Rapito
da domenica 10 venerdì 15 marzo 2024
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RAPITO
REGIA DI MARCO BELLOCCHIO
Kavac Film, Rai Cinema
“Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al "Papa Re" Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un'educazione cattolica che lo "liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei". I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un "non possum" e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità. Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l'interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l'azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.
La fonte letteraria è Il caso Mortara di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l'antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di "costringere gli ebrei a tornare nel loro buco", risigillando la porta del ghetto.
Ma al di là dell'aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un'identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte (il che equivale ad una sottolineatura indelebile), il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l'una che spera, l'altra che inchioda il bambino al suo destino (quando la scena più bella del film è quella in cui il piccolo Edgardo toglie i chiodi dal corpo di Gesù "ucciso dagli ebrei"); un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; un ostinato "ora pro nobis" e un'irruzione della Storia laica.
E per tre volte l'identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo - la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del "rapito" - che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda "Dove è finito Edgardo?", rimando ad una scena iconica di Fai bei sogni, dove la madre, come qui, era Barbara Ronchi.
Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato (…) Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un "non è successo niente".
È violenta la palette cromatica di Rapito, a cominciare dal sigillo rosso sangue con cui viene ratificato il destino di Edgardo, è violento il contrasto caravaggesco fra le poche luci e le molte ombre (la fotografia è di Francesco Di Giacomo); e supremamente violento è l'atto di strappare un figlio alla madre.
Rapitoè un horror ammantato di carità cristiana, un "miserere nobis" che cancella ogni colpa con una formula assolutoria. "Ci vorrebbe Attila", si dirà ad un certo punto, davanti a tale bigottismo, e la regia muscolare di Bellocchio manda altrettanto a gambe all'aria ogni convinzione precostituita e autolegittimante, rifiutando radicalmente ogni sistema di potere basato sul senso di colpa in cui il regista stesso è stato immerso, e dal quale non potrà mai prescindere del tutto, come emerge con chiarezza dal suo cinema, e in particolare dal documentario Marx può aspettare.”
Paola Casella da mymovie.it
“La storia è ben nota a pochi (chi conosce le vicende risorgimentali, chi vive o studia il rapporto tra cattolici ed ebrei, i cultori della storia della Chiesa contemporanea) e al tempo stesso pressoché sconosciuta presso il grande pubblico.(…)
Evidente che si tratti di una storia potente da raccontare ma alquanto delicata, per le sensibilissime corde che si vanno a toccare. Lo sa bene Steven Spielberg che da un decennio ha in animo di dare vita al suo progetto The Kidnapping of Edgardo Mortara.
Bellocchio per affrontare una vicenda così complessa, abilmente narrata con il passo dell’interno familiare, si è circondato di una squadra di livello. (…) Il film è ben riuscito e prende per mano (e per i sentimenti) lo spettatore, guidandolo dentro la vicenda e il suo tempo, ricordando le condizioni degli ebrei nei ghetti di Bologna e Roma nell’Ottocento, della perdita forzosa ma provvidenziale del potere temporale della Chiesa, di un’Italia per una parte importante ancora “da fare”.
Bellocchio con sincerità affronta la storia senza ideologie e pregiudizi ma rimanendo aderente ai fatti (sul Risorgimento preziosa la collaborazione di Pina Totaro) mostra sfumature e contraddizioni di tutte le parti in causa (e non solo dell’istituzione ecclesiastica) e - con la solita maestria - la complessità psicologica dei protagonisti. Sempre con rispetto, non solo formale, dei dati di fede cristiani, ebraici e della causa risorgimentale. (…) Rimane in ombra (peccato, si poteva attingere dal memoriale che ha lasciato) la questione chiave, uno dei tratti più interessanti e meno esplorati dalla pubblicistica sul caso: la libertà interiore del ragazzo, che educato forzatamente al cattolicesimo, sceglie di abbracciare la vocazione sacerdotale, confermandola con convinzione in tutta la sua lunga esistenza.(…) Bellocchio torna a lavorare sulle pagine controverse della storia, affrontando il tema del potere, realtà umanissima che al netto delle violenze di cui può rendersi protagonista porta inevitabilmente con se insuperabili imperfezioni. Gli abusi e le contraddizioni di ogni genere di potere (della chiesa, degli ideali politici, dei tribunali…) che il film testimonia, pur condizionando gravemente la vita di molti non hanno la possibilità di soffocare la libertà personale che – pur nella sofferenza – la coscienza individuale custodisce.
Rapitoè così un film sulla supremazia della libertà personale rispetto al potere precostituito e del percorso per affermarla.”
Davide Milani da cinematografo.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Tradimento/ ripudio improvviso del gruppo di appartenenza? Dominio ingombrante - ma irrinunciabile - delle figure materne? Orrore e fascino della Religiosità? Prepotenze ed abusi del Potere. Impenetrabilità dei sentimenti e delle pulsioni irrazionali? Reclusione in carcere o in manicomio di vittime/distruzione innocenti? Angoscia della morte e stupore davanti all'auto - annientamento i? Tutti i temi e le ossessioni dell'ottantacinquenne ex - studente di vari collegi ecclesiastici si condensano di nuovo qui in una tenebrosa ricostruzione storica della fine dell'ultimo Papa-Re. Se è più che chiaro l'intento e il torrenziale sfogo anticlericale (ma l' episodio della partecipazione di Mortara all' assalto della bara del Papa, da cui per altro lui ha preso il nome da sacerdote, è inventata...) tutti gli altri tormenti restano irrisolti, sospesi e acutissimi. La regia solida ed esperta tiene comunque a bada un magma di emozioni, luci ed ombre, abiti ed ambienti, musiche e canti sacri che rischiano talvolta solo di debordare nel grottesco.
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Angelo Sabbadini (lunedì sera)
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Marco Bellocchio cala l’asso pigliatutto e conquista il Bazin.Basta l’incipit angoscioso e inquietante di Rapito per sedurre gli aficionados del Cineforum. Con la consueta efficacia stilistica, Marco Bellocchio dà vita a una pellicola che ha un ritmo straordinario e incessante, capace di tenere alta la tensione della sala dalla prima all’ultima inquadratura. Generale compiacimento del pubblico per l’ispirato cast (da Barbara Ronchi a Fabrizio Gifuni) dove un apprezzamento speciale va a Paolo Pierobon per la sua sfaccettata rappresentazione di Papa Pio IX. Tutti i presenti in sala ritrovano con compiacimento un approccio cinematografico attento a rispettare la Storia collettiva e le storie individuali in un affresco di grande potenza visiva. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
È possibile dire che un film ha come difetto quello di offrire troppo allo spettatore? Se la risposta fosse positiva, Rapito si ascriverebbe a questa categoria. Una scenografia bellissima, oscura e inquietante; una dimensione fantasmatica che traduce incubi o desideri; una impaginazione superba, perfetta nei richiami tematici e nel frequente montaggio alternato. Soprattutto una ricchezza di temi che fornirebbero materiali per più opere; facciamo solo alcuni esempi in merito: un primo tema è certamente la descrizione di una Chiesa e di un Papa potenti e arroganti ma le loro azioni violente si accompagnano alla volontà di “salvare” il piccolo Mortara e così il Papa, con un gesto che ripete quello materno (queste madri così volitive), nasconde Edgardo sotto le vesti! Ma un secondo film potrebbe essere dedicato alla ricezione che si ha di una violenza subita, adattandosi e trovandola persino giusta, trovandosi persino “bene” tra chi l’ha commessa. È solo un problema di educazione? Un terzo film potrebbe essere dedicato al motivo della responsabilità di chi commette violenza … e qui mi fermo. Film importante ma eccessivo, troppo stordente!
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Giorgio Brambilla (venerdì sera) |
Marco Bellocchio ci racconta un fatto storico preciso per mostrare la capacità distruttiva di ogni ideologia, anche quella che dovrebbe esprimere l’amore infinito di Dio per l’uomo. Da una parte abbiamo le persone semplici, come Momolo e la sua famiglia, che vogliono solo vivere insieme. Dall’altra la spietata logica di una religiosità disincarnata, per la quale si può strappare un bambino alla famiglia solo perché è stato battezzato, e dunque è cristiano, come se l’esserlo non avesse a che fare con la libertà dell’individuo. E anche i nuovi dominatori non sembrano tanto meglio, visto che il loro obiettivo non pare il ritorno a casa di Edgardo, bensì l’affermazione del diritto dello Stato a giudicare la Chiesa, cioè la difesa di un’altra, solo più moderna, ideologia. In mezzo si trova il “rapito”, costretto a mentire, dissociare cuore e mente, fino a ridursi a un misero alienato che non sa più quel che vuole e cerca addirittura di battezzare la madre morente, cioè di ripetere il tragico errore che gli ha rovinato l’esistenza. Tutto questo ci viene posto davanti senza didascalismi, ma con la pura forza delle immagini, della narrazione, dei suoni, del Cinema, insomma
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Marco Massara (Jolly)
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Troppa roba…. Bellocchio lo conosciamo bene come i suoi attacchi al Potere, ecclesiastico o no. Qui forse c’è un secondo bersaglio: l’ignoranza, rappresentata dalle preghiere recitate meccanicamente, dai rituali accettati acriticamente ed incarnata nella ‘ministra’ del battesimo che si esprime solo in uno stentato dialetto. La coda storica, con la rappresentazione di Porta Pia ed il resto, appesantisce inutilmente la narrazione. Meno male che nel finale la madre ‘vuole morire ebrea’, altrimenti il meccanismo drammaturgico sarebbe stato troppo forzato. |