LA 25° ORA

(id, 2002) 

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Il cast (torna su)

Regia: 
Spike Lee

Sceneggiatura:
David Benioff 
David Benioff

Attori: 
Edward Norton .... Monty Brogan 
Philip Seymour Hoffman .... Jacob Elinsky 
Barry Pepper .... Frank Slaughtery 
Rosario Dawson .... Naturelle Riviera 
Anna Paquin .... Mary D'Annunzio 
Brian Cox .... James Brogan 
Tony Siragusa .... Kostya Novotny 
Levani Outchaneichvili .... Uncle Nikolai (as Levani) 
Tony Devon .... Agent Allen 
Misha Kuznetsov .... Senka Valghobek 
Isiah Whitlock Jr. .... Agent Flood 

Prodotto da: 
Julia Chasman 
Jon Kilik 
Spike Lee

Musiche originali:
Terence Blanchard 
Bruce Springsteen (song "The Fuse") 

Fotografia: 
Rodrigo Prieto

Montaggio:
Barry Alexander Brown 

Costumi:
Sandra Hernandez

Nazione: USA, 2002

Distribuzione : Buena Vista

Durata: 134'

 

La trama (torna su)

Monty Brogan ha solo più ventiquattro ore di libertà prima di entrare in prigione con una condanna a sette anni per spaccio di droga. In questa ultimo giorno di libertà Brogan vaga per il suo quartiere in compagnia dei suoi due più cari amici e della sua ragazza riconsiderando la sua vita fino a quel giorno.

La critica (torna su)


Corriere della Sera (19/4/2003)
Tullio Kezich

Tra il romanzo La 25ª ora di David Benioff e il film di Spike Lee c'è una differenza non da poco: il libro è stato scritto prima dell'11 settembre e il film è stato realizzato dopo la data fatidica. Vale a dire che l'angoscia personale del protagonista, spacciatore che vive la sua ultima giornata di libertà prima di entrare in carcere per sette anni, è immersa nell'ansia collettiva di una New York frastornata e tragica, che contempla le voragini delle Twin Towers. La domanda su quale potrà essere il futuro di Edward Norton, vulnerato protagonista, si allarga al problema dell'avvenire di un'intera comunità. In galera l'antieroe del film teme di dover subire gli abusi sessuali di cui si racconta, ma alla sua situazione non esiste alternativa se non nell'immaginazione. In apparenza con i nervi sotto controllo, il giovane ribolle di concreti furori; e quando si trova davanti allo specchio di un lavabo, in un ristorante, esplode in una serie di insulti a tutto e tutti, incluso se stesso. Qualcuno ha notato che questa scena, tipica di Spike Lee, c'era già nel romanzo: negli Usa letteratura e cinema si influenzino a vicenda. Pregi e difetti sono i soliti dell'autore, tanto che è ormai difficile disgiungerli: felicità nel cogliere la cosa vista e logorrea, folgorazione grottesca e divagazione superflua. Il risultato, stavolta, sembra testimoniare una raggiunta maturità. Anche perché Spike si è staccato dalla tematica razziale, ha capito che neri o bianchi siamo ormai tutti sulla stessa barca.



la Repubblica (19/4/2003)
Roberto Nepoti

La 25ma ora è uno dei film migliori della stagione: una storia ambientata nel milieu del crimine, ma soprattutto un atto d'amore per New York resa da un cineasta newyorkese per eccellenza come Spike Lee. Il soggetto, tratto dal romanzo di David Benioff, riguarda l'ultima giornata di libertà di Monty Brogan, spacciatore condannato a sette anni di detenzione. Monty la trascorre con la sua ragazza e con gli amici d'infanzia, un insegnante e un agente di Borsa, ciascuno tormentato da qualche senso di colpa nei confronti del protagonista. Tra l'Upper East Side e l'East River, tra un incontro col padre e un regolamento di conti con la mafia russa, si parla molto, si riflette sull'amore, sull'amicizia e sulla precarietà di entrambi, sulla responsabilità e sul tradimento, sul passato e sul futuro. Però il film non tirerebbe fuori tanta forza dolente, se non fosse ambientato nella New York del dopo-11 settembre. Spike la osserva con uno sguardo inquieto (c'è una scena di "melting pot" che ne rivela l'isteria collettiva), ma anche pieno di fedeltà e compianto; come dimostrano l'inquadratura iniziale, con i raggi di luce al posto delle due torri, e quelle - dall'alto - sull'immensa ferita di Ground Zero. Il suo è il primo film visto veramente dall'interno della città sotto choc.



l'Unità (18/4/2003)
Dario Zonta

Ci sono film che da soli danno senso a un'intera stagione cinematografica. Arrivano al momento giusto e ci parlano del momento ingiusto: quello che il presente consegna alla Storia. Lo fanno con grande fede nelle capacità del cinema di raccontare il mondo attraverso l'arte, e di mettere l'Arte contro il Mondo quando questi si trasforma nel fantasma della sua storta Storia. La 25a ora di Spike Lee si assume questo compito. Completamente snobbato con svista incredibile all'ultimo Festival di Berlino, è un film bello (sì usiamo questo aggettivo semplice ma chiaro) e importante, che esce nelle sale, e non a caso, il Venerdì Santo. Infatti per molti versi l'avventura dello spacciatore Monty può essere letta come una sorta di passione laica, avventura cristologica di un comune delinquente condannato all'inferno. La 25a ora parla di delitto e redenzione, di senso di colpa e responsabilità etica, dell'amicizia e dell'amore in un mondo, il nostro presente, dove il senso normale delle cose non trova più dimora, dove tutto è possibile e tutto è giustificabile, dalla piccola colpa comune, fatta di ambizione e noncuranza, al grande delitto della politica e della storia, fatto di interessi e corruzione. Quest'uomo, Monty (che come un Cristo, ma colpevole, si assume il peso della coscienza e metaforicamente quello della collettività) vive le ultime 24 ore di libertà in una New York post 11 settembre (e questo è il primo film a ritrarla nel suo stato di «sopravvissuta») perché è stato sorpreso in casa sua con un quantitativo minimo di droga ma, per le durissime Rockfeller Laws, sufficiente a una condanna di lunga detenzione. È un uomo semplice, un americano tranquillo, che ha scelto lo spaccio come lavoro redditizio. Ha una moglie portoricana bellissima e due fedeli compagni di scuola come amici. Ma ora deve andare dentro, fare un salto all'inferno nella speranza di uscirne sufficientemente vivo per dire di essere sopravvissuto, come la sua città. In questa salita al Golgota, descritta da Spike Lee con una regia essenziale e una fotografia perfetta, ci sono tre passaggi-stazioni fondamentali che, legati insieme, cuciono il senso della storia. Il primo è un monologo che si trasforma in una preghiera laica, un'invettiva-sfogo: il protagonista Monty (Edward Norton) si chiude in un bagno, ha capito che il tempo lo stringe al suo destino di carcerato e prende coscienza progressiva della sua condanna. Vede sullo specchio scritto a pennarello un «Fuck you» e inizia una ballata, intona una cantata sulla New York di oggi, i suoi abitanti, i suoi quartieri, le molte etnie e classi sociali, i personaggi noti e gli anonimi. La fotografia di una città-mondo che sperimenta ogni giorno il caos del multiculturalismo, che cerca di tenere insieme l'alto e il basso, il povero e il ricco, l'immigrato e il nativo in uno stesso affioramento sociale e politico. Manda a quel paese tutti, compreso se stesso. È una scena di grande impatto, la preghiera laica di un condannato all'inferno. Il secondo passaggio è di nuovo impressionante. I due amici di Monty, un timido professore universitario e un broker arrogante, discutono della triste sorte del loro compagno. Lo fanno bevendo un whisky davanti a una finestra che dà proprio su Ground Zero. Parlano di come prima o poi tutti i nodi vengano al pettine, della responsabilità delle proprie azioni e scelte, che spacciare piccole dosi di droga vuol dire avvelenare le persone, mentre al di là della finestra sembrano non accorgersi, che illuminate da luci gelide, le gru come enormi avvoltoi meccanici, spolpano quello che è rimasto dell'apocalisse newyorkese, la condanna macroscopica allo «spaccio» della politica internazionale americana. Il terzo momento racchiude i precedenti e dà il senso alla storia. È giunta l'ora e il padre porta il figlio Monty verso la prigione, su di una jeep che vede sventolare sull'asticella dell'antenna una piccola bandiera americana. Durante il tragitto il padre gli prospetta una possibile venticinquesima ora, quella della fuga verso il Messico, verso una redenzione che non sconta la colpa. Gli racconta una vita diversa, nuova: una famiglia, dei figli, una casa, un lavoro, invecchiare con i nipoti e morire serenamente. Insomma la vita come dovrebbe essere. Ma la 25a ora è l'ora che non c'è. Non esiste né per Monty né per l'America. Questa è l'ora, dice Spike Lee in questo film, della responsabilità etica, dell'assunzione di colpa. Le due colonne di luce che si ergono al posto delle torri gemelle sono i fari abbaglianti a cui l'occhio del presente non può sfuggire e l'America pure, benché sembri farlo così bendata dalla sua stessa cecità.



Il Giorno (19/4/2003)
Silvio Danese

Bellissima suite sull'addio diretta dal regista di "Malcolm X", equilibrata e struggente invocazione davanti alle macerie delle Twin Towers di un moralista afroamericano moderno e coraggioso. Dalla finestra di un grattacielo attiguo alle torri crollate, rivediamo il "ground zero" con le escavatrici, il deserto di polvere, il buco nella dentiera di cristallo del mondo occidentale: davanti a questa finestra Frank, impiegato a Wall Street, e Jacob, complessato professore di liceo, discutono l'imminente carcerazione del loro amico Monty per scontare una pena in giudicato, ricordano, litigano, valutando che qualcosa è definitivamente finito. E' la cronaca delle ultime 24 ore di libertà di un ex spacciatore (Edward Norton nel grande ruolo della sua carriera) che, rientrato a fare una vita normale, è stato tradito da qualcuno. Ora, con sette anni di detenzione in giudicato, ha davanti a sé una consapevole esperienza di sospensione e rivoluzione della sua vita. Niente può essere come prima dopo l'11 settembre. Da vedere.



il Manifesto (18/4/2003)
Mariuccia Ciotta

Poema sinfonico su New York con lo sky-line ridisegnato da due fasci di luce blu e di blue music (Terrence Blanchard) come unica forma di vita, La 25th ora di Spike Lee, Orso d'oro virtuale alla Biennale 2003, arriva sugli schermi pasquali, film imprendibile del day-after. La città sull'Hudson è pietrificata, nebbiosa, bellissima nella fotografia che passa dalle impurità digitali a un lussuoso 35mm cinemascope. I ponti di Manhattan e la passeggiata lungo il fiume con le sue panchine fantasma dove Monty Brogan (Edward Norton) fissa ipnotico le sue ultime ore di libertà. Sette anni di carcere per spaccio di stupefacenti. Il trafficante di droga per Spike Lee è un newyorkese tipico, Monty, l'uomo della «tragedia americana» (Un posto al sole con Montgomery Clift). Nome e destino. Disincanto, abito nero, intellettuale, casa al Village, quello di Woody Allen con i mattoni rossi, le scalette di pietre e le ringhiere. Il regista dirige e produce con la sua 40 Acres and a Mule Filmworks l'opera tratta dal romanzo di David Benioff (sceneggiatore) scritta prima dell'11 settembre. Colpiti già gli spacciatori neri in molti suoi film, Spike fotografa il newyorkese senza colore di fronte alla città macina soldi, piaceri, velocità. Come il naufrago notturno sull'ambulanza di Martin Scorsese (maestro di Spike Lee all'università di N.Y.), Monty nelle sue ultime 24 ore da cittadino libero vede apparire gli spettri del futuro e immagina che fine faranno gli amici, la sua donna, i mafiosi russi, e tutto il popolo di Manhattan. Il trafficante di droga - smercio easy per l'iperconsumo locale - diventa supervisore, coscienza sporca e sublime, martire e simbolo di New York. Tanto da permettersi una performance oltraggiosa degna dell'esordio She's Gotta Have it. Monty riflesso nello specchio della toilette di un locale si sdoppia e recita a velocità rap un fuck you per ogni tipologia etnica. E per i brockers di Wall Street, ridicoli, pedanti, incravattati come il suo amico Frank (Barry Pepper) che pretende di fargli la morale, e anzi lo dà per spacciato, perché lui è più furbo, frega la gente on line. Mentre il grande Philip Seymour Hoffman (Happiness, Magnolia) interpreta il goffo professore Jacob, insidiato dalla studentessa diciassettenne, Mary (Anna Paquin, Lezioni di piano). Il film ha un prologo che è quasi un cortometraggio, e rimanda per densità e atmosfera al Falò della vanità di Brian De Palma. In scena lo scontro tra due diversi metodi di fare soldi a New York, da Wall Street ai pani di cocaina nascosti nel soffice divano del Village. Dove Monty affonda beato con la portoricana Naturelle (Rosario Dawson), bellezza da confezione regalo, fatta per l'abito d'argento che solo lo spaccio consente. In un fluire nottambulo, La 25a ora ammalia e rilancia Spike Lee in un cinema dalle grandi ambizioni artistico-produttive, dopo i documentari (The original king of comedy, 2000), i film-tv (A Huey P. Newton Story, 2001) e l'episodio anti-Bush nel collettivo Ten minute older (2002). La trama di azzurro elettrico permane allo scadere della notte, e in una sequenza incantata il Ground Zero emerge dall'alto della finestra del brocker, appartamento nella City, vista sulle Torri. Le ruspe scavano sotto la luce dei riflettori e della luna, e continuano quando lo sguardo umano non le inquadra più. La città delle Twin Towers saluta l'uomo che pensava a una vita facile e gli augura un buon ritorno, con il sorriso dei coreani, indiani, africani, russi, ebrei, arabi, gialli, bianchi, neri. Newyorkesi.

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 Voti :  6

L'America come dovrebbe essere secondo Spike Lee: da Paese delle Opportunita' a Paese delle Responsabilita' (assunte). Un fiume denso di rabbia, di odio, di rimorso. E di parole. Troppe?

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Colgo l'occasione per rispondere a Rita Colombo (vedi intervento su "Era mio padre") ed espongo alcune (provocatorie ma sincere) ragioni in difesa del cinema americano.

1) Quando Martin Scorsese (nato a New York, Usa) sbaglia (siamo proprio sicuri?) un film, esce "Gangs of New York". Quando ne fa uno "minore", esce "Re per una notte". Quando e' ispirato, escono "Fuori orario" e "Quei bravi ragazzi". Avercene.

2) Quando Steven Spielberg (nato a Cincinnati, Usa) fa un film "minore" fa "Prova a prendermi". Quando e' meno lazzarone ci regala - tra l'altro - i primi 15' di "Salvate il soldato Ryan". Avercene.

3) Quando i fratelli Coen (nati a Minneapolis, Usa) girano un film minore, fanno "Prima ti sposo, poi ti rovino". Quando sono meno lavativi, ci offrono "L'uomo senza passato"("L'uomo che non c'era" - nota del curatore che condivide l'85 % di quanto detto da Francesco), "Fargo" e "Il grande Lebowski". Avercene.

4) Quando Tim Burton perde ispirazione piazza l "Il pianeta delle scimmie". Quando   in vena, ecco "Ed Wood" e "Mars Attacks!". Per tacere di "Edward mani di forbice". Avercene.

5) Perche' non ricordo registi italiani che a 34 anni abbiano girato "Boogie Nights", "Magnolia" e "Ubriaco d'amore". Ci e' riuscito Paul Thomas Anderson, nato a Studio City, Usa. Non e' (solo) questione di mezzi, e' (anche) questione di idee e di talento.

6) Tra i film piu' interessanti - secondo me - della storia recente del nostro cineforum ci sono spesso titoli americani. Cito: "Betty Love" di Neil La Bute, "Gli spietati" di Clint Eastwood, "Soldi sporchi" di Sam Raimi, "Le iene" di Quentin Tarantino, "Bowling for Columbine" di Michael Moore, "La sottile linea rossa" di Terrence Malick, "One hour photo" di Mark Romanek.
Non inseriti nelle rassegne ma, secondo me, da ricordare, almeno: "Happiness" di Todd Solondz, "Election" di Alexander Payne, "Confessioni di una mente pericolosa" di George Clooney, "Bamboozled" di Spike Lee.

7) Esiste il Prodotto Americano, cavolo, ma che genere di Prodotto fanno un comico tv e una modella che recita come un termosifone mescolati a Giannini che fa il verso a uno che fa il verso a Sordi ne "Il cuore altrove"?

8) Perche' il cinema di qualita' si rivede molto volentieri dopo certa spazzatura americana tipo "Vanilla Sky" (ma non tutto), "Virus letale" (tutto), "Chocolat" (tuttissimo) o Russel Crowe truccato come il Babbo Natale di riserva della Rinascente nel finale di "A Beautiful Mind".

9) Perche' la sigla sui titoli di testa della United Artists fa venir voglia di mangiare pane e cinema.

10) Perche' non si puo' dire ma da grande voglio fare il Gladiatore. Il cinema e' anche questo.

PS - Oppss... Dimenticavo Woody Allen...David Lynch...Francis Ford Coppola...Robert Altman...

Francesco Rizzo

Rispondo all'intervento di Francesco Rizzo:
Come spesso capita quando si scrive sull'onda dell'emozione, negativa o positiva che sia (mi riferisco al mio commento a "Era mio padre"), si rischia di non essere abbastanza chiari.
La mia "crescente insofferenza" nei confronti dei film americani non  sempre stata tale,tanto e'vero che condivido pienamente quasi tutte le citazioni positive di Francesco (per inciso Woody Allen, che viene ricordato alla fine,   uno dei miei miti). Dato che il mio aggiornamento cinematografico avviene da molti anni quasi esclusivamente attraverso il cineforum Bazin, due sono le ipotesi: o la scelta dei film di provenienza americana da parte del cineforum e'ultimamente caduta su prodotti a mio modo di vedere poco interessanti, oppure e' in atto una crisi di idee (non certo di mezzi e di tecnica) che coinvolge anche i migliori registi (lo stesso Woody Allen, che amo tanto, ultimamente mi delude). Resta il fatto che i film da me citati nella precedente recensione, e ora posso aggiungere anche "La 25a ora", non hanno avuto per me nessuno dei requisiti che Giulio Martini ci ha insegnato a valutare: non mi hanno ne' divertito, ne' commosso, ne' interessato.

Rita Colombo