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Gran Tour

 

da domenica 19 a  venerdì 24 ottobre 2025

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GRAN TOUR

REGIA DI M.GOMES

C

“Birmania, 1917. Il funzionario dell'Impero britannico Edward riceve un telegramma dalla fidanzata Molly, che vuole raggiungerlo a Rangoon per sposarlo. Edward sale sul primo treno, che deraglia. Da lì inizia un viaggio attraverso l'Estremo Oriente, che lo condurrà in Vietnam, nelle Filippine, in Giappone e infine in Cina, puntualmente raggiunto dai telegrammi di Molly che non demorde e segue le sue tracce tra mille difficoltà. (…) Grand Tour continua un discorso personale e lo porta in Estremo Oriente: la componente di finzione è ambientata nel passato ma è evidentemente girata nel presente, spesso in interni, anche a causa del lockdown da Covid-19. La suggestiva monocromia della fotografia e l'utilizzo di tecniche come l'iris rimandano però a un'epoca lontana del cinematografo. A rappresentare gli esterni sono invece immagini catturate da Gomes durante viaggi recenti in quei luoghi e il montaggio di vecchio e nuovo, bianco e nero e colore, documentario e finzione provoca l'effetto ossimorico desiderato dall'autore.
Le lingue parlate sono tante quanti i paesi attraversati e osserviamo prosaici attimi di quotidianità contemporanea - una giostra in Myanmar, un karaoke nelle Filippine e così via - mentre una voce over ricostruisce la storia d'amore incompiuto tra Edward e Molly. Un effetto complessivo straniante, agevolato da un ritmo lento e suadente e dall'immersione in una vegetazione lussureggiante che culla lo spettatore in uno stato semi-onirico.
La prima metà del film si concentra sulle peregrinazioni di Edward e sulla contemplazione, dove la seconda, in cui la protagonista è Molly, è caratterizzata da avventure esotiche e sinistri vaticini, che alzano il livello di pathos e di compartecipazione dello spettatore.
Inevitabile pensare a un omaggio al capolavoro Sans Soleil di Chris Marker - come Tabu, d'altronde, lo era stato verso il film omonimo di F.W. Murnau - ripensato in base alla cifra stilistica propria di Gomes, che utilizza un cinema ibrido per sospendere l'atmosfera e trasferire lo spettatore in un limbo in cui la trama conta relativamente, smarrita tra gli scherzi della memoria e di una percezione fallace.
Da Tabu Gomes riprende l'utilizzo di un 16mm in bianco e nero e l'ambientazione post-colonialista, utile ad evidenziare il contrasto tra Occidente e Oriente e l'inafferrabilità di quest'ultimo, inevitabilmente incompreso quando osservato attraverso lo stereotipato sguardo occidentale. Forse è cinema per iniziati, ma vale la pena provare ad avvicinarsi al culto del regista portoghese per poterlo apprezzare appieno.”
(Emanuele Sacchi da MYmovies)

Guglielmina Morelli

domenica pomeriggio

Un'opera (finalmente) insolita, sconcertante e, come si dice oggi, divisiva. Chi ne ha apprezzato il fascino, al di là del “significato” enigmatico e sfaccettato (una sequenza di dicotomie: tra Oriente e Occidente, tra uomo e donna? Oppure una riflessione sulla costruzione dell’immaginario filmico, ma non solo tra marionette e teatro delle ombre?); chi invece lo ha trovato incomprensibile e irritante. Insomma,  un enigma. Ma un Oriente spiazzante, incomprensibile, reso grottesco da imprevedibili testa-coda temporali (un ufficio postale nella Saigon del 1918 con una bella foto di Ho Chi Min sullo sfondo) e una costruzione narrativa che permette a ciascuno di ricostruire un proprio “senso” alle immagini, lo rendono un film affascinante e importante. 

Angelo Sabbadini

lunedì sera

Grand Tourè un esercizio di confronto/scontro culturale stravagante e giocoso, e lo scrittore e regista portoghese Miguel Gomes è notoriamente un malizioso assemblatore di forme cinematografiche convenzionali. Noto per i suoi inconfondibili mix di finzione e documentario, di malinconia impassibile e di commedia anticonformista, Gomes è specializzato nel condurre gli spettatori in viaggi imprevedibili. Chi ha avuto la fortuna di vedere Tabu (2012) non ha però ritrovato la stessa ispirazione e qua e là si è pure annoiato, ma la cifra cinematografica del regista lusitano è comunque di tutto rispetto

Giulio Martini

mercoledì sera

Restituire il " vissuto" di un viaggio,non solo le foto ? Condividere la memoria e le sue rielaborazioni notturne ? Confrontare i modi della rappresentazione e della messa in scena tra Oriente ed Occidente ? Il discendente dei colonizzatori Portoghesi ci prova, misurandosi - al Cinema - con Joyce e Wenders.

Impegnativo per chi guarda e ascolta,ma se ci sia abbandona al torrente delle immagini e dei suoni trascinante

Rolando Longobardi

venerdì sera

Il film gran tour, vincitore a cannes del 2024 è sicuramente un grande esercizio di stile registico ed estetico ma richiede implicitamente allo spettatore una grande passione per la settima arte. L'idea di non gestire la temporalità in modo convenzionale funziona ma richiede davvero molto adattamento. Povera la narrazione ma ricca la fotografia e il bianco e nero contribuisce a rendere tutto più "falso" nel "vero", come solo il cinema può fare. Il finale ne è un chiaro esempio.
Troppo lungo, forse ed a tratti lento. 

Marco Massara

Jolly

Bello è forse un po’ troppo. Sicuramente molto interessante.

L’anelito al viaggio come scoperta o come fuga è ben realizzato, anche se con qualche passaggio un po’ fumoso.

Mi ha evocato la figura e l’opera di Bruce Chatwin, soprattutto con il tentativo, riuscito, di adattare il flusso narrativo alla mentalità orientale.

Una fotografia basata su un bianconero troppo ‘pastoso’ e dal contrasto troppo basso. Tuttavia “Il bel Danubio blu” messo in scena  con un balletto di motociclette riscatta ampiamente il difetto.