Il grande carro
da domenica 30 marzo a venerdì 4 aprile 2025
IL GRANDE CARRO
regia di Philippe Garrel
“È chiaro sin dalle prime scene che Il Grande carro è un film intriso di autobiografismo. Garrel mette in scena una famiglia di artisti fuori tempo, che porta ostinatamente in giro un’arte antica, dimenticata e fuori moda come quella dei burattini. Ma allo stesso tempo parla della propria di famiglia e insieme quindi della propria vita e della propria arte. E lo fa raccontando un padre (senza nome) che muore (in scena) appena dopo un quarto di film e i suoi tre figli – i veri tre figli del regista – che invece usano quasi tutti i loro nomi reali: Louis e Lena, solo Esther diventa Martha. E allora non è difficile capire come Il Grande carro sia soprattutto una enorme metafora dentro la quale Garrel racchiude i sentimenti e le emozioni che abitano quest’ultima parte della sua parabola artistica e della sua vita. Sarebbe banale, nel caso di un autore così eccentrico e multiforme, definire il film come un lascito o un testamento spirituale, ma è senz’altro vero che un incedere narrativo tanto disomogeneo e a tratti impressionistico come quello che il regista utilizza, porti a considerare l’opera come un lavoro privato, personale e fortemente soggetto all’emotività. (…) Garrel pur restando attaccato alle questioni di sempre – le insidie dei sentimenti e della vita di coppia, l’impegno politico e l’irrinunciabilità dell’adesione alle idee comuniste, l’insofferenza verso le convenzioni borghesi – introduce temi che si fissano su questioni più intime e personali. Quasi intendesse davvero se non chiudere definitivamente con la propria poetica, almeno mettere in campo riflessioni dal respiro universale. (…) Perché se c’è una cosa che il cinema di Garrel ha sempre insegnato e non smette di ripetere è che la libertà è la passione più ardente di tutte. E vale la pena vivere per essa!”
Lorenzo Rossi da cineforum.it
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Il ragazzo e l'airone
da domenica 16 a venerdì 21 marzo2025
IL RAGAZZO E L'AIRONE
regia di Hayao Miyazaki
“Ognuno di noi ha ‘un Miyazaki’ del cuore, un’immagine nella testa, una scena, una replica o addirittura un universo dove convivono un gattobus e un pesce rosso umano, il tragico e il meraviglioso, l’ombra e la luce, in un equilibrio difficile ma necessario tra presente e passato, natura e civiltà. Perché l’utopia in Miyazaki fa sempre i conti con la realtà e con tutte le cose destinate a scomparire. Se è vero che il suo cinema è fatto di vento e tempeste, di bambini dal cuore potente e creature magiche (e ibride), la cui gioiosa petulanza ci fa abbandonare ogni razionalità, è altrettanto vero che l’isola di Miyazaki, dimensione infinita dell’infanzia, è la risacca di tutte le paure e le fascinazioni di quell’età. Nei suoi disegni ingannevolmente innocenti trasmette un condensato di tutte le impressioni di colori e forme che hanno segnato una stagione in cui l’immaginazione prevaleva ancora sulla vita. Ma sotto la furia di un’onda che ci fissa negli occhi, sotto la sua schiuma instabile, scopriamo sempre un nero insondabile e seducente che spazza via certezze e convenzioni, ‘alza il vento’ e solleva riflessioni filosofiche. Muovendosi dall’onirico al politico, i suoi film sono pietre vive che costruiscono un edificio di porte che si aprono e si chiudono su universi paralleli, di idrovolanti carichi di sogni e di bombe, di nuvole nere che si fermano e di nuvole bianche che corrono col buon vento, quello fa mulinare gli ombrellini delle fanciulle e volare i cappellini dei fanciulli. La chiave del mistero risiede tutta nel viaggio fantastico che le storie di Miyazaki dispiegano, offrendo a eroi ed eroine uno sguardo nuovo sul mondo. La matrice è sempre la stessa: l’emergere di un’alterità e il susseguirsi di eventi, qualche volta tragici, invitano i protagonisti a ri-calibrare la visione del proprio focolare (per l’autore è spesso un cerchio familiare rotto o incompleto). Nella crepa che spezza in due i suoi protagonisti e spacca in due i suoi film, Miyazaki precipita un altro bambino, che evolverà dentro immagini grandiose. Sulle note di Joe Hisaishi, compositore fedele dello Studio Ghibli, provoca di nuovo la collisione dei mondi che crea, due dimensioni che si scontrano o si disfano. Il ragazzo e l’airone non fa eccezione, segnando il ritorno all’orizzonte carrolliano de Il mio vicino Totoro o de La città incantata. (…) La mobilità dell’airone incarna la dinamica alla base dei migliori film del regista. Esemplare la sua prima (e sublime) apparizione, l’uccello emerge dalla profondità di campo e attraversa il quadro, rompendo con un frullo d’ali la fissità dell’inquadratura. Questo movimento rappresenta il principio di slittamento alla base del cinema fantastico di Miyazaki: la quiete del paesaggio rurale, che accoglie Mahito e rivela la quasi pietrificazione della sua nuova dimora, si riconfigura con l’arrivo di un animale mostruoso. Vero e proprio elemento di disturbo, attraversa il campo in diagonale, l’airone rompe la partizione binaria tra gli sfondi immobili delle immagini e i personaggi in movimento in primo piano. (…) Miyazaki enfatizza con la stessa cura il caos dell’incendio e i piccoli scricchiolii del legno sotto i passi attutiti di un bambino, il tumulto dell’incubo e il fruscio della realtà. L’emergere di un sogno o il chiudersi di una porta alimentano allo stesso modo la trama di una realtà a due teste che comunicano ed entrano progressivamente in contatto. Nel corso di una vertiginosa odissea in cui il protagonista attraversa una serie di soglie, livelli e portali, nella speranza di vedere la madre morta e di ritrovare la matrigna viva, Miyazaki mette in campo un immaginario ricco ed eterogeneo in cui rivisita i suoi film precedenti e rende omaggio alle sue influenze, mescolando stili e tecniche di animazione diversi e incrociando la strada di un bestiario straordinario che funge da guida per l’aldilà. Come Orfeo, Mahito attraversa il mondo dei morti e guida una narrazione ‘aperta ai quattro venti’ ma appoggiata sul desiderio dell’autore di perfezionare l’arte sottile dell’equilibrio fantastico e di consegnare ai posteri l’ambiziosa sintesi di un’opera monumentale. (…) Poeta grafico e architetto di mondi immaginari, Hayao Miyazaki esplora i temi che hanno nutrito la sua infanzia e incoraggia le generazioni future a impadronirsi del mondo, a organizzarlo a loro immagine e somiglianza. A patto che riescano a uscire dal labirinto iniziatico che il vecchio maestro ha costruito per loro…”
Marzia Gandolfi, da MYmovies.it
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Il gusto delle cose
da domenica 9 a venerdì 14 marzo2025
IL GUSTO DELLE COSE
regia di Anh Ung Tran
“Pentole, tegami, mani rapide che eseguono gesti precisi: la cura per il dettaglio è alla base di Il gusto delle cose (La passion de Dodin Bouffant). Il vietnamita Trần Anh Hùng, naturalizzato francese, Leone d’oro a Venezia con Cyclo ormai quasi trent’anni fa, costruisce una relazione sentimentale nella Francia di fine Ottocento con gli strumenti della cucina. Dodin (Benoît Magimel, in un ruolo degno della sua stazza) si muove tra i fornelli come un imperatore. Eugénie (Juliette Binoche) segue con abnegazione il suo ruolo da cuoca, forse amante, al servizio di sua maestà. Hùng compone il suo quadro quasi eliminando la trama, mostrando una relazione come una ricetta: gesti precisi, attenzione maniacale agli ingredienti, amore universale per quel che si crea. Dodin e Eugénie sono una coppia immaginaria, il loro rapporto è scandito da una liturgia destinata a solleticare il palato di altri. Le parole sono poche, sembrano istruzioni. La trama volutamente latita. Ma c’è qualcosa di ipnotico nella preparazione di piatti sempre più complessi, di pietanze sempre più elaborate. La macchina da presa di Hùng si muove sinuosa, sicura, pronta a cogliere ogni momento, ogni increspatura. Magimel e Binoche sottolineano con economia sentimentale un rapporto costruito nel suo farsi, saldato dalla realizzazione di ogni pietanza, solcato da una solidarietà afasica ma intensa. Il gusto delle cose si srotola come un menu, alterna i momenti di cucina a quelli di degustazione, assiste alle sentenze del cuoco geniale e le contrappone al piacere dei commensali. Al centro di questa famiglia, a suo modo disfunzionale, irrompe la piccola Pauline, nipote della padrona di casa, che mostra – per la sua età – un vivo interesse e un notevole palato. Il simulacro della famiglia si fonde con quello del talento, l’iniziazione culinaria si mescola con un affetto appena accennato. Il film usa il cibo come metafora smaccata di una forma di altruismo, di accudimento, di realizzazione personale; ma il suo incedere reiterato, il suo sguardo estatico sanno catturare un senso del cibo quasi mistico, mai legato a un piacere solamente terreno. È la perfezione che si cerca, la sintonia, l’equilibrio assoluto di un benessere sensoriale. Hùng accarezza i suoi attori immergendoli in una luce pittorica, restituisce odori e sapori attraverso un cinema tanto elegante quanto tattile, concreto. Il gusto delle cose è una variazione sul tema dell’amore romantico, colmo di tenerezza umana verso i suoi personaggi, incapaci di mostrare la loro affettività fino in fondo ma, sempre, dediti alla loro vocazione intesa come dono, come ricerca della perfezione, come misura del mondo. Parla di relazioni umane filtrate – montate come una salsa, passate e ripassate, soffritte – da uno sguardo perennemente umbratile, intriso di malinconia. Hùng firma un film labile, a tratti ondivago, ostentatamente ripetitivo, ma che sa mostrare, in maniera obliqua, una diversa e ostinata ricerca della felicità.”
Federico Pedroni, da cineforum.it
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The holdovers
da domenica 16 a venerdì 21 marzo2025
THE HOLDOVERS
regia di Alexander Payne
“Ostinati e diversamente inadeguati al mondo, Paul e Angus sono costretti a socializzare sotto lo sguardo paziente di Mary Lamb, cuoca della scuola che ha perso il suo unico figlio in Vietnam. Ma l'isolamento e il Natale accorceranno le distanze e li costringeranno a 'rompere le righe' e a 'mettersi in riga'. (…) Girato come un film degli anni Settanta, con quella grana speciale che non sembra mai finta o presa in prestito, è un racconto convenzionale ma inatteso quando parla di dolore e di privilegio, di abbandono e di fallimento, di trasmissione e della famiglia che ci scegliamo contro quella che ci impone la sorte. Paul Giamatti, attore di tutti i 'secondi piani,' coltiva l'arte dell'anonimato e rivendica ancora una volta un ruolo che gioca alla perfezione: valorizzare il partner. (…) Ode a 'chi rimane indietro', The Holdovers omaggia il cinema di Hal Asby, a cominciare dalla sua predilezione per gli antieroi e gli emarginati di ogni tipo, e presenta le caratteristiche formali di una produzione dell'epoca (il font dei titoli di testa, le dissolvenze incrociate, le zumate...). Ma non si tratta mai di un esercizio di stile, The Holdovers è più sottile e soprattutto più onesto. Sotto la superficie rétro, abbraccia temi atemporali (il conflitto generazionale, l'orrore della guerra, l'isolamento, il lutto, la depressione) e ci invita al viaggio. E noi partiamo, ridiamo, piangiamo, finiamo al tappeto e siamo felici.”
Marzia Gandolfi, da mymovies.it
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The miracle club
da domenica 23 a giovedì 27 febbraio 2025
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THE MIRACLE CLUB
regia di Thaddeus O'Sullivan
“The Miracle Club ha un titolo fuorviante, perché fa presupporre una commedia scanzonata, di quelle in cui un gruppo di attrici âgée gigioneggiano per suscitare l’ilarità del pubblico. Qui il gruppo centrale di attrici è effettivamente âgée, ma la storia non è comica, anche se non mancano i siparietti divertenti. La trama ha parecchie fragilità e l’ambientazione irlandese fa leva su molti stereotipi cinematografici, che il regista dublinese Thaddeus O’Sullivan cavalca senza esitazione, ma il gruppetto di interpreti formato da Kathy Bates, Laura Linney, Maggie Smith e un quasi irriconoscibile Stephen Rea riesce a tenere alta l’attenzione del pubblico. A rubare la scena, come sempre, è la quasi nonagenaria Smith nel ruolo di Lily, una madre gravata dal lutto e dal senso di colpa che però non ha perso l’ironia e la capacità di dimostrarsi affettuosa e fedele.
Kathy Bates ritorna in gran forma (anche fisica) per calarsi nel ruolo complesso di Eileen, madre di famiglia che non ha mai lasciato il suo quartiere, con un marito brontolone (l’irresistibile Stephen Rea) ad incarnare un certo maschilismo d’antan. Laura Linney dà alla sua Chrissie reticenza e misura, raccontando una donna che ha imparato l’empatia pur non avendone ricevuta alcuna nel proprio passato, custode di un lontano rancore di cui vorrebbe liberarsi.
La ricostruzione d’ambiente è attenta anche se un po’ stucchevole, e l’intera confezione è piacevole, nonostante (o grazie a) l’adesione a molti cliché: una rassicurante tazza di tè irlandese servita da un cast di professioniste esperte nel far commuovere e sorridere.”
Paolo Casella, da MYmovies.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
grande successo in Patria per questa sfacciata autodenuncia del maschilismo nazionale tontolone e grezzo.
Le donne in gruppo (da sempre,ma in particolare nella verde Irlanda ) sono antenne spirituali ben più sensibili e ricettive, qui - come spesso nella recente produzione gaelica - alle prese con vari tormenti e severe punizioni sociali.
( cfr.la ripetuta canzoncina etnica sulla "mamma crudele"... ).
Cmq è sempre una Donna che le libera,aprendole al per-dono tra loro e verso maschi miracolosamente convertiti alla parità sociale.
Strappi umoristici rompono una trama che poteva essere melodramatica e permettono al film di fare anche discorsi alti senza mai scadere nella banalità.
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Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Scritto vent’anni fa dallo sceneggiatore Jimmy Smallhorne, The Miracle Club dopo una serie di vicissitudini è stato girato nel 2023. Il paradosso è che alcuni attori hanno mantenuto i loro ruoli originari al di là di ogni ragionevolezza d’età. Kathy Bates ha girato il film a 74 anni e nella vicenda ha uno stuolo di figli che vanno dai quattro ai trent’anni. È realistico? Suo marito è interpretato dal bravo Sthephen Rea che di anni ne ha 77. Sono dettagli che non sfuggono all’attento pubblico del Bazin. E tutto questo alla fine pesa nel valutare la commedia che, comunque, ha un grande pregio: la performance della grande Maggie Smith. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
La critica ha un po’ maltrattato questo film perché scontato nello sviluppo e convenzionale nell’ambientazione; tuttavia qualche pregio, invece, ce l’ha. Certo, dopo cinque minuti abbiamo già capito più o meno la trama, l’ambiente è un’ Irlanda convenzionale (bigotta, pettegola, povera ma poi incline alla socialità, nel pub o nelle vie affollate di marmocchi) e però il quartetto di attrici (più Stephen Rea) sovrasta difetti e fragilità di sceneggiatura. E infine: ci sarà pure una ragione per cui Lourdes è uno dei luoghi più praticati dal cinema. Lì accadranno i laicissimi miracoli di cui parla il sacerdote e di cui racconta il film? |
Giorgio Brambilla (giovedì sera) |
The Miracle Club è un racconto solido che ci porta all’interno di un dramma ambientato nella troppo cattolica Dublino del 1967, a incontrare un gruppo di donne di varie generazioni dilaniate da senso di colpa o risentimento. Un viaggio a Lourdes, fatto per motivi almeno discutibili, porta le protagoniste (ottimamente interpretate) a fare un cammino di riconciliazione con sé e con gli altri. Il passaggio fondamentale è la scelta dolorosa di sottoporsi al giudizio altrui, ottenendo misericordia invece dell’attesa condanna. È la dimostrazione pratica che i miracoli possiamo farli noi, rompendo quei meccanismi che adottiamo e che rendono gli altri il nostro inferno. Si tratta di un dramma tutto al femminile, con venature comiche affidate più che altro alle imbelli comparse maschili. L’unico peccato del film, solo veniale, è una certa dose superficialità nel disegnare la sua protagonista, Chrissie, della quale resta inespresso non solo perché abbia alcune cognizioni mediche, ma soprattutto il motivo della sua inesorabile determinazione a riconciliarsi con chi ha causato la morte del suo amato e le ha rovinato la vita |
Rolando Longobardi (Jolly) |
Un viaggio tutto irlandese e personale quello che il dublinese Thaddeus O'Sullivan vuole comunicare. Un film che ripercorre la vita, gli abbandoni, i lutti e quello che avrebbe potuto essere, alla luce di un viaggio che vuole essere reale e introspettivo verso Lourdes. Ci riesce solo in parte, lasciando troppo spazio a stereotipi irlandesi troppo facili da seguire, che ci rendono empatici con le protagoniste ma non consente pienamente a noi spettatori di intraprendere una via autonoma. Buona l'interpretazione attoriale ma è tutto qui
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