La zona di interesse
da domenica 17 a venerdì 22 novembre 2024
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La zona di interesse
regia di Jonathan Glazer
“Se il film è tratto dall'omonimo romanzo di Martin Amis, è peraltro categorico nello scarnificarne la drammaturgia, implicando e mai evidenziando un racconto, consegnandosi, come fa, al puro dispositivo. È questo, del resto, il fondamento dell’operazione: lamentarsi, come si è fatto, per la mancanza di una progressione narrativa significa proiettare un’esigenza personale estranea a un film che questa convenzione la rifugge scientemente. Se tentare di fare prosa o poesia sull’Olocausto è operazione difficilissima e sempre ai limiti della pornografia, Glazer, con questa scelta drastica, sembra volerci dire che oggi l’unico modo di esprimersi cinematograficamente sull’abominio dei lager, senza cavalcarlo, sia mettere a rischio il prodotto film, renderlo difficile, ostico, non addomesticarlo a un pensiero comune subito digerito. E non tentare di conquistare l’attenzione dello spettatore con la commozione o con il raccapriccio: piuttosto, invece, sfidarlo proponendogli una rinuncia, che è quella all’intrattenimento, alla narrazione, alla esplicitazione didattica del senso della Storia. Impegnarlo sul serio. Non mostrando il campo di sterminio, ma solo evocandolo, Glazer impone al pubblico di completare il quadro: è in questa indotta ricostruzione mentale - non attraverso le immagini esplicite - che La zona di interesse riesce limpidamente a porsi come un film sulla memoria, una memoria davvero sollecitata, una memoria che si esercita fuori dalle retoriche e dagli automatismi commemorativi che inevitabilmente tolgono forza a questo tipo di esercizi morali. (…) Allo spettatore, dunque, l’elaborare l’incipit al nero, il fumo delle ciminiere, il titanico lavoro sul sonoro, la corolla di un fiore il cui rosso dilaga sullo schermo fino a esaurirlo.
E inevitabili baleneranno in testa i paralleli con il contemporaneo - la propria sicurezza domestica al confine con la tragedia - ché a dettare il comportamento di questa famiglia, prima dell’ideologia nazista di cui il marito/padre è strumento diretto, è una certa logica piccolo-borghese che mette il proprio benessere al primo posto rispetto a tutto, fosse anche il massacro di un popolo. (…) Ecco allora che La zona di interesse - per la densità di questa esperienza in equilibrio tra il detto e il non detto, il visto e il non visto - riesce ad essere da un lato un film sulla Shoah semidefinitivo, dall’altro - proprio per la dedizione assoluta con la quale il regista si pone al servizio della sua idea di messa in scena - un ossimorico scontro tra il dato storico e la modalità ipercontemporanea di ritrarlo: oscillando tra la logica del circuito chiuso delle telecamere di sorveglianza e quella voyeuristica a cui la televisione ci ha ormai abituato da decenni, l’opera si risolve in un’avanzatissima, quasi estrema sperimentazione sul cinema di consumo («Anche se l’abbiamo girato nel vero campo di concentramento, non è un film vintage, in costume, da mettere al museo. L’ho costruito con la lente del nostro mondo»), ottenuta attraverso un lavoro certosino (due anni solo per la postproduzione) volto ad ottenere un realismo a suo modo inedito («Sentivo di dover filmare tutto questo come se stessi riprendendo le persone reali»).”
Luca Pacioli, da spietati.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Nonostante alcune oscurità espressive ( le scene notturne mischiate alla fiaba di Hensel e Gretel ) un film dal messaggio limpido e lineare, con una beffarda luminosità cromatica che fa da reagente alle tante immagini memorizzate al cinema della Shoa. Originale anche l'uso del sonoro come stimolo al pubblico perche' almeno intuisca quello che i protagonisti non vogliono minimamente né vedere.ne' sentire. |
Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Sono la musica angosciante di Mica Levi e il sound design di Johnnie Burn a destabilizzare gli spettatori del Bazin e a portarli nel senso profondo di La zona d’interesse di Glazer. Un lancinante tappeto sonoro di rumori, urla, suoni che raccontano l’insopportabile strazio del campo di concentramento. Una tragedia che non si vede mai, ma si sente senza soluzione di continuità. E il film di Glazer, appare ai presenti, innanzitutto un film da ascoltare, una composizione tragica con una ouverture iniziale in nero e una conclusione lancinante fatta di grida e clangori. |
Guglielmina Morelli (mercoled sera) |
Impossibile sintetizzare nelle nostre tre righe questo ultimo film visto tali e tanti sono le suggestioni e gli stimoli che dà allo spettatore (cui si chiede autentica compartecipazione). Mi limiterò a sottolineare l’aspetto che più mi è parso moderno: se nel mondo dell’immagine esiste solo il vedere (anche se la visione può essere “falsa” o mistificante) qui conta ascoltare e capire e sapere. Un vero rovesciamento del senso comune e un invito a “guardare” oltre i muri che, isolando e chiudendoci nel nostro illusorio “paradiso”, ci rendono davvero ciechi e sordi. |
Giorgio Brambilla (venerdìì sera) |
Mi pare che il senso de “La zona d’interesse” sia esplicitato dai suoi inizio e fine: musica dissonante e rumori di morte su un fondo nero. C’è tutto: l’irrappresentabilità dell’orrore, lasciato costantemente fuori campo e solo evocato; la dissonanza tra la quieta vita della famiglia Höss in un paradiso e l’inferno oltre il muro; la vita da manager del capo della più grande macchina di morte nazista, che tratta con seri industriali in giacca e cravatta venuti a proporgli con orgoglio un modello di crematorio molto più efficiente dell’attuale; la gioia di Rudy alla notizia della progettata eliminazione di ottocentomila di ebrei ungheresi, che gli permetterà di tornare dalla sua amata famiglia; la giovane che, ripresa con camera sensibile al calore e quindi visibile come “in negativo”, sparge di nascosto cibo che i prigionieri possano trovare quando vanno al lavoro, come una sorta di terrorista al contrario; il fatto che lo stesso Höss preghi i suoi superiori di non spostare la moglie e i figli, perché lì hanno costruito l’ambiente perfetto per farli crescere, o che non capisca di essere lui stesso la strega cattiva della favola di Hansel e Gretel, che meriterebbe di finire nel forno. Si potrebbe andare avanti per molto, perché molti sono i momenti esemplari di questo testo che sa unire etica ed estetica con tale sapienza da contribuire in modo significativo a un profondo rinnovamento dell’ampia cinematografia sulla Shoa |
Marco Massara (Jolly) |
Un film di rara intelligenza. E’ immediato il riferimento alla banalità del male, tra la pace quasi idilliaca del giardino di casa Hoss e quello che ci viene fatto immaginare con la ‘tavolozza’ di suoni inquietanti ed espliciti. Ma non solo: un monito assolutamente contemporaneo con la altrettanto esplicita indicazione del rischio di creare una ‘confort zone’ in cui rinchiuderci e che ci separi dall’orrore della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ che invece dobbiamo evitare di isolare con un ‘muro’ virtuale simile a quello fisico di casa Hoss. |
Maria Cristina Cinquemani |
Il film ha indubbiamente una potenza che colpisce allo stomaco, a partire dalla incredibile immagine della villetta ridente e piena di fiori delimitata dal muro del campo di concentramento, con la torretta di guardia che svetta nel cielo.
Questa perfetta famiglia tedesca potrebbe essere quella di un normale dirigente d'azienda, sereno e felice di tornare a casa dopo una giornata di duro lavoro, soddisfatto degli obiettivi raggiunti.
Una delle scene più agghiaccianti è quella delle signore che, come ad un qualsiasi incontro fra amiche, raccontano dei trofei provenienti dai deportati ebrei di cui sono venute in possesso.
Ho però anche trovato dei lati negativi: una narrazione criptica dove, senza un'accurata spiegazione, non si capivano alcune scene (cosa c'era nel fiume?, cosa faceva la ragazzina di notte?) per non parlare dell'esagerato simbolismo delle schermate nere o rosse.
Decisamente un film da vedere con un manuale d'istruzioni.
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