da domenica19 a venerdì 23 novembre 2023
GLI ORSI NON ESISTONO
REGIA DI JAFAR PANAHI
“Una strada e una coppia. Lui ha procurato per lei un passaporto falso per consentirle di espatriare ma quando la donna apprende che non partiranno insieme rifiuta di lasciarlo. Uno "Stop" ci informa del fatto che si tratta di una scena di una docufiction che Jafar Panahi sta cercando di dirigere a distanza da un villaggio in cui il segnale è estremamente precario. Ma anche la vita in quel luogo è precaria. L'ultimo film (per prevedibili almeno sei anni) del pluripremiato regista. Come è noto, Jafar Panahi già nel 2010 aveva subito una condanna che prevedeva per venti anni l'impossibilità di girare film, espatriare ed avere contatti con i media. Di recente però, essendosi recatosi alla Procura di Teheran per avere informazioni su un altro regista detenuto, è stato arrestato e condannato a sei anni di reclusione.
Questo film si propone come una sorta di (ovviamente speriamo temporaneo) punto fermo nella sua filmografia. Ancora una volta, da artista che non si piega ai diktat del potere, riesce ad eludere tutti i vincoli e a consegnarci una sua riflessione sul cinema e sulla società iraniana. Per quanto riguarda il cinema ci mostra come possa ancora essere un mezzo di denuncia a cui solo la mancanza di campo può porre degli ostacoli. Non sono più i tempi in cui il regime consegnava e controllava la quantità di pellicola utilizzata per girare un film 'autorizzato' preceduto dall'immancabile "In nome di Dio". Oggi si procede diversamente e, se necessario, per interposte persone. Ecco allora una storia d'amore così forte da chiedere di essere raccontata ma che, al contempo, finisce con il reclamare una 'verità' che anche il cinema più indipendente può faticare a cogliere nella sua essenza. Ma c'è un'altra vicenda che avviene nel villaggio e che coinvolge Panahi al punto da costringerlo ad andarsene. Muovendosi su questo doppio registro riesce non solo a raccontarci due situazioni definite nel tempo e nello spazio ma anche a ricordarci come il potere espanda i suoi tentacoli anche nei luoghi più remoti approfittando dei pregiudizi e dell'ignoranza. Resta comunque il bisogno irrefrenabile dell'artista di esprimersi con il mezzo a lui più congeniale, giocando anche sulla sospensione dell'incredulità. Lo spettatore deve pensare ad un Panahi in solitudine nel villaggio mentre invece viene ripreso con camera in movimento da qualcuno che è lì con lui. Questa però non è finzione nel senso deteriore del termine. È fare cinema di testimonianza esponendosi in prima persona ponendosi dietro e davanti alla macchina da presa non avendo il timore di firmare così la propria condanna pur di raccontare senza costrizioni servili.”
Giancarlo Zappoli da mymovies.it
Marco Massara
(domenica pomeriggio)
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Jafar Panahi ci racconta “le sue prigioni” allargandole da una singola cella a tutto il villaggio permeato da uno strisciante controllo sociale che pare evocare la peggiore DDR. E tuttavia non rinuncia a ‘trasmettere’ il suo grido di libertà, non accetta compromessi che potrebbero liberarlo, mantiene la sua pazienza, la sua metodicità ed il suo rigore e questo accende sempre più la nostra simpatia.
Ogni volta che tiro il freno a mano della mia auto, penso a lui.
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Angelo Sabbadini
(lunedì sera)
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Il cinema clandestino di Panahi si arricchisce di un nuovo capitolo e ci porta a scoprire due storie dolorose costruite con il suo stile incomparabile e con la sua particolare attenzione al meta cinema. Panahi può solo fare da spettatore inerme di queste storie tragiche, privato della propria capacità di esprimersi e intervenire. Intorno a lui, nell’ombra, si muovono degli orsi pericolosi e feroci che gli impediscono di agire. Ma gli “Orsi non esistono”, sono delle illusioni create per far prevalere l’autorità e le superstizioni. Al bravo regista non resta altro che usare l’unica arma in suo possesso: la macchina da presa.
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Carlo Caspani
(mercoledì sera)
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Film eticamente necessario: Jafar Panhai in scena come attore/se stesso, alle prese con un film da dirigere in remoto e un'altra storia, a cui assistiamo attraverso un giuoco a incastri, che si sviluppa intorno a una fotografia mai scattata, in un meccanismo di lento coinvolgimento con le paure, l'ignoranza, la presenza del regime, ma soprattutto con l'attaccamento ad antiche tradizioni confortevoli e soffocanti, riservate solo agli uomini, naturalmente. Le donne stanno ai margini, con abiti colorati, unico tocco allegro in un racconto plumbeo. Alla fine, nel cinema-verità come nella vicenda vissuta di persona, Panhai prende atto che il cinema e l'Arte sembrano impotenti nel tentativo di cambiare le cose attraverso l'immagine. I risultati sono solo di morte e immobilismo, con un finale sconsolato come pochi.=
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Giorgio Brambilla
(venerdì sera)
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Jafar Panahi racconta tre storie che s’intrecciano: quella del film che sta facendo, quella dei suoi attori e quella del villaggio dal quale lo dirige. Siamo di fronte a una sorta di “Effetto notte” virato in tragedia. Vorrebbe raccontare qualcosa che abbia una sorta di lieto fine, ma gli risulta impossibile in ciascuno di questi livelli. Anche la fede che il cinema sia superiore al Corano mostra tutto il suo limite, perché non riesce a mostrarci quegli elementi che ci farebbero davvero capire come stanno davvero le cose e perché deve subire questi orsi, creature ancestrali che, pur non esistendo, riescono a uccidere uomini in carne ed ossa. Questo è il potere nefasto dell’ideologia e del non voler lasciare liberi gli altri esseri umani, che si trovano costretti a guidare senza cintura ammoniti da un disturbante cicalino del pericolo che incombe su di loro
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Guglielmina Morelli
(Jolly)
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Panahi si ripropone con questa storia girata avventurosamente, anche se mi pare con più mezzi e tecniche riguardo al film precedente. La fama conquistata gli ha garantito la possibilità di uscire dall’Iran, perché n un mondo globalizzato anche gli ayatollah uscire non possono trascurare certe regole occidentali e ,obtorto collo, il successo è per il nostro regista un vero passaporto. Ben venga quindi il suo lavoro, dunque, sebbene in questo film non tutto è chiaro: certamente si respira un desiderio di libertà dal Corano usato strumentalmente in bizzarre e squallide usanze paesane, ma molte domande non hanno risposta. Che rapporto c’è tra la recita e la vita? Che ruolo ha la finzione? Perché il regista si è spostato lontano da casa, tra i monti, dove non può coordinare il lavoro della troupe? Comunque l’etica ha una sua legge: questo film, con tutte le sue debolezze, deve essere visto.
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