Diamanti
da domenica 27 aprile a venerdì 2 maggio 2025
DIAMANTI
regia di Ferzan Ozpetek
"Ci saranno in tutto quattro uomini", annuncia fieramente: e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. Più che al Pedro Almodovar cui all'inizio della carriera veniva paragonato, Ozpetek richiama qui il Francois Ozon di Otto donne e un mistero, dove gli uomini sparivano completamente (uno per mano di una delle protagoniste), e più che a Douglas Sirk strizza l'occhio al Leo McCarey di Un amore splendido. "Non c'è niente di quello che ti aspetti", annuncia Ozpetek alle sue attrici, e invece Diamanti è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Ozpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità. (...)
Tutto il cast corale è in forma smagliante, e svettano Mara Venier nei panni dimessi di Silvana, Milena Mancini in quelli di Nicoletta e Milena Vukotic nel ruolo della zia Olga. Ma è una gara di bravura e Lunetta Savino, Paola Minaccioni e Geppi Cucciari gestiscono le parentesi comiche alleggerendo una trama che talvolta vira al melò. Vanessa Scalera è come sempre potente nel ruolo di Bianca Vega, che comanda le donne ma si lascia intimidire davanti all'unico uomo (Stefano Accorsi, nei panni del regista del film per cui Vega crea i costumi). Ozpetek compare occasionalmente fra le sue attrici, a ricordarci metacinematograficamente che questa è una messinscena polifonica.”
Paola Casella da www.mymovies.it
“Del mondo fuori c’è l’eco: le contestazioni giovanili e il femminismo, per esempio, ma anche un bambino spaesato e una carrozzella, sono solo chiavistelli per irrompere nell’unico mondo che conta. Quello del cinema, cioè la sartoria dove si creano i costumi che edificano i personaggi (un plauso al lavoro di Stefano Ciammitti), nonché la finzione subito esplicitata dall’incipit programmatico: il regista, Ferzan Özpetek, e tutto il cast attorno a una tavolata, in attesa di mangiare (topos dell’autore, d’altronde) e leggere il canovaccio di Del mondo fuori c’è l’eco: le contestazioni giovanili e il femminismo, per esempio, ma anche un bambino spaesato e una carrozzella, sono solo chiavistelli per irrompere nell’unico mondo che conta. Quello del cinema, cioè la sartoria dove si creano i costumi che edificano i personaggi (un plauso
al lavoro di Stefano Ciammitti), nonché la finzione subito esplicitata dall’incipit programmatico: il regista, Ferzan Özpetek, e tutto il cast attorno a una tavolata, in attesa di mangiare (topos dell’autore, d’altronde) e leggere il canovaccio di Diamanti. (...) Siamo nel 1974, certo, ma la Sartoria Canova è un mondo a parte incastonato tra muri “parlanti” (con murales ovviamente femminili) e strade senza traffico (quasi precluse a quelle auto che portano morte), un altrove che trascende la cronaca e appartiene alla mitologia, abitato da personaggi barricati nel ricordo (gli amori perduti e le figlie perse che impediscono di vivere serenamente), nella nostalgia (Mara Venier ex soubrette reinventatasi cuoca), nelle bugie a cui vogliamo credere (Anna Ferzetti che rimpiange il forse agiato compagno turco), nella reticenza (la liaison segreta di Lunetta Savino, le violenze domestiche subite da Milena Mancini), nel divismo (Carla Signoris e Kasia Smutniak che si scontrano come in un Match di Arbasino), nell’ansia da prestazione (Vanessa Scalera costumista da Oscar). Diamanti si concentra su un mese forsennato, con la sartoria è impegnata su più fronti, in particolare nell’impresa di completare i costumi di un kolossal ambientato nel Settecento (le indicazioni della costumista sono chiare: evitare la deriva documentaristica, seguire l’istinto, ricorrere alla fantasia. Come le eroine del film, Özpetek difende il fortino del suo immaginario: in continuità con il sottostimato Nuovo Olimpo, si dichiara cittadino del cinema, incastra la storia nella realtà e si serve degli incidenti della vita (l’intervento di Elena Sofia Ricci, che ha due apparizioni magnifiche, è un manifesto teorico), omaggia maestri (“Vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”) e simulacri (l’evocazione del costume da vescovo di Roma di Fellini, opera di Danilo Donati), rimpiange quel che fu (le grandi produzioni che investivano sui costumi) e quel che resta (...) E, in parallelo, si fa sacerdote di un mondo salvato dalle donne, siano esse al comando (le sorelle Luisa Ranieri, algida e severa con parrucca rossa, e Jasmine Trinca, sofferente e tormentata con tendenza alcolica, entrambe emancipatesi da un destino deludente) o pezzi di una comunità solidale (i maschi vanno disinnescati, smontati, desacralizzati e magari sessualizzati: Geppi Cucciari docet).”
Lorenzo Ciofani da www.cinematografo.it
“Ogni film di Ferzan Özpetek è un film su Ferzan Özpetek. E ogni suo nuovo lavoro rappresenta una summa del suo cinema. Tutto qui? Tutto qui (...). C'è chi vede Özpetek in sempiterna crisi artistica: perché non sa rinnovarsi, perché ripete fino allo sfinimento i medesimi concetti riproponendo all'infinito lo stesso pattern visivo ed emotivo. In realtà, per Özpetek, il cinema è un mezzo potentissimo, quasi una seduta psicoanalitica condivisa. Lui ci mette la sua passione per l'arte, per i sentimenti e per la vita (la sua, come un invito a raccontarsi in perenne divenire), spesso con minime variazioni di senso, e li dà in pasto al pubblico. Özpetek è sempre in purezza: «Diamanti è nato con l'idea di esporre la cosa che faccio sempre quando ho un progetto in testa, ovvero chiamare gli attori, raccontargli la storia, e poi andare avanti con la sceneggiatura. Tanti miei film partono dagli attori, nel senso che ho una traccia, ma poi scrivo dopo l'incontro con loro» (Rolling Stone, 16 dicembre 2024). Con didascalismo smaccato e consapevole il regista ci mostra i suoi diamanti fin da subito: 18 attrici, tra nomi ricorrenti della sua filmografia (Luisa Ranieri, Elena Sofia Ricci, Jasmine Trinca, Nicole Grimaudo) e new entry (Vanessa Scalera, Mara Venier, Sara Bosi, Geppi Cucciari). La dimensione metacinematografica sa di omaggio, ma anche di sberleffo: si discute sul film da girare tutti attorno ad un tavolo, location amata dall'autore e da sempre criticata dai detrattori, e proprio per questo luogo privilegiato in cui si sciolgono tensioni e intrecci. (...) Diamanti è, quindi, un film ambientato al contempo nel 2024 e nel 1974, con l'immersione in medias res – come un ricordo che all'improvviso riaffiora nei meandri della nostra memoria, trasfigurando e romanzando – all'interno della gloriosa Sartoria Canova, specializzata in costumi per il cinema e per il teatro (...). Di tutto ciò che può accadere fuori ci arriva solo una lontanissima eco, a dimostrazione di come tempo e luogo siano qui solo
uno spunto, del tutto trascurabile. Contano le battaglie dei singoli, che possono però affrontare e sconfiggere i propri demoni – la violenza domestica, l'ombra della depressione, le nostalgie e i rimpianti che trafiggono la nostra quotidianità – solo con il supporto di una comunità solidale e riconoscendo il valore fondante di una unione, di un sentire condiviso, che travalichi i confini canonici/imposti di “famiglia”. Per quanto alcuni passaggi possano risultare più deboli e programmatici (la volontà di incastrare tutto e di chiudere ogni sottotrama, il controfinale nuovamente meta- che rischia di indebolire il vero epilogo), a Diamanti vanno riconosciute delle qualità che forse diamo per scontate o che forse non siamo più abituati a riscontrare: la sincerità, la gentilezza, l'amorevolezza, l'umanità. Come un abbraccio, quando meno ce lo aspettiamo, che scalda mente e corpo, e per il quale essere profondamente grati.”
Filippo Zoratti da www.spietati.it
“ In Diamanti 18 differenti personaggi femminili, uniti solo dall’amore per la moda e per il cinema, animano quello che Geppi Cucciari, alla sua prima esperienza con il regista turco, definisce in una battuta del film un “vaginodromo”, per sottolineare la quasi totale assenza di uomini sul set. Per Stefano Accorsi, Vinicio Marchioni e Carmine Recano, unici nomi maschili presenti nel cast e tutti già noti al regista, non esistono infatti ruoli da protagonisti o co-protagonisti al maschile com’è stato spesso in passato. Loro e gli altri uomini che compaiono sullo schermo sono relegati da copione a margine del racconto, quasi come fossero delle comparse. A prendere tutta la scena nel quindicesimo lungometraggio di Ozpetek arrivato nelle sale il 19 dicembre, e diventato in poco tempo il film italiano con il maggiore incasso a cavallo delle vacanze natalizie di quest’anno (10.657.945 di euro di incassi e un milione e mezzo di presenze), sono unicamente le donne. Imperfette, combattenti, vanitose, empatiche, resilienti e soprattutto luminose. Ovvero resistenti, indistruttibili, ma anche piene di sfaccettature che riescono a riflettere colori differenti in base alle diverse angolazioni della luce che le pervade proprio come i diamanti. Donne di diverse età ed estrazione sociale che mettono in scena una celebrazione corale.
Diamanti si rivela un meta-racconto. Che sia un film femmineo non è una sorpresa: il regista non ne ha mai fatto mistero e anche i trailer e le immagini diffuse prima dell’uscita lo mostravano chiaramente. Chiunque, però, abbia immaginato un racconto preciso e affilato delle pieghe dell’animo umano in pieno stile Ozpetek, probabilmente, poi, seduto sulla sua poltrona al cinema è rimasto deluso in questa aspettativa. (...) Un omaggio alle donne nella loro totalità e nel loro essere div(in)e, dunque. Ma anche al gioco di squadra, alla sorellanza e alla complicità. Un inno cinematografico timidamente ma incisivamente femminista.”
Da www.gqitalia.it
Cosa sappiamo realmente di tutte quelle figure, che i riflettori dello spettacolo eludono continuamente, mostrandoci invece le star, le celebrità e la loro inevitabile coolness? Poco, forse niente. Eppure sono proprio quelle figure a rendere cool ciò che di fatto sarebbe convenzionale e incolore, se non addirittura modesto e anonimo. Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, con Diamanti Ferzan Özpetek sceglie di celebrare l’importanza assoluta del dietro le quinte, degli uomini, ma soprattutto delle donne che, pur restando ai margini dello sfarzo e della passerella, non smettono mai di dar vita alla magia, osservando tanto le logiche del professionismo quanto quelle dell’amicizia e dell’amore.
“Cosa permette a un diamante di brillare, se non la presenza di qualcuno capace di prendersene cura? Ecco il perché di quel passaggio: “Siamo come delle formiche noi,
sembra che non contiamo niente, ma tutte insieme, tutte insieme”. Non è mai il singolo, piuttosto la famiglia e più in generale l’unione, a decretare il pieno raggiungimento dell’obiettivo. Lo sa bene Nina (Paola Minaccioni), che osserva la depressione e nega l’esclusione. Ancor più di fronte alla violenza matrimoniale e alla vendetta, che con un guizzo d’ironia nerissima tipicamente ‘alla Coen’, riflette sul tema oggi attuale più che mai della violenza di genere. Traccia che Özpetek ribalta sagacemente, con una risata a metà e una consapevolezza tragica, che un po’ spaventa e un po’ conforta.
Ancor prima della violenza, però, c’è la sorellanza che, nonostante le gerarchie di potere e i ruoli da mantenere, lega tra loro un gruppo di sarte, reclutate dalle sorelle Alberta (Luisa Ranieri alle prese con il suo personaggio più duro e complesso) e Gabriella (Jasmine Trinca, in una prova matura sull’incomunicabilità del dolore). Pur possedendo capacità differenti, non vi è mai competizione tra loro, piuttosto conforto, comprensione, ascolto e solidarietà. Tanto da trasformare ben presto la sartoria da cinema in un vero e proprio rifugio per anime perdute. Le stesse che si ritrovano via via nell’arte e nella magia dei costumi, come la giovane eppure esperta Beatrice di Aurora Giovinazzo.”
Eugenio Grenna da www.sentieriselvaggi.it
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Giurato n.2
da domenica 6 a venerdì 11 aprile 2025
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GIURATO N.2
regia di Clint Eastwood
Clint Eastwood non ha più tempo da perdere, a 94 anni continua a girare con la regolarità di un metronomo e va dritto al punto, piombandoci in una (messa in) scena coniugale, un'immagine che il film metterà rapidamente in crisi. Giurato numero 2 gioca costantemente col motivo del visibile e dell'invisibile, dell'evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero 'accecato' dalla carriera... L'autore passa il tempo a evidenziare i punti ciechi, quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce. La fotografia è limpida, l'illuminazione uniforme, l'inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare l'eroe e che richiede una sola scelta giusta. Non è tanto la morale in sé a essere messa in discussione, quanto la nostra capacità di cogliere i fatti a cui applicarla.
Eastwood comincia informandoci meticolosamente su uno degli aspetti fondamentali del sistema giudiziario americano, la rigorosa selezione dei dodici membri della giuria popolare. Con la logica scrupolosa di Sidney Lumet (La parola ai giurati) si addentra nelle convinzioni e poi nei dubbi dei giurati che si confrontano, uno dopo l'altro, ma con l'idea perversa che il giurato migliore, quello che come Henry Fonda non vuole affrettare il destino dell'accusato, non sia altro che il colpevole. Nessuno spoiler, è tutto nel trailer e nel debutto del film. A colpi di flashback, (di)mostra che il giurato numero 2 è quasi certamente all'origine dell'atto criminale. Se il ripiegamento della colpevolezza all'interno del cerchio dei giurati priva improvvisamente lo spettatore di qualsiasi suspense futura, la grande originalità dello script di Jonathan Abrams consiste nello sviluppare un'altra forma di tensione ascendente, stringendo gradualmente il cappio intorno al suo antieroe in preda a un dilemma insostenibile. Così mentre tutti i giurati sono convinti della colpevolezza dell'accusato, Justin, roso dalla colpa, guadagna tempo e prova a convincere chi vuole soltanto chiudere rapidamente.
Manca un minuto a mezzanotte nel giardino del bene e del male, la giustizia ha fatto il suo lavoro e alla fine anche la polizia, sotto l'egida di un poliziotto in pensione, allontanato dal processo perché ha trasgredito le regole dell'imparzialità nel suo ruolo di giurato. Il personaggio incarnato da J. K. Simmons ci ricorda che siamo in un film di Clint Eastwood e che da Dirty Harry in poi, il poliziotto rimane soggetto dell'eccezione, sempre 'oltre il limite' per le regole dell'istituzione. Ma esce presto di campo, è un mediatore evanescente. Resta 'il giurato numero 2', quello che conosce la fine della storia e arriva in fondo a questa storia, in cui l'appello all'imparzialità della giustizia dimostra tutta la sua astrazione. È una finzione minata dall'intreccio di ragioni e sentimenti che pervade i giurati: la giovane donna che vuole vendicare una vittima del sessismo o l'educatore che ha perso un fratello in una guerra tra gang e riconosce nel tatuaggio dell'imputato l'appartenenza a una delle bande. Tutti sono animati da un desiderio di idealismo ma tutti hanno una storia personale con cui devono farei conti.
Clint Eastwood compone con la giuria, con l'accusa e con la difesa, individuando la complessità psicologica di ciascuno dei suoi personaggi e dispiegando la gravitas del film nelle interazioni tra i personaggi. Nessun ruolo, nemmeno il più piccolo, cede alla caricatura, attraversando conflitti intimi e rivelando insieme la fragilità del sistema legale americano, quando pregiudizi e presupposti profondi prevalgono sulle prove concrete, a volte anche con la sincera convinzione di fare del bene. Ma come la sua procuratrice, bussola morale del film, Eastwood non smette di cercare la verità per guardarla in faccia in una sequenza finale sospesa che suona come l'ultima ingiunzione aperta di un autore che non ha più nulla da dimostrare. Affatto interessato a impressionare qualcuno, usa il racconto cinematografico per riflettere costantemente su quello che pensa, convocando una vertigine metafisica. Un'ode al ragionevole dubbio e alla complessità in contrasto con l'attuale polarizzazione delle nostre società e con l'antico riflesso di accontentarsi delle spiegazioni più comode e immediate.
Se la disfunzione delle istituzioni americane non può che portare alla menzogna, quella menzogna finisce per insinuare un'altra forma di istituzione: la famiglia americana. L'autore penetra nel cuore della struttura familiare rassicurante e ideale, virando verso la tragedia o il punto di non ritorno (Mystic River, Million Dollar Baby...). Il danno è stato fatto e il male si accomoda nel focolare domestico dove Justin conversa con la sua consorte al principio del film. Lei si allontana e lo lascia inavvertitamente al buio, spegnendo di riflesso la luce del soggiorno. Un gesto innocuo che dice molto. Il buon cittadino americano, ordinario ma virtuoso, pilastro del sistema democratico, precipita nella notte che lo abita suo malgrado, l'oscurità è entrata nella sua vita molto prima dell'inizio del film. Justin, rovescio di Richard Jewell - innocente che l'opinione pubblica considera colpevole -, è un ex alcolista e il bicchiere che non ha mai toccato la sera nel pub in cui l'imputato discuteva con la vittima non smette di tormentarlo e di amplificare l'abisso. Il bicchiere è il cerchio in cui è rimasto intrappolato, la sua cicatrice, la crepa attraverso la quale è caduto e affonda. Mai bevuto e 'rovesciato' è il prolungamento dell'acquazzone torrenziale di Gli Spietati, è l'acqua nera e pesante di Mystic River con cui Giurato numero 2 condivide una verità impronunciabile e una morale inferiore: punire i colpevoli ideali risparmiando il destino di una meritevole famiglia americana media.
Nicholas Hoult non è Henry Fonda, l'uomo puro e integro, ma un antieroe tormentato che cerca la via d'uscita migliore. Se vuole giustizia, non la vuole a qualsiasi prezzo. L'attore, sguardo laser, bellezza fredda e rigidità posturale, affronta un inferno morale e rende palpabile ogni esitazione, paura e dubbio. Di fronte a lui, riflesso della giovinezza svanita di Eastwood, la pugnace procuratrice di Toni Collette finisce per disertare il tribunale, andare oltre il verdetto e portare avanti la lotta. Un'inversione di strategia politica estremamente contemporanea (e femminista). L'ambiguità che caratterizza il protagonista di Giurato numero 2, giustiziere e colpevole insieme che assiste al suo processo e deve deliberare sul destino di un uomo e sul proprio, aggiunge una nuova pietra all'edificio che il regista ha costruito.
Ieri l'eroe eastwoodiano ci chiedeva di capirlo e persino di amarlo, oggi è un bastardo che ha tradito la legge morale per i propri interessi. Ieri ha dato volontariamente la sua vita e l'ha presa. La sua assunzione è stato il fondamento della sua venerazione, prima ostentata poi sempre più discreta. Ma Justin Kemp è un mondo a parte rispetto al protagonista di Eastwood. Un individuo che si trova ad affrontare situazioni straordinarie, come Richard Jewell o il capitano Sully, causate da lui. L'aporia morale lo conduce in un vicolo cieco dove diventa impossibile seguirlo. Perdonato da chi gli è più vicino, Justin è comunque l'unforgiven a cui la giustizia presenta il conto e nessuna redenzione. Forse è questo il testamento di Eastwood, essere sempre stato dove non te lo aspetti: dietro la porta che si apre sul mistero insondabile della coscienza umana, dentro un epilogo che si gioca sui soli volti di un attore e di un'attrice, nella conclusione (?) struggente di una filmografia che non ha mai smesso di guardarsi in faccia.
In un Paese in cui la verità (fattuale) viene denigrata o totalmente ignorata, Clint Eastwood prende una posizione indispensabile.
Marco Massara (domenica omeriggio) |
“la verità non è giustizia”. Questa battuta chiave dell’ultimo (?) film di Eastwood può essere anche chiave di lettura di buona parte della sua filmografia. Quella tesa ad appianare le contraddizioni della società, americana o non. Un percorso che si snoda attraverso titoli fondamentali (“Million Dollar Baby, Un mondo perfetto, Potere assolto,, Gran Torino…….) e momenti di ripiegamento creativo, con personaggi sempre tesi verso la ricerca e l’attuazione di una giustizia morale e, perché no ?, di un equilibrio sentimentale (I ponti di Madison County). Sempre nel rispetto degli elementi caratteristici dei vari generi cinematografici a cui si è affidato. “PROVACI ANCORA, CLINT !” |
Angelo Sabbadini (Lunedì sera) |
Il novantacinquenne Clint Eastwood con Giurato numero 2 mette in scena in modo magistrale le aporie tragiche dell’azione e i nodi indistricabili della colpa. La condizione tragica dell’individuo non è episodica ma ontologica e coincide con il punto in cui inizia anche la sua presenza al mondo. Il tutto ci viene raccontato sotto la forma di un Legal Thriller teso e senza un attimo di respiro come sottolineano gli spettatori del Bazin. Cast azzeccatissimo dove svetta Toni Collette, poliedrica attrice australiana all'ennesima interpretazione da urlo |
Giulio Martini (mercoled sera) |
utilizzando una delle ultime combinazioni immaginabili su dove mai "collocare" il colpevole in un giallo, l' abile sceneggiatura di Abrams - sempre al limite del verosimile e molto ben filmata dal lucido gran vecchio Eastwood - gli offre la possibilità di tornare sui temi che lo appassionano: onestà intrgrale e salvaguardia dell' onore,ricerca della cruda verità senza gronzoli ma anche della giustizia, ansia di una redenzione possibile per quanto difficile da un passato ambiguo, formali responsabilità pubbliche e acuta coscienza privata.
Quesiti e tormenti che stavolta riguadano entrambe le coppie che strutturano il racconto,in un continuo gioco di inversioni a specchio i tra i ruoli di indagati e di indagatori.
Pero,' la metafora di fondo è chiarissima fin dalla prima inquadratura.
La moglie ormai prossima al parto che nella scena iniziale del film entra in casa sbendata da una fascia nera sugli occhi è nella condizione identica in cui Clint mette alla fine noi e il marito con l'improvvisa " andata a nero" sullo schermo...
Cosi per immagini dice che prima o poi la verità bussa alla porta e si e' obbligati a valutarla/giudicarla.senza che piu' nessun diaframma ne ottenebri o ritardi la vista.
Viene alla luce con fatica e con dolore, ma è un "parto" vitale
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Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Il novantaquattrenne Eastwood costruisce un film processuale che ci dice dall'inizio chi è il colpevole, per seguirlo nel suo tentativo di fare la cosa giusta, ma senza dover pagare le ingiuste conseguenze di questa scelta. Un'immersione nell'intimo del/i personaggio/i principale/i, attraverso la quale ci mostra le storture del sistema giudiziario americano, ma anche le sue potenzialità, che si rivelano quando una procuratrice onesta, come quella interpretata dalla splendida Toni Collette, è disposta a rischiare tutto per far entrare in azione la verità. Astenersi perditempo, come si vede dal fulmneo e spiazzante finale. Inizio an sospettare che Clint sia immortale |
Guglielmina Morelli (Jolly) |
Gli ultimi due films di Clint che avevamo visto al Bazin li avevo trovati deboli nei temi e banali nella struttura e nelle scelte registiche. Vedendo questo Il giurato n. 2 mi sono spiegata quella debolezza (insolita) col doppio ruolo rivestito (errore e regista), forse troppo faticoso. Infatti solo regista Clint si mostra un fantastico costruttore di storie, capace di stimolare via via la nostra attenzione e il nostro giudizio (mai asservito e sempre problematico). Qui si intrecciano varie storie che, persino pirandellianamente, sono variamente viste dai vari protagonisti; ma si avverte il sapore del thriller e della detection. Tutti i personaggi hanno spessore e personalità e persino la Storia non è estranea. Il sottofinale propone a tutti noi un problema morale nella scelta tra verità, giustizia, pentimento, futuro, amore, pregiudizio e mille altre considerazioni. Posto che davvero il giurato 2 sia colpevole, il pubblico ministero sembra aver scelto l'affermazione della verità, costi quel che costi. Se davvero è così è una scelta coraggiosa e onesta. |
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Il ragazzo e l'airone
da domenica 16 a venerdì 21 marzo2025
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IL RAGAZZO E L'AIRONE
regia di Hayao Miyazaki
“Ognuno di noi ha ‘un Miyazaki’ del cuore, un’immagine nella testa, una scena, una replica o addirittura un universo dove convivono un gattobus e un pesce rosso umano, il tragico e il meraviglioso, l’ombra e la luce, in un equilibrio difficile ma necessario tra presente e passato, natura e civiltà. Perché l’utopia in Miyazaki fa sempre i conti con la realtà e con tutte le cose destinate a scomparire. Se è vero che il suo cinema è fatto di vento e tempeste, di bambini dal cuore potente e creature magiche (e ibride), la cui gioiosa petulanza ci fa abbandonare ogni razionalità, è altrettanto vero che l’isola di Miyazaki, dimensione infinita dell’infanzia, è la risacca di tutte le paure e le fascinazioni di quell’età. Nei suoi disegni ingannevolmente innocenti trasmette un condensato di tutte le impressioni di colori e forme che hanno segnato una stagione in cui l’immaginazione prevaleva ancora sulla vita. Ma sotto la furia di un’onda che ci fissa negli occhi, sotto la sua schiuma instabile, scopriamo sempre un nero insondabile e seducente che spazza via certezze e convenzioni, ‘alza il vento’ e solleva riflessioni filosofiche. Muovendosi dall’onirico al politico, i suoi film sono pietre vive che costruiscono un edificio di porte che si aprono e si chiudono su universi paralleli, di idrovolanti carichi di sogni e di bombe, di nuvole nere che si fermano e di nuvole bianche che corrono col buon vento, quello fa mulinare gli ombrellini delle fanciulle e volare i cappellini dei fanciulli. La chiave del mistero risiede tutta nel viaggio fantastico che le storie di Miyazaki dispiegano, offrendo a eroi ed eroine uno sguardo nuovo sul mondo. La matrice è sempre la stessa: l’emergere di un’alterità e il susseguirsi di eventi, qualche volta tragici, invitano i protagonisti a ri-calibrare la visione del proprio focolare (per l’autore è spesso un cerchio familiare rotto o incompleto). Nella crepa che spezza in due i suoi protagonisti e spacca in due i suoi film, Miyazaki precipita un altro bambino, che evolverà dentro immagini grandiose. Sulle note di Joe Hisaishi, compositore fedele dello Studio Ghibli, provoca di nuovo la collisione dei mondi che crea, due dimensioni che si scontrano o si disfano. Il ragazzo e l’airone non fa eccezione, segnando il ritorno all’orizzonte carrolliano de Il mio vicino Totoro o de La città incantata. (…) La mobilità dell’airone incarna la dinamica alla base dei migliori film del regista. Esemplare la sua prima (e sublime) apparizione, l’uccello emerge dalla profondità di campo e attraversa il quadro, rompendo con un frullo d’ali la fissità dell’inquadratura. Questo movimento rappresenta il principio di slittamento alla base del cinema fantastico di Miyazaki: la quiete del paesaggio rurale, che accoglie Mahito e rivela la quasi pietrificazione della sua nuova dimora, si riconfigura con l’arrivo di un animale mostruoso. Vero e proprio elemento di disturbo, attraversa il campo in diagonale, l’airone rompe la partizione binaria tra gli sfondi immobili delle immagini e i personaggi in movimento in primo piano. (…) Miyazaki enfatizza con la stessa cura il caos dell’incendio e i piccoli scricchiolii del legno sotto i passi attutiti di un bambino, il tumulto dell’incubo e il fruscio della realtà. L’emergere di un sogno o il chiudersi di una porta alimentano allo stesso modo la trama di una realtà a due teste che comunicano ed entrano progressivamente in contatto. Nel corso di una vertiginosa odissea in cui il protagonista attraversa una serie di soglie, livelli e portali, nella speranza di vedere la madre morta e di ritrovare la matrigna viva, Miyazaki mette in campo un immaginario ricco ed eterogeneo in cui rivisita i suoi film precedenti e rende omaggio alle sue influenze, mescolando stili e tecniche di animazione diversi e incrociando la strada di un bestiario straordinario che funge da guida per l’aldilà. Come Orfeo, Mahito attraversa il mondo dei morti e guida una narrazione ‘aperta ai quattro venti’ ma appoggiata sul desiderio dell’autore di perfezionare l’arte sottile dell’equilibrio fantastico e di consegnare ai posteri l’ambiziosa sintesi di un’opera monumentale. (…) Poeta grafico e architetto di mondi immaginari, Hayao Miyazaki esplora i temi che hanno nutrito la sua infanzia e incoraggia le generazioni future a impadronirsi del mondo, a organizzarlo a loro immagine e somiglianza. A patto che riescano a uscire dal labirinto iniziatico che il vecchio maestro ha costruito per loro…”
Marzia Gandolfi, da MYmovies.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
fantasmagorico viaggio tra i migliori o peggiori mondi resi possibili dal ciclo perenne della reincarnazione e dalla trasfigurazione delle anime.
L'irrefrenabile immaginario del maestro giapponese mescola angosce infantili,desideri adolescenziali,utopie pacifiste e incubi contemporanei in una giostra
di spasmidiche suggestioni.
Tutto invoca una sorta di ritorno al grembo materno,all'origine del tutto che soltanto nella ri -unificazione dei doppi può generare una serenita' primordiale.
O ci si lascia trascinare dal vortice delle immagini e delle allusioni ( anche cinematografiche ) o ci si perde nel tentativo di decifrare un patrimonio iconico orientale che noi non sappiamo intendere fino in fondo.
Meraviglioso e angosciante,con una qualità grafica strepitosa al limite del perfezionismo compiaciuto.
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Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Hayao Miyazaki debutta al Bazin da sempre poco incline a frequentare il cinema d’animazione. L’ultimo film d’animazione proiettato risale al 2009: Valzer con Bashir. Non stupisce certo che nessuno in sala (proiezione del 24 marzo) abbia mai visto un film del maestro giapponese. Si percepisce una visibile curiosità prima della proiezione. Bene dunque che Miyazaki, adoperando la grammatica della fantasia da lui codificata nell'arco di mezzo secolo, rilanci con quest'opera la complessità del suo cinema, affidandosi alle immagini e alle sue visioni che moltiplicano le piste narrative e i piani ermeneutici. Al termine della proiezione tra il pubblico in sala prevale un'esplicita fascinazione nei confronti dell'opera che motiva a perseguire con coraggio la programmazione di opere di questo livello espressivo. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Una fantasia di colori e immagini per un racconto enigmatico: cammino iniziatico (le innumerevoli porte che si aprono su diversi mondi); reductio ad uterum nell'incontro con la madre da ragazzina; percorso ctonio introdotto da un verso della Commedia inciso sull'architrave della torre incantata (ma anche con un airone-Virgilio e traghettatrice - Caronte); percorsi nei mondi altri che via via si aprono al protagonista, segnati non solo da spazi ma anche da tempi “altri”, i quattro elementi “primordiali” che si susseguono e mostrano ciascuno la propria natura (acqua, terra, aria, fuoco), ma troviamo gli animali parlanti delle fiabe, la presenza di 7 vecchine come le piccole divinità benevole dell’animismo orientale, i disegni alla moda dei “manga” e un inquadramento storico che parla di guerra e dolore. E molto altro … due ore di suggestioni tra oriente e occidente! A proposito, l'illustrazione del libro che la madre avrebbe voluto donare a Mahito è “Il seminatore” di Millet! |
Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Hayao Miyazaki lascia come film di congedo quest’opera non facile che racconta l’incontro tra un ragazzo e un suo antenato creatore di mondi perfetti, rappresentati dai tredici elementi da tenere in equilibrio, il quale lo vorrebbe come suo erede. Il ragazzo però non accetta, preferendo tornare alla sua vita nella quale ha pure sperimentato sulla propria pelle tutto il peso del male. Sembra che il regista s’interroghi sulla sua eredità e sul fatto che il cinema debba costruire delle utopie o prendere sul serio la realtà, optando per questa seconda ipotesi. Come quasi sempre accade, però, non è tanto la risposta a essere affascinante, quanto il viaggio che lo spettatore compie per andare alla sua ricerca. Farci guidare da Miyazaki nei mondi della sua fantasia è ancora una volta un’esperienza sorprendente e intrigante, ricca di immagini perturbanti e personaggi enigmatici, attinti dalla cultura occidentale e da quella asiatica, che lascia lo spettatore provato ma appagato |
Rolando Longobardi (Jolly) |
Che cosa aggiungere all'ennesimo struggente e realistico film d'animazione del maestro Miyazaki.
Il significato del titolo in giapponese (e del libro che il ragazzo legge nella sua stanza - e voi come vivrete?), rimanda a tutta la tradizione filosofica e cinematografica dell'autore: il lutto, la magia, il saggio, il reale. Tutti archetipi che sanno raccontare l'umano in ogni sua sfaccettatura e renderlo (grazie allo studio Ghibli) in versione animata e qualche modo eterna.
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Il grande carro
da domenica 30 marzo a venerdì 4 aprile 2025
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IL GRANDE CARRO
regia di Philippe Garrel
“È chiaro sin dalle prime scene che Il Grande carro è un film intriso di autobiografismo. Garrel mette in scena una famiglia di artisti fuori tempo, che porta ostinatamente in giro un’arte antica, dimenticata e fuori moda come quella dei burattini. Ma allo stesso tempo parla della propria di famiglia e insieme quindi della propria vita e della propria arte. E lo fa raccontando un padre (senza nome) che muore (in scena) appena dopo un quarto di film e i suoi tre figli – i veri tre figli del regista – che invece usano quasi tutti i loro nomi reali: Louis e Lena, solo Esther diventa Martha. E allora non è difficile capire come Il Grande carro sia soprattutto una enorme metafora dentro la quale Garrel racchiude i sentimenti e le emozioni che abitano quest’ultima parte della sua parabola artistica e della sua vita. Sarebbe banale, nel caso di un autore così eccentrico e multiforme, definire il film come un lascito o un testamento spirituale, ma è senz’altro vero che un incedere narrativo tanto disomogeneo e a tratti impressionistico come quello che il regista utilizza, porti a considerare l’opera come un lavoro privato, personale e fortemente soggetto all’emotività. (…) Garrel pur restando attaccato alle questioni di sempre – le insidie dei sentimenti e della vita di coppia, l’impegno politico e l’irrinunciabilità dell’adesione alle idee comuniste, l’insofferenza verso le convenzioni borghesi – introduce temi che si fissano su questioni più intime e personali. Quasi intendesse davvero se non chiudere definitivamente con la propria poetica, almeno mettere in campo riflessioni dal respiro universale. (…) Perché se c’è una cosa che il cinema di Garrel ha sempre insegnato e non smette di ripetere è che la libertà è la passione più ardente di tutte. E vale la pena vivere per essa!”
Lorenzo Rossi da cineforum.it
Guglielmina Morelli (domenica pomeriggio) |
Guglielmina ha sostituito Giulio |
Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Dopo il premio a Berlino arriva al Bazin Il grande carro, film di Philippe Garrel, decano del cinema francese, che usa il suo clan per parlarci in chiave autobiografica di arte, vita, morte e pazzia. Nessuno degli spettatori ha avuto modo di vedere i suoi film e pochi apprezzano il suo stile registico che riprende i dettami della caméra stylo. I più apprezzano la performance dell’aitante figlio Louis, attore di punta del cinema francese. Rimane però radicata la scarsa empatia del pubblico del Bazin nei confronti di un autore che usa consapevolmente una struttura narrativa antiretorica. |
Guglielmina Morelli (mercoled sera) |
Tradire la tradizione è lecito? E se la tradizione si identifica con la famiglia? Se la tradizione è un'arte ormai marginale in Occidente? Questi e altri temi percorrono questo gradevole film francese, dove tre generazioni si confrontano sul senso della storia, dell'identità artistica e morale per scoprire che è necessario scegliere la propria via, restando però fedeli al legame familiare. Un senso autobiografico sottotraccia è uno dei collanti del film (un padre senza nome, una nonna comunista e bizzarra, tre giovani che sono i veri figli di Garrel), ma fa pensare che chi non ha famiglia si perde, nonostante il talento artistico. Fa pensare!Tradire la tradizione è lecito? E se la tradizione si identifica con la famiglia? Se la tradizione è un'arte ormai marginale in Occidente? Questi e altri temi percorrono questo gradevole film francese, dove tre generazioni si confrontano sul senso della storia, dell'identità artistica e morale per scoprire che è necessario scegliere la propria via, restando però fedeli al legame familiare. Un senso autobiografico sottotraccia è uno dei collanti del film (un padre senza nome, una nonna comunista e bizzarra, tre giovani che sono i veri figli di Garrel), ma fa pensare che chi non ha famiglia si perde, nonostante il talento artistico. Fa pensare! |
Rolando Longobardi (venerdìì sera) |
Il tocco di un regista esperto si vede anche in quest'ultima opera del 75enne Philippe Garrel. Dalla narrazione ben costruita su due livelli, quello della realtà posta in basso, (come è giusto che stiano le cose, la morte, la separazione, la malattia), in modo concreto e materiale, così come un burattinaio che dal basso gestisce i suoi burattini; per poi passare ad una dimensione altra e alta, lasciata all'immaginario, al sogno, al de-siderio, rivolto quel grande carro del titolo (che è anche immagine reale della compagnia). La tempesta passa e distrugge il carro reale ma lascia aperte le relazioni emotive, intoccabili perché non pilotabili o costruibili a tavolino.
Bello il montaggio, lento ed essenziale. Bella la fotografia. Narrazione interessante ma troppo intima e poco empatica con lo spettatore. Un modo di fare cinema al quale non siamo più abituati e che non paga in termini di gradimento, forse.
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Marco Massara (Jolly) |
Ho ritrovato nel film di Garrel alcuni elementi del cinema di un autore che mi è stato sempre caro: Erik Rohmer.: la voce fuori campo che scandisce lo scorrere del tempo come le didascalie ne “Il ginocchio di Clare” e la leggerezza delle trame con la loro ambiguità di “L’amico della mia amica” e la voglia di racconto mediata attraverso le trame degli spettacoli di marionette. Un cinema sicuramente non più attuale, ma che conserva un suo rigore, accuratezza di messa in scena e linearità di sviluppo che ogni tanto è bene ricordare. |
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The holdovers
da domenica 16 a venerdì 21 marzo2025
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THE HOLDOVERS
regia di Alexander Payne
“Ostinati e diversamente inadeguati al mondo, Paul e Angus sono costretti a socializzare sotto lo sguardo paziente di Mary Lamb, cuoca della scuola che ha perso il suo unico figlio in Vietnam. Ma l'isolamento e il Natale accorceranno le distanze e li costringeranno a 'rompere le righe' e a 'mettersi in riga'. (…) Girato come un film degli anni Settanta, con quella grana speciale che non sembra mai finta o presa in prestito, è un racconto convenzionale ma inatteso quando parla di dolore e di privilegio, di abbandono e di fallimento, di trasmissione e della famiglia che ci scegliamo contro quella che ci impone la sorte. Paul Giamatti, attore di tutti i 'secondi piani,' coltiva l'arte dell'anonimato e rivendica ancora una volta un ruolo che gioca alla perfezione: valorizzare il partner. (…) Ode a 'chi rimane indietro', The Holdovers omaggia il cinema di Hal Asby, a cominciare dalla sua predilezione per gli antieroi e gli emarginati di ogni tipo, e presenta le caratteristiche formali di una produzione dell'epoca (il font dei titoli di testa, le dissolvenze incrociate, le zumate...). Ma non si tratta mai di un esercizio di stile, The Holdovers è più sottile e soprattutto più onesto. Sotto la superficie rétro, abbraccia temi atemporali (il conflitto generazionale, l'orrore della guerra, l'isolamento, il lutto, la depressione) e ci invita al viaggio. E noi partiamo, ridiamo, piangiamo, finiamo al tappeto e siamo felici.”
Marzia Gandolfi, da mymovies.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
girato alla maniera degli anni '70, intriso degli umori di quel periodo, nostalgico senza inutili commiserazioni, " I Residui " (si può tradurre così ? ) mette a tema ed in scena l'impossibilità della autentica tradizione" della saggezza. Ogni generazione ricomincia da capo senza una memoria critica condivisa con i padri e le madri, per cui prevalgono l' ottusità del bullismo, la vilta' della menzogna, l' impudicizia del danaro cui non fanno da vero argine le troppo fragili solidarietà tra emarginati utopisti. |
Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Alexander Payne si rivede al Bazin ed è giubilo immediato dei visionari. Funziona alla grande la solida sceneggiatura firmata da un nuovo compagno di viaggio (David Hemingson) e conquista l’ottimale lavoro sugli attori dove svetta Paul Giamatti. E poi l’omaggio al cinema degli anni settanta è un irresistibile richiamo per gli spettatori del cineforum che, per ragioni anagrafiche, si sono quasi tutti formati in quel magico decennio. E dunque la serata si conclude con struggenti ricordi di lontane suggestioni cinematografiche firmate da Penn, Hashby e Altman. |
Guglielmina Morelli (mercoledìì sera) |
Siamo catapultati negli USA del 1971, con le sue musiche, i suoi vestiti, i cappelloni, la guerra
del Vietnam e le sue vittime, Dustin Hoffman “piccolo grande uomo”. Possiamo fingere che la data sia solo un pretesto, che il film potrebbe essere ambientato nel 2018 o nel 1954 e fa lo stesso. Non credo però, penso dal 1971 sia bene partire, quando un nuovo cinema si affaccia nelle sale: non più attori belli e vincenti ma personaggi marginali (gente di colore mandata al macello, poveracci, nevrotici, folli) presi a sberle dalle cose, protagonisti di una America senza eroi, holdovers dunque. Padri inesistenti o che, al massimo, pensano di assolvere la propria funzione educativa col denaro; giovani che nascondono disagi con atteggiamenti asociali o violenti; insegnanti inutilmente rigorosi. Tutto durante il momento topico dell’anno, il Natale, festa in famiglia (e così la percepiscono i tre protagonisti, una famiglia improbabile dapprima costretta ad una convivenza forzata che via via si cementa con affetto e comprensione). Film gradevole, certo, e però in bocca rimane un retrogusto di già visto (esempio il viaggio che rivela persone e rapporti), in un film che oscilla tra un classismo tipicamente WASP e un sentimentalismo che garantisce il momento di svolta alla vicenda. Meraviglioso Paul Giamatti, davvero in ruolo, che si veste, si muove e pensa proprio come fosse in un film del 1971 e, da strabico, può guardare passato e presente. |
Giorgio Brambilla (venerdìì sera) |
The Holdovers sono i residui, gli avanzi. Questo sono i protagonisti del nostro film: quelli che passano a scuola le vacanze di Natale a mangiare quello che è restato del cibo, perché non si faranno nuovi acquisti finché non rientreranno gli altri, quelli che contano. Tra questi figli della cultura dello scarto, come li definirebbe papa Francesco, scatta però una solidarietà che, a partire dal mondo di dolore e solitudine nel quale sono chiusi, li farà incontrare e crescere, fino a portare addirittura il docente apparentemente più sprezzante nei confronti dei suoi studenti filistei a sacrificare le proprie certezze per salvare dalla vita militare, con la sua promessa di morte, un giovane dotato ma, come lui, detestato da tutti. Payne mette in scena una dinamica già vista molte volte, ma lo sa, e ce lo fa dire dal professor Hunham al museo, quando afferma in sostanza che ogni passione è già stata vissuta e ogni storia raccontata, e dal film stesso, mediante la ripresa dello stile del cinema degli anni ‘70, nei quali è ambientato. Costruisce un testo di grande finezza, con attori al meglio delle loro possibilità che danno corpo a personaggi sfaccettati e intriganti, che divertono e sorprendono lo spettatore mentre lo fanno entrare nelle pieghe della propria umanità
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Rolando Longobardi (Jolly) |
Un film riuscito questo di Payne che riesce a mantenere il ritmo e la valenza educativa di un film il cui confronto, a mio avviso non molto centrato, con l'attimo fuggente di Weir, sembrava minarne le basi. I personaggi sono ben delineati e mai sopra le righe. Il burbero insegnante Hunman rappresenta l'aspetto rude ma anche più comprensivo si una comunità educante assente o troppo materna, anche se comprensiva (vedi la sig. ra Lamb). Non mancano momenti di reale empatia tra il ragazzo e il suo insegnante, ma i ruoli (e questa la più grande differenza con il sopracitato film di Weir), risultano comunque ben delineati e mai confusi. La vera trasgressione è adulta e risiede in una buona bottiglia di whiskey.
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