Home
Breaking news
IL GRANDE PAOLO HA PREPARATO LE SINOSSI DEI FILM IN PROGRAMMA
E LA SCHEDA PER VOTARE
CLICKA PER LE SINOSSI DELLA PRIMA PARTE
CLICKA QUI PER LE SINOSSI DELLA SECONDA PARTE
CLICKA QUI PER LA SCHEDA PER VOTARE
Add a commentBerlinguer - la grande ambizione
da domenica 4 a venerdì 9 maggio 2025
BERLINGUER - la grande ambizione
regia di Andrea Segre
Berlinguer. La grande ambizione
“In Berlinguer - La grande ambizione Andrea Segre non si limita a raccontare alcuni anni
cruciali nella vita personale e politica del Segretario del Partito Comunista Italiano finito
persino sulla copertina di Time.
Segre non crea un semplice biopic, ma dipinge con pennellate decise il ritratto di una
"democrazia zoppa e bloccata", ieri come oggi gravata dalle influenze straniere, e mai
abbastanza coraggiosa nel portare avanti una vera evoluzione socioeconomica. Allo stesso
modo il suo film delinea con precisione i limiti della Sinistra italiana anni '70, soggetta allo
scrutinio di Mosca e alla crisi del capitalismo mondiale.
"Se vinciamo, cosa ci lasceranno fare?" è la domanda che aleggia persino su un eventuale
vittoria comunista. "Questo è il vostro momento", dice Andreotti a Berlinguer, ma i per
comunisti quel momento non arriverà, e dopo la morte di Moro il Paese "scivolerà nel buio".
Ed è tragicamente ironico che l'unico momento che ha visto i politici italiani allineati e
compatti è quello in cui hanno deciso unanimemente di non trattare con i terroristi per il
rilascio del politico prigioniero. (...) Enrico, che da piccolo interpretava Robespierre, da
grande - nella lettura di Segre - detesterà ogni tipo di divisione, cercherà di smarcare il suo
Partito dall'Unione Sovietica inseguendo l'ideale di eurocomunismo che l'avvocato Agnelli, e
Confindustria con lui, vedevano come il Male assoluto, condannerà ogni violenza estremista
in Italia e la persecuzione politica dei dissidenti nell'URSS, inneggerà alla "realizzazione
piena di tutte le libertà dell'individuo, tranne quella di sfruttare gli altri", e preferirà la
collaborazione alla competizione, perseguendo un principio di solidarietà che è un monito al
presente. Del resto anche i suoi avvertimenti nei primi anni Settanta contro l'inevitabilità di
una crisi strutturale del capitalismo globale danno prova della lungimiranza della sua visione
politica. (...) La grande ambizione del titolo non è un esercizio narcisistico ma lo sforzo di
elevare un'intera comunità, compiuto da un uomo per cui "potere" era un verbo, non un
sostantivo egoriferito. La sua lotta contro "la degradazione della persona umana a scopo
produttivo" e contro "la logica dei meccanismi automatici" ci fa desiderare oggi un politico di
altrettanta lucidità e levatura istituzionale.
Il Berlinguer di Segre non chiede a nessuno di fare ciò per cui lui sarebbe pronto a
sacrificarsi per la ragion di Stato: compreso se si fosse trovato al posto di Moro. Berlinguer
sognava una politica "non da utopisti, estremisti, schematici o opportunisti". Soprattutto,
desiderava porsi alla guida di un partito "che rappresenti tutti i lavoratori italiani": chi oggi
può, o vuole, dire altrettanto?”
Paola Casella da MYmovies.it
“No, non è che il film La grande ambizione non mi sia piaciuto, la mia reazione è stata
diversa: mi ha addolorato. Il film è ben fatto, sia Elio Germano che Andrea Segre sono stati
bravi, come del resto sempre sono. Ma certo, il film bellissimo che Andrea ha girato nella
Venezia resa deserta dal Covid, un’atmosfera stravolta rispetto alla sua immagine abituale, è
un’altra cosa, in quel film c’è la sua anima, in quello su Berlinguer non può esserci niente.
(...) Per ragioni generazionali Andrea non può aver conosciuto né il Pci né Enrico, e dunque
il film deve esser stato scritto e girato riferendo con perizia quanto gli è stato raccontato da
chi non voleva esser rimproverato per averlo sciolto e così ha tralasciato tutto quanto di
straordinario quel partito è stato – e lo dico sebbene siano noti i dissensi che ho avuto anche
con Enrico, che poi, e questo spiega anche molte cose, mi/ci ha chiesto di rientrare.
Comunque qui ne parlo per spiegare che quella esperienza è stata una storia centrale della
mia vita, e anche drammaticamente vissuta. Il mio modo di guardare il film non può dunque
che essere divergente, e così il modo di «sentirlo», non può essere che diversissimo.
Credo non serva spiegare altro, basta riflettere sul lunghissimo arco di accadimenti,
emozioni, dolori, tristezze, arrabbiature verificatesi dal giorno lontanissimo del 1947 quando,
io diciottenne, ho parlato per la prima volta con Enrico (fu, ricordo, nella sede del Celio
dell’appena ricostituito Fonte della Gioventù e lui mi chiese di spostare una panca). A
seguire anni con lui nella Fgci , poi tanti di divergenze dolorose e convergenze felici, in
particolare in quegli ultimi anni della sua vita che la pellicola racconta, quando la vicinanza è
stata assai stretta, ma anche molto dolorosa per l’incomprensione con cui le sue scelte,
anche coraggiosamente autocritiche, erano state accolte dalla maggioranza della leadership
del partito di cui pure lui stesso era segretario. Anni di riflessioni preziose e anticipatrici,
basti rileggere la sua acuta denuncia della crisi della democrazia che stava travolgendo il
paese, e che sarebbe un bene fosse fatta conoscere ai ragazzi cui viene invece presentato
uno che la democrazia la invoca come avrebbe potuto fare un esponente del partito liberale.
(...) Più chiaro il giudizio di Nanni Moretti, che va dritto al compromesso storico, che tuttavia,
peraltro, è proprio la scelta che neppure io ho condiviso, ma quella che proprio Berlinguer
nell’arco di tempo che il film illustra sta faticosamente e dolorosamente lasciandosi dietro le
spalle. E lo sta facendo con un’argomentazione ricca di riflessione critica sulle grandi novità
che delineano il nuovo tempo in cui stiamo entrando: la crisi della democrazia, innanzitutto,
come dicevo, ma anche quella ecologica, di cui comincia a capire gli aspetti, quelli
nuovissimi che sono stati portati alla ribalta dalle grandi e assai significative lotte operaie del
decennio precedente, proprio quelle che producono il principale dissenso con la
maggioranza della leadership del Pci che non nasconde la sua simpatia per Craxi. Mentre
proprio ai congressi del Psi Berlinguer viene ostentatamente e clamorosamente fischiato.
Non c’è una di queste problematiche su cui nel film si dà voce a Berlinguer, solo una piatta
esaltazione della democrazia (quale?) su cui fa delle lezioncine a bulgari, sovietici e
compagni. È sulla base di queste lezioncine che Berlinguer sarebbe diventato così
popolare? Andiamo!, il popolo comunista lo ha amato perché gli ha riconosciuto la forza e il
coraggio di provare a conciliare l’orizzonte di una nuova società comunista con le scelte
immediate che i lunghi processi di cambiamento oggi impongono a chi non abbia rinunciato
a fare la rivoluzione. Rendere centrale l’idea che l’insuccesso sia dipeso dalle operazioni
della Cia che hanno fatto ammazzare Moro, ecco, anche questa mi sembra una
reinterpretazione della storia che non sta in piedi.
Che il film abbia suscitato tanto entusiasmo fra i compagni mi dà gioia e tristezza: gioia
perché le occasioni di letizia per i vecchi comunisti sono ormai tanto rare che l’aver trovato
un modo per consolarli va bene. Ma altrettanta amarezza nel credere che sia possibile far
tornare ai giovani la voglia di cambiare il mondo coi santini. Anche a me, certo, commuove
vedere quelle piazze colme di gente. E capisco anche che un film non è un libro di storia. Ma
non posso fare a meno di pensare che non dovrebbe neppure renderne più difficile la sua
comprensione. Sono solo molto contenta di aver accettato, dopo anni di rinnovata amicizia,
l’invito che Enrico rivolse al nostro partitino, il Pdup, a rientrare nel Pci per contribuire a
cambiarlo. Fu qualche mese prima della sua fatale scomparsa.”
Luciana Castellina da il manifesto
“Un leader politico, secondo Gramsci, deve essere ambizioso, ma la sua ambizione deve
essere “grande” perché solo così rispetta, senza alcun tornaconto personale, le persone che
l’hanno messo nella posizione in cui si trova. Per i suoi seguaci un capo senza ambizione
non è un capo, ma un elemento pericoloso, un inetto o un vigliacco. Per questo deve
compiere scelte difficili e puntare al governo e non all’opposizione, considerata come fine a
se stessa, e deve farlo proprio perché rispetta il mandato di chi l’ha messo lì, nel caso del
Partito comunista italiano (Pci), la classe operaia. Volendo raccontare gli anni del
compromesso storico, cioè il tentativo del Pci di Berlinguer di uscire dalle secche di
un’opposizione destinata a durare per sempre (per via della collocazione internazionale
dell’Italia), un estratto da questa citazione di Gramsci messa all’inizio del film di Andrea
Segre, La grande ambizione, è una premessa indispensabile per capire il resto: “Di solito si
vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione,
che è invece indissolubile dal bene collettivo”.
Il film sembra quasi una messa in scena di questa pagina dei Quaderni, che ha segnato non
solo le scelte dei comunisti degli anni settanta ma anche la successiva lettura dei loro atti
politici. Un azzardo non da poco abbracciarla.
Ma La grande ambizione dichiara di voler raccontare nient’altro che le ragioni di Berlinguer,
lo sguardo di Berlinguer, perfino gli abbagli di Berlinguer (l’attentato in Bulgaria, su cui non ci
sono certezze ma che per certo Berlinguer vive come tale, l’incomprensione per il
movimento del settantasette eccetera). Segre sceglie, dunque, in modo consapevole una
“linea politica”, la dichiara addirittura, grazie a quella citazione di Gramsci da cui tutto inizia.
La chiarezza quasi didascalica con cui il regista compie questa operazione dovrebbe essere
sufficiente per smontare alcune critiche al film, come quella di Nanni Moretti che, un po’
ironicamente e un po’ no, ha detto che se Segre avesse avuto vent’anni nel 1973 sarebbe
stato contrario, ferocemente contrario, al compromesso storico. (...) Il film è stato scritto e
interpretato da chi negli anni settanta non c’era o se c’era era troppo piccolo, e ha scelto, tra
le varie ipotesi interpretative di una stagione lontana, quella che lo convince di più. Può
piacere, non piacere, ma è così. La memoria non c’entra niente con questa opera, l’identità
dei comunisti nemmeno, c’è solo la storia, che non significa “le cose come sono andate
veramente” (una pretesa che non ha la storiografia, quantomeno la migliore, figuriamoci il
cinema), ma “i fatti come li riusciamo a raccontare” a partire dalle fonti che decidiamo di
usare.
Con altre fonti, anche semplicemente testimoniali, la storia raccontata sarebbe stata un’altra,
come ha notato Luciana Castellina, ma – ancora una volta – questo non significa che Segre
abbia sbagliato, significa che ha scelto.
Senza alcuna pretesa di esaustività, offre un punto di vista stretto su una figura che nella
storia d’Italia è stata molto amata, anche molto odiata, e comunque mal sopportata dai tanti
che continuano ad accusare Berlinguer di essere stato il meno comunista tra i segretari del
Partito comunista italiano, colui che avrebbe portato il Pci alla sconfitta, all’irrilevanza degli
anni a venire, il responsabile della fermezza, del 7 aprile, l’alleato di Cossiga nella
repressione del movimento del settantasette, e tanto altro ancora.
Il periodo raccontato da La grande ambizione va dal 1973 al 1978, che per i comunisti
italiani coincide con l’ipotesi del compromesso storico, un progetto di alleanza con la
Democrazia cristiana (Dc), partito la cui maggioranza relativa viene messa fortemente in
crisi dall’avanzata del Pci dopo il 1968. Uno dei più discussi tra i progetti politici del
dopoguerra, sia mentre è in atto sia in seguito nel dibattito pubblico che ha costruito la
memoria di quegli anni, soprattutto dopo il 1991, quando il Pci ha cambiato nome.
Si apre con i volti sorridenti dei sostenitori di Salvador Allende in Cile, un estratto dal film
Cile 1972 di Monica Maurer. Una gioia subito spazzata via dai caccia che l’11 settembre
1973 bombardano La Moneda, portando al potere il dittatore Augusto Pinochet. Dietro
l’operazione militare ci sono gli Stati Uniti e la volontà di non far passare governi di sinistra in
America Latina, quello che ancora, a centocinquant’anni da quando l’aveva detto il
presidente James Monroe, era considerato “il cortile di casa”.
La scelta iniziale è d’obbligo, non tanto perché quello di Allende è un governo socialista
particolarmente amato dal segretario comunista Berlinguer, quanto perché, dopo la strage di
piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (anche se questo nel film non c’è né viene evocato) il
timore di un colpo di stato, di una soluzione autoritaria sul modello greco di fronte
all’avanzata delle sinistre in Italia, è diffuso al punto che dopo la vittoria del fronte popolare
cileno, Berlinguer decide che l’unico modo per governare, evitando una Moneda italiana, è
farlo con la Dc.
Ripeto Dc, anche se nell’ipotesi di compromesso storico la presenza e l’alleanza con il
Partito socialista italiano (Psi) sono centrali, ma questo il film non lo approfondisce. Il Partito
socialista è evocato, ma i socialisti non ci sono mai (giusto il presidente della repubblica
Sandro Pertini, che ormai vediamo solo ai funerali in tutti i film o documentari che
ricostruiscono quel decennio).
E questo è il punto cruciale di ogni ricostruzione storica cinematografica: un film non è
un’enciclopedia, un compendio, il Bignami per immagini di un fatto storico (per questo è così
rischioso usare i film per sostituire la lezione di storia). Un film risponde alla domanda che si
fa chi lo scrive, alle sue intenzioni, non alle aspettative, i pregiudizi, le convinzioni giuste
perché fondate su esperienze personali, di chi lo guarda. Dunque che film è La grande
ambizione?
È un film storico. Una banalità. Però cosa ci aspettiamo da un film storico? Non che dica
tutto, ma che abbia un punto di vista. E questo il film di Segre ce l’ha chiaro, come abbiamo
detto. Non finge di essere vero, anche se usa repertorio e documenti, perché da un’altra
prospettiva la stessa storia potrebbe essere raccontata in un altro modo e questo il film lo
dice quando dà voce ai figli di Berlinguer, ai compagni di partito, agli operai nelle fabbriche,
al movimento del settantasette.
Da un film storico ci aspettiamo anche dialoghi all’altezza del progetto che ha in mente, e
questo il film lo fa bene quando il piano è quello politico, ma è meno efficace quando entra
nel privato. Forse con un budget diverso avremmo avuto dei flashback, invece di costringere
gli attori a dialogare intorno a episodi del passato di Berlinguer come quello della madre
malata, che il segretario del Pci ha perso da bambino. Non basta il bravissimo Elio Germano
a non far notare quanto sia un espediente per colmare un vuoto.
In compenso tutti gli attori e le attrici sono bravi, anche i volti di chi appare nella folla non
tradiscono quasi mai il fatto di essere a noi contemporanei. Belli i costumi, belle le
ambientazioni, perfetta la giustapposizione di girato e di archivio.
Un archivio in gran parte mai visto anche da chi, come me, da anni lavora sui documentari di
montaggio. Bravissimo Daniele Ongaro, ricercatore che negli ultimi anni ha portato alla luce
pezzi dimenticati della nostra storia televisiva e documentaristica, come alcuni film girati da
registi vicini al Pci o per conto del partito stesso e oggi conservati all’Archivio audiovisivo del
movimento operaio e democratico (Aamod). Sequenze che raccontano la controstoria visiva
d’Italia, fatta di immagini che non troviamo negli archivi Rai o del Luce da cui vengono
invece le immagini che vediamo di solito (anche se pure lì ci sarebbe ancora molto da
scavare).
La grande ambizione, poi, è un film dove si piange, questo l’hanno detto in molti. Segno che
il film piace e funziona (come disse Goffredo Fofi quando lesse La storia di Elsa Morante:
qui si piange). Ma non si piange solo di nostalgia, come alcuni hanno sostenuto un po’
infastiditi invitando a “seppellire il cadavere” di Berlinguer. Senza dubbio c’è chi ha pianto
per nostalgia, perché magari con Berlinguer ha lasciato indietro anche la giovinezza. Ma c’è
anche chi, vedendolo, ha pianto per gratitudine di fronte alla scelta di stare dalla parte delle
persone che, nelle baracche, decidono di occupare un campo destinato alla speculazione
edilizia sulla via Tiburtina, a Roma. Dalla parte di chi chiede ragione della persecuzione di
Sacharov e dell’alleanza con una Dc che è sempre stata dalla parte dei padroni e mai degli
operai. Momenti diversi e complementari di una storia di cui essere grati, così come siamo
grati a chi ha portato il primo bambino disabile in una scuola, a chi ha restituito gli oggetti
personali ai ricoverati negli ospedali psichiatrici, a chi ha deciso di non usare i voti a scuola
per punire e escludere. Non perché queste cose non ci siano più, ma proprio perché ci sono
ancora oggi e ci scalda il cuore vedere da dove vengono.
È vero, come ha notato ancora una volta Castellina, ma non solo, che vedendo il film non si
capisce perché un italiano su tre votasse comunista: il rapporto di Berlinguer con la base del
partito e con chi votava il partito non emerge dal film in tutta la sua originalità. Così come è
vero che chi non sa niente di questa storia potrebbe pensare che la Cia, i servizi segreti
statunitensi, siano stati gli unici responsabili della fine del progetto del compromesso storico
e della morte stessa di Aldo Moro.
Ma ancora una volta viene da rispondere: possiamo chiedere a Segre di fare da solo quello
che avrebbero potuto fare, e non hanno fatto, scrittori, giornalisti, autori televisivi negli ultimi
quarant’anni?”
Vanessa Righi da Internazionale