si inizia con immagini reali di repertorio, ma poi ci si perde nel frammento di citazione sinistra radical chic |
Marco Massara (Jolly) |
E’ un film politico ? Ebbene sì E’ un film intimista Altrettanto sì. Peccato che, nonostante la gradevolezza dovuta ad ottima recitazione e doppiaggio il film non sa mai decidere su quale delle due strade prendere ed il tutto lascia un senso di incompiutezza. Comunque affascinante. |
Maria Cristina Cinquemani |
Come quasi sempre Guédiguian m'incanta. La sua narrazione è leggera ma anche profonda, piena di poesia, con uno sfondo musicale che ti conquista (con Mozart non si sbaglia mai), anche con le prove del coro diretto da Alice. Non siamo più nell'ambito del povero proletariato di Marius e Jeannette, ma in una famiglia borghese di origine armena, comunque i personaggi sono sempre gli stessi, pieni di vita e di ideali, impersonati ottimamente dai suoi attori preferiti. E' un film sereno e quasi fiabesco, colmo di bontà e di ottimismo, ma che non tralascia di affrontare le piaghe, purtroppo ovunque diffuse, dell'incuria e della negligenza che uccidono persone innocenti. Bellissima la scena della piazza battezzata col nuovo nome: ha la potenza di un coro del teatro greco. |
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Un anno difficile
da domenica 10 a venerdì 15 novembre 2024
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Un anno difficile
regia di Olivier Nakache, Eric Toledano
“I destini di Bruno e Albert s'incrociano casualmente. Entrambi hanno una cosa in comune: sono indebitati fino al collo e la loro vita personale è alla deriva. (…) Nel frattempo, iniziano a frequentare senza convinzione un gruppo di attivisti ecologisti che, con azioni dimostrative, cercano di fermare il consumismo compulsivo e lanciano l'allarme sul futuro climatico del pianeta che raggiungerà la temperatura di 45° nel 2050. Tra loro c'è anche Cactus, di cui Albert s'innamora. Ma sia lui che Bruno cercano di approfittare delle loro manifestazioni pubbliche per trarne un profitto personale. (..) I nuovi mostri non sono loro ma le banche e anche gli eco-attivisti (..) Si, forse da lontano si vede il cinema di Dino Risi in un film che sa essere amaro e spietato (…) Dentro ci sono tantissime idee. Forse troppe, forse no. Ma questo è un elemento ricorrente della filmografia di Nakache e Toledano. Il loro cinema non ha freni, accumula piuttosto che sottrarre (…) Per questo l'equilibrio formale apparentemente precario è invece uno dei suoi punti di forza e fanno di Un anno difficile un film divertente, appassionato e profondo. Non perdete i titoli di coda perché ci sono altri passaggi della storia decisivi.”
Simone Emiliani, da mymovies.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Ancora un vivace intreccio di paradossi e di eventi improbabili ma calati in un insieme he prende continui spunti da questioni attualissime domande quanto mai legittime. Ne risulta un racconto inevitabilmente destinato al sogno finale e all' utopia, vezzeggiata, eppure criticata e rivoltata nella sua ingenuità. Il duo dei Registi franco - magrebino-ebraico ripropone una sua formula cinematografica di successo, quello cioè di improvvise e felici amicizie involontarie. Stavolta però la applica ad un tema difficile - quello ecologico e dell'economia circolare - che mal si presta a soluzioni velleitarie, fantasiose o favolistiche. |
Angelo Sabbadini
(lunedì sera) |
Dei quattro film della fortunata coppia Toledano/Nakache passati sugli schermi del Bazin, Gli anni difficili è il più ambizioso e il meno convincente. Ha l’intento di virare in commedia gli atti dimostrativi dei gruppi ambientalisti francesi ma ci riesce solo in parte. Gradevole ma diseguale negli esiti di sceneggiatura, vive grazie alla verve comica della coppia attoriale Pio Marmai e Jonathan Cohen. Ma il più bravo è Mathieu Amalric che da solo vale la visione del film. |
Marco Massara (mercoledì sera) |
Il film dei registi che lavorano in coppia basati su personaggi che lavorano in coppia……funziona bene solo nella prima parte ovvero quando si incontrano e mostrano l’economia di sottobosco sulla quale penso ci facciamo tutti qualche domanda. Poi, quando il motore drammaturgico cala di giri, la sceneggiatura comincia a battere in testa e allora si sceglie o la strada più facile o, tipico dei due, si gioca al rilancio verso situazioni sempre più paradossali al limite della farsa. Decisamente antipatica, oltre che inutile, la chiusa con evocazione del lock-down para ecologico. Era più che efficace il risveglio ospedaliero. |
Rolando Longobardi (venerdì sera) |
Il sodalizio dei registi di Quasi Amici continua con questo ultimo lungometraggio. Riuscito in parte, non decolla in nessuna delle tematiche che presenta. Resta immeritatamente in ombra la figura dell'educatore finanziario, unico personaggio drammaticamente reale in un mondo al rallenty e, nonostante tutto, buonista. Narrazione collaudata sulla differenza man mano sempre meno evidente e indirizzata verso il lieto fine. Nulla di nuovo. |
Guglielmina Morelli (jolly) |
Abbiamo visto il primo dei molti film francesi della programmazione: deludente. Mi si dirà che è molto più facile coinvolgere con film drammatici: forse qualche intento pensoso lo aveva anche questo “Anno difficile”, soltanto che il risultato non convince. Troppo facile metterein campo un gruppo di fanatici e due sciagurati per vedere cosa succede: l’intento ecologista diventa assolutamente generico e pretestuoso e la storia d’amore scontata. Qualche spunto divertente è buttato via (il cane impagliato di soldi), il resto è ovvio e politicamente ambiguo e se si parla di ecologia o di povertà è atteggiamento discutibile o pericoloso. |
Maria Cristina Cinquemani |
Un film gradevole, ma non eccezionale.
Ho preferito i film precedenti di questi registi, ma ho comunque apprezzato l'idea di affrontare il tema degli eco-attivisti, verso i quali a tutti è capitato di rivolgere apprezzamenti poco lusinghieri quando vanno a scontrarsi con le nostre esigenze del momento.
I due personaggi principali, molto ben interpretati, sono credibili con le loro debolezze e le loro poco valide furberie, ma nel complesso lo svolgimento della vicenda è piuttosto confuso e non sempre la comicità colpisce il segno.
Comunque si esce sorridendo e non è poco.
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La zona di interesse
da domenica 17 a venerdì 22 novembre 2024
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La zona di interesse
regia di Jonathan Glazer
“Se il film è tratto dall'omonimo romanzo di Martin Amis, è peraltro categorico nello scarnificarne la drammaturgia, implicando e mai evidenziando un racconto, consegnandosi, come fa, al puro dispositivo. È questo, del resto, il fondamento dell’operazione: lamentarsi, come si è fatto, per la mancanza di una progressione narrativa significa proiettare un’esigenza personale estranea a un film che questa convenzione la rifugge scientemente. Se tentare di fare prosa o poesia sull’Olocausto è operazione difficilissima e sempre ai limiti della pornografia, Glazer, con questa scelta drastica, sembra volerci dire che oggi l’unico modo di esprimersi cinematograficamente sull’abominio dei lager, senza cavalcarlo, sia mettere a rischio il prodotto film, renderlo difficile, ostico, non addomesticarlo a un pensiero comune subito digerito. E non tentare di conquistare l’attenzione dello spettatore con la commozione o con il raccapriccio: piuttosto, invece, sfidarlo proponendogli una rinuncia, che è quella all’intrattenimento, alla narrazione, alla esplicitazione didattica del senso della Storia. Impegnarlo sul serio. Non mostrando il campo di sterminio, ma solo evocandolo, Glazer impone al pubblico di completare il quadro: è in questa indotta ricostruzione mentale - non attraverso le immagini esplicite - che La zona di interesse riesce limpidamente a porsi come un film sulla memoria, una memoria davvero sollecitata, una memoria che si esercita fuori dalle retoriche e dagli automatismi commemorativi che inevitabilmente tolgono forza a questo tipo di esercizi morali. (…) Allo spettatore, dunque, l’elaborare l’incipit al nero, il fumo delle ciminiere, il titanico lavoro sul sonoro, la corolla di un fiore il cui rosso dilaga sullo schermo fino a esaurirlo.
E inevitabili baleneranno in testa i paralleli con il contemporaneo - la propria sicurezza domestica al confine con la tragedia - ché a dettare il comportamento di questa famiglia, prima dell’ideologia nazista di cui il marito/padre è strumento diretto, è una certa logica piccolo-borghese che mette il proprio benessere al primo posto rispetto a tutto, fosse anche il massacro di un popolo. (…) Ecco allora che La zona di interesse - per la densità di questa esperienza in equilibrio tra il detto e il non detto, il visto e il non visto - riesce ad essere da un lato un film sulla Shoah semidefinitivo, dall’altro - proprio per la dedizione assoluta con la quale il regista si pone al servizio della sua idea di messa in scena - un ossimorico scontro tra il dato storico e la modalità ipercontemporanea di ritrarlo: oscillando tra la logica del circuito chiuso delle telecamere di sorveglianza e quella voyeuristica a cui la televisione ci ha ormai abituato da decenni, l’opera si risolve in un’avanzatissima, quasi estrema sperimentazione sul cinema di consumo («Anche se l’abbiamo girato nel vero campo di concentramento, non è un film vintage, in costume, da mettere al museo. L’ho costruito con la lente del nostro mondo»), ottenuta attraverso un lavoro certosino (due anni solo per la postproduzione) volto ad ottenere un realismo a suo modo inedito («Sentivo di dover filmare tutto questo come se stessi riprendendo le persone reali»).”
Luca Pacioli, da spietati.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Nonostante alcune oscurità espressive ( le scene notturne mischiate alla fiaba di Hensel e Gretel ) un film dal messaggio limpido e lineare, con una beffarda luminosità cromatica che fa da reagente alle tante immagini memorizzate al cinema della Shoa. Originale anche l'uso del sonoro come stimolo al pubblico perche' almeno intuisca quello che i protagonisti non vogliono minimamente né vedere.ne' sentire. |
Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Sono la musica angosciante di Mica Levi e il sound design di Johnnie Burn a destabilizzare gli spettatori del Bazin e a portarli nel senso profondo di La zona d’interesse di Glazer. Un lancinante tappeto sonoro di rumori, urla, suoni che raccontano l’insopportabile strazio del campo di concentramento. Una tragedia che non si vede mai, ma si sente senza soluzione di continuità. E il film di Glazer, appare ai presenti, innanzitutto un film da ascoltare, una composizione tragica con una ouverture iniziale in nero e una conclusione lancinante fatta di grida e clangori. |
Guglielmina Morelli (mercoled sera) |
Impossibile sintetizzare nelle nostre tre righe questo ultimo film visto tali e tanti sono le suggestioni e gli stimoli che dà allo spettatore (cui si chiede autentica compartecipazione). Mi limiterò a sottolineare l’aspetto che più mi è parso moderno: se nel mondo dell’immagine esiste solo il vedere (anche se la visione può essere “falsa” o mistificante) qui conta ascoltare e capire e sapere. Un vero rovesciamento del senso comune e un invito a “guardare” oltre i muri che, isolando e chiudendoci nel nostro illusorio “paradiso”, ci rendono davvero ciechi e sordi. |
Giorgio Brambilla (venerdìì sera) |
Mi pare che il senso de “La zona d’interesse” sia esplicitato dai suoi inizio e fine: musica dissonante e rumori di morte su un fondo nero. C’è tutto: l’irrappresentabilità dell’orrore, lasciato costantemente fuori campo e solo evocato; la dissonanza tra la quieta vita della famiglia Höss in un paradiso e l’inferno oltre il muro; la vita da manager del capo della più grande macchina di morte nazista, che tratta con seri industriali in giacca e cravatta venuti a proporgli con orgoglio un modello di crematorio molto più efficiente dell’attuale; la gioia di Rudy alla notizia della progettata eliminazione di ottocentomila di ebrei ungheresi, che gli permetterà di tornare dalla sua amata famiglia; la giovane che, ripresa con camera sensibile al calore e quindi visibile come “in negativo”, sparge di nascosto cibo che i prigionieri possano trovare quando vanno al lavoro, come una sorta di terrorista al contrario; il fatto che lo stesso Höss preghi i suoi superiori di non spostare la moglie e i figli, perché lì hanno costruito l’ambiente perfetto per farli crescere, o che non capisca di essere lui stesso la strega cattiva della favola di Hansel e Gretel, che meriterebbe di finire nel forno. Si potrebbe andare avanti per molto, perché molti sono i momenti esemplari di questo testo che sa unire etica ed estetica con tale sapienza da contribuire in modo significativo a un profondo rinnovamento dell’ampia cinematografia sulla Shoa |
Marco Massara (Jolly) |
Un film di rara intelligenza. E’ immediato il riferimento alla banalità del male, tra la pace quasi idilliaca del giardino di casa Hoss e quello che ci viene fatto immaginare con la ‘tavolozza’ di suoni inquietanti ed espliciti. Ma non solo: un monito assolutamente contemporaneo con la altrettanto esplicita indicazione del rischio di creare una ‘confort zone’ in cui rinchiuderci e che ci separi dall’orrore della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ che invece dobbiamo evitare di isolare con un ‘muro’ virtuale simile a quello fisico di casa Hoss. |
Maria Cristina Cinquemani |
Il film ha indubbiamente una potenza che colpisce allo stomaco, a partire dalla incredibile immagine della villetta ridente e piena di fiori delimitata dal muro del campo di concentramento, con la torretta di guardia che svetta nel cielo.
Questa perfetta famiglia tedesca potrebbe essere quella di un normale dirigente d'azienda, sereno e felice di tornare a casa dopo una giornata di duro lavoro, soddisfatto degli obiettivi raggiunti.
Una delle scene più agghiaccianti è quella delle signore che, come ad un qualsiasi incontro fra amiche, raccontano dei trofei provenienti dai deportati ebrei di cui sono venute in possesso.
Ho però anche trovato dei lati negativi: una narrazione criptica dove, senza un'accurata spiegazione, non si capivano alcune scene (cosa c'era nel fiume?, cosa faceva la ragazzina di notte?) per non parlare dell'esagerato simbolismo delle schermate nere o rosse.
Decisamente un film da vedere con un manuale d'istruzioni.
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I dannati
da domenica 3 a venerdì 8 novembre 2024
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I dannati
regia di Roberto Minervini
“Inverno, 1862. Da qualche parte nelle terre dell’Ovest, un manipolo di soldati nordisti deve perlustrare il territorio e resistere due settimane prima dell’arrivo della ‘cavalleria’. In attesa di un nemico invisibile organizzano il campo e le guardie. Giovani volontari, che hanno sparato soltanto ai conigli, o soldati di lungo corso, che lucidano Colt e fucili, giocano a carte e si scambiano pensieri sulla guerra civile che dilania l’America. Come solo orizzonte un crinale dietro il quale riparare ed oltre il quale avanzare e interrogare il senso del loro arruolamento. Sono soli sulla terra, trafitti soltanto da un colpo di carabina, ed è subito neve. I nordisti, i cavalli, le giubbe blu, le montagne innevate, i carri, l’accampamento… sono tutti archetipi del western eppure nel film di Roberto Minervini sembra di scoprirli per la prima volta. È una questione di sguardo, di tempo, di suoni, soprattutto di silenzio, è una questione di attesa (soltanto Buzzati ha fatto meglio), è una questione di soldati perduti, malgrado la fede, il padre e la Patria. Discretamente e ostinatamente, l’autore italiano traslocato in America prosegue la sua strada di cinema, un sentiero accidentato ai margini di Hollywood e contro le regole dello spettacolo dominante. Si fa domande Minervini e le risposte sono sempre magnifiche. Questa volta è un film di guerra come una preghiera, fondato sull’esperienza della durata, l’attenzione minuziosa alle persone e ai luoghi, la forza tellurica dei quadri, gli spazi vergini, l’assordante laconismo degli attori. (…) I paesaggi sommergono lo schermo e hanno il tempo di depositarsi, come i personaggi, che marciano o resistono trafiggendo con la loro presenza e le loro questioni montagne e pianure. E in quello spazio infinito c’è sempre un posto dove raggomitolarsi, come il soldato che si è arruolato senza ragione e adesso ‘sente’ la vita come la neve. comincia come il romanzo di Stephen Crane (Il segno rosso del coraggio), fonte di tutta la letteratura sulla guerra civile americana (1861-1865), avanza a cavallo lungo sentieri di fango liquido, costeggia un fiume nero e poi smonta i soldati per montare alloggi e rifugi da occupare con settimane di ozio e di monotona attesa. Un raggio di sole dorato buca le nuvole e accarezza le barbe incolte dei ‘guerrieri’, sfuggendo liricamente alla circolarità dei loro ragionamenti. Minervini I Dannati compone dei tableaux vivants di una guerra che è tutte le guerre insieme, dove i soldati combattono per diventare uomini, forse eroi, sicuramente cadaveri. Il film prende piena misura del destino dell’individuo in mezzo a forze collettive. La battaglia è imminente, l’inferno non è mai lontano. Irrompe improvviso nelle immagini e nei suoni, avvicinando la narrazione al fantastico, come per ritagliare le scene di guerra da una possibile realtà. Quello che i soldati vedono non è di questo mondo, ma appartiene al regno dei morti. Nuovo film di Roberto Minervini, I Dannati, appena presentato a Un Certain Regard a Cannes 77 (e in cui ha vinto il premio come Miglior Regia), si presenta come qualcosa che si avvicina all’estremo, come il cinema di Herzog, Bela Tar, Sokurov, Olmi, Malick o come il Buzzati de Il Deserto dei Tartari. Ma lo fa senza assomigliare a nulla di tutto questo. Si avvicina all’estremo e all’infinito, togliendoci qualsiasi riferimento, quasi togliendo la terra sotto i piedi allo spettatore. Minervini ci dona un film di guerra in cui l’”altro”, il nemico, è praticamente assente (e viene in mente chi dell’altro, il nemico, fece un film, come il Clint Eastwood di Lettere Da Iwo Jima). Ci offre un film di guerra in cui il conflitto bellico non è quasi mai svelato, ma in cui il dilemma umano (interiore e dialettico) è sviluppato dalle riflessioni personali dei personaggi, indagati, inseguiti e svelati nella loro intima essenza.”
Marzia Gandolfi, da mymovies.it
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Con una feroce premessa alimentare, un finale che ricorda la manna dal cielo e la citazione biblica da Ezechiele al centro ( "Apri la bocca e mangia quello che ti do ") il film di Minervini è una attonita riflessione di gruppo sul plumbeo mistero della violenza, grazie alla quale si pensa di tutelare la propria vita nutrendosi della vita altrui. Si campa ogni giorno negli USA con le armi in mano ( grazie al 2.o Emendamento... ), trattate come fossero attrezzi da cucina da tener puliti ed in ordine per poter meglio scampare da nemici famelici , per altro indecifrabili. La crudele "catena alimentare" che da sempre si costruisce sul sacrificio del più debole, sembra essere una feroce regola ineluttabile, cui nessuno si può sottrarre almeno in questo Mondo. Forse ...nell' Altro ? Coraggioso, originale, linguisticamente nuovo, dalla scelta dei volontari, barbuti profeti o candidi agnellini, alla musica non – musica ,alle riprese sfocate e barcollanti, come si sprofondasse nel pantano delle domande o nell'impossibilità di mettere a fuoco risposte lucide e chiare come la neve, il film cammina sul crinale delle grandi domande esistenziali, ma con il respiro quotidiano di chi si stupisce - nonostante tutto - di vivere e voler vivere. |
Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
È solo un caso la programmazione di un film di Roberto Minervini alla vigilia delle elezioni americane? Comunque sia I Dannati è un’opera che, attraverso scelte registiche molto interessanti e apparentemente controintuitive, ricrea le condizioni della Guerra di Secessione americana più di 150 anni dopo. E poi ne cattura il risultato in presa diretta. In un certo senso, I Dannati è un film di fiction nell’allestimento e un film documentario nel risultato. Un approccio intrigante che però cozza con la sensibilità estetica dei visionari del Bazin disperatamente bisognosi di climax. Ne risulta un’incolmabile distanza degli spettatori rispetto all’approccio del regista marchigiano. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Un altro gran bel film in questo fulminante inizio di programmazione. Certo diverso dagli altri, più enigmatico e metafisico ma di grande interesse e suggestione. Chi sono i protagonisti? Contro chi combattono e chi sono i nemici? Verso dove devono dirigersi? E perché? Un’infinita sequela di domande cui si fatica a dare risposta, sebbene la scrittura filmica sia chiara e ben leggibile ci sfugge il “senso”, il perché, lo spazio, il tempo, le relazioni tra i personaggi, lo sviluppo della storia, le motivazioni dell’agire, l’esistere, infine. Proviamo una ipotesi (ma che bello l’intervento dell’amico che ha assimilato i lupi con cui si apre il film alle “tre fiere” dantesche!): i personaggi sono “dannati” perché la vita è “per la morte” e lo sanno. La fatica, la paura, il freddo (chi ha scelto la location è un genio), un nemico implacabile, sono solo i passaggi per giungere infine, ad una sensazione di pace che altro non è che “la prima notte di quiete”. Film splendido. |
Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Roberto Minervini costruisce un film inserito in un luogo e tempo precisi, ma che in effetti è fuori da ogni tempo e dallo spazio. Sfoca i contorni e riprende un personaggio alla volta perché quello che l’interessa è l’uomo in quanto tale. Questi è capace di vivere pacificamente con i suoi compagni, come si vede nel soldato che si occupa amorevolmente di un giovanissimo quasi sconosciuto compagno che si sta surgelando. Ha però dentro di sé anche l’inclinazione a sopraffare il suo prossimo, a sbranare l’altro, come i lupi della sequenza che precede i titoli di testa. Ecco perché il nemico è sempre fuori fuoco o fuori campo: rappresenta quello che ognuno di noi ha, anche dentro di sé. Per questo siamo tutti dannati. Questo rende la vita tragica, in generale. Eppure anche in questa condizione sembra che si possa gioire, come i due soldati che, alla fine, appiedati e soli nel freddo paesaggio apparentemente senza vita, si godono la neve. Viene in mente il Sisifo felice che chiude il libro di Camus. Qui l’interlocuzione è sia con le scritture, in particolare il Primo Testamento, sia con lo sguardo disincantato di chi crede solo a ciò che vede. Il regista non si sogna di dare risposte; pone però bene le domande, il che è il massimo che (si) può fare Roberto Minervini costruisce un film inserito in un luogo e tempo precisi, ma che in effetti è fuori da ogni tempo e dallo spazio. Sfoca i contorni e riprende un personaggio alla volta perché quello che l’interessa è l’uomo in quanto tale. Questi è capace di vivere pacificamente con i suoi compagni, come si vede nel soldato che si occupa amorevolmente di un giovanissimo quasi sconosciuto compagno che si sta surgelando. Ha però dentro di sé anche l’inclinazione a sopraffare il suo prossimo, a sbranare l’altro, come i lupi della sequenza che precede i titoli di testa. Ecco perché il nemico è sempre fuori fuoco o fuori campo: rappresenta quello che ognuno di noi ha, anche dentro di sé. Per questo siamo tutti dannati. Questo rende la vita tragica, in generale. Eppure anche in questa condizione sembra che si possa gioire, come i due soldati che, alla fine, appiedati e soli nel freddo paesaggio apparentemente senza vita, si godono la neve. Viene in mente il Sisifo felice che chiude il libro di Camus. Qui l’interlocuzione è sia con le scritture, in particolare il Primo Testamento, sia con lo sguardo disincantato di chi crede solo a ciò che vede. Il regista non si sogna di dare risposte; pone però bene le domande, il che è il massimo che (si) può fare |
Marco Massara (Jolly) |
Un film che fa ‘lavorare’ lo spettatore dalle mie parti è sempre benvenuto! “I dannati” ci pongono delle domande (perché sono qui ? qual è lo scopo ? Chi/dove è il ‘nemico’), ci danno delle informazioni apparentemente sconnesse che appunto interpellano lo spettatore e lo fanno ragionare su come articolarle per definire qualche risposta. (assolutamente non a tutte le domande) Encomio solenne al “location manager” che ha trovato un luogo così desolato, impervio, faticoso perfettamente adatto a rappresentare un ‘inferno’ (non male l’idea delle ‘tre fiere’) popolato dal disagio esistenziale degli ottimi attori non protagonisti. |
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