Il cast (torna su)
Regia:
Lars Von Trier
Sceneggiatura:
Lars Von Trier
Attori:
Nicole Kidman .... Grace Margaret Mulligan
Harriet Andersson .... Gloria
Lauren Bacall .... Ma Ginger
Paul Bettany .... Tom Edison
Blair Brown .... Mrs. Henson
Prodotto da:
Gillian Berrie, Bettina Brokemper, Lene Børglum
Musiche non originali:
Antonio Vivaldi ("Cum dederit" from Nisi dominus, RV 608)
Fotografia:
Anthony Dod Mantle
Montaggio:
Molly Marlene Stensgård
Scenografia:
Peter Grant
Costumi:
Manon Rasmussen
Nazione: Danimarca, Svezia, Francia, Norvegia, Olanda, Finlandia, Germania, USA, UK
Durata: 135'
La trama (torna su)
Grace si rifugia nella comunità di Dogville. Grazie all'aiuto di Tom, portavoce della comunità, Grace riesce ad ottenere protezione a patto che sia disposta a lavorare per la collettività. Ma quando i cittadini scoprono che è ricercata avanzano pretese sempre più pressanti. Grace è costretta a subire ogni genere di umiliazione. Nel momento in cui la cittadinanza comprende che il buon nome della comunità è messo a repentaglio da Grace che conosce gli inquietanti segreti di ciascuno, gli abitanti di Dogville decidono di consegnare la donna ai gangster. |
FilmChips (10/11/2003) Angelica Tosoni |
Dall'alto, la macchina da presa si avvicina alle tavole nere di un pavimento di legno in cui sono tracciate in bianco strade e case. Dogville si presenta allo spettatore sotto forma di mappa. Da adesso si stabilisce tra Lars von Trier e la platea un patto che non si scioglie fino al termine del film. Nell'istante in cui sullo schermo iniziano a scorrere titoli di coda e fotografie più o meno vecchie di un'America povera, reietta e perdente l'accordo viene meno. E' il momento dell'esegesi. Inquadrati dall'alto, i personaggi ricordano i topolini bianchi degli esperimenti. Dogville è un film molesto perché emozionante al di là di ogni limite. Un laboratorio scientifico dall'impianto teatrale brechtiano dà origine ad una straordinaria prova di cinema. La finzione scenica esplicita ed esplicitata, grazie alla macchina da presa a spalla, concentra l'attenzione dello spettatore sui rapporti tra i vari personaggi, sui moventi delle loro azioni e sugli oggetti con cui realizzano relazioni simboliche. Non esiste altro. Il narratore, la voce fuori campo, assume la funzione del coro della tragedia greca. La suddivisione in nove capitoli, pur non interrompendo il flusso emotivo, garantisce lo spettatore dalle trappole dell'affabulazione e dell'identificazione. La trama potrebbe erroneamente indurre a pensare si tratti di una pellicola simile ai tanti racconti di fuggitivi che imperversano nella cinematografia mondiale. Nulla di più distante dalla verità. Sono gli anni della recessione, la bellissima Grace è inseguita da pericolosi gangster. Fuggendo, la donna giunge nella tranquilla Dogville. Sebbene inizialmente restii, grazie all'intervento di Tom, i cittadini accettano di nasconderla. Per assicurarsi la benevolenza degli abitanti, la ragazza lavora per ognuno di loro. Quando in città uno sceriffo affigge il manifesto della donna, ricercata ovunque, Dogville esige molto di più. Il buon cuore nell'America democratica ha un prezzo: Grace diventa proprietà dell'intera cittadinanza. Lars von Trier utilizza il film come una lente d'ingrandimento che impietosa indugia sull'animo umano e sulle dinamiche di potere. E' un regista che non ama i suoi personaggi, nell'assenza di affettività risiede la forza e la lucidità della sua regia. Talvolta, si ha la sensazione di avere a che fare con un demiurgo che sperimenta le reazioni dei protagonisti a contatto con un potente reagente: "metti in scena una persona, ti chiedi come agisce in quel momento, e per forza sei tu che devi dare la risposta". Grace, interpretata da Nicole Kidman, non è un'eroina, anzi. In lei prende consistenza un mutamento che la trasforma da materia inerte nelle mani degli altri a splendida dea vendicatrice, in grado di determinare la sorte altrui. Se l'iniziale necessità di credere e sperare in tutto ciò che è umano lascia intravedere qualcosa dell'Idiota di Fedor Dostoevskij, l'assolutezza della scelta finale la allontana da qualsiasi sentimento di pietà. Niente sangue sullo schermo, non ce n'è bisogno. Resta la condanna, resta l'esecuzione implacabile. Tom è un filosofo, un aspirante scrittore, esempio di ipocrisia e di inabissamento dell'idealismo nell'autoprotezione e nel perbenismo. Si tratta di un personaggio complesso, difficile da riscattare che trova un valido interprete in Paul Bettany. Nel cast spicca Ben Gazzara, magnifico ed intenso. Come definire il nuovo film del regista danese? Un esperimento? Una messinscena teatrale? "Dogville - afferma Lars von Trier - è soprattutto un film e come film sono soddisfatto della forma, del contenuto e della recitazione". Un capolavoro, aggiungiamo noi, un raggelante straordinario capolavoro cinematografico. |
la Repubblica (8/11/2003) Roberto Nepoti |
Avremo ancora il coraggio di lamentarci del cinema? Ormai non passa settimana senza che escano film belli o interessanti, tanto da far scarseggiare il tempo e gli euro necessari per vederli. Però Dogville appartiene alla categoria "cinquestelle lusso": perderlo è vietato (pur col rammarico che la distribuzione lo abbia accorciato di 40'). Se von Trier ci stupisce a ogni film, non è mai così geniale come quando si aggira per il cinema della crudeltà: a qualcuno la sua rabbia potrà dare fastidio, ma si tratta di un fastidio salutare. E Lars è un genio cattivo. Basta vedere il modo in cui Dogville tra(sgre)disce le aspettative del pubblico; sia sul piano della storia, sia nel modo di raccontarla. Inseguita dai gangster, la dolce Grace giunge nel borgo sperduto di Dogville e trova la protezione dei tranquilli americani che vi abitano. In cambio, partecipa ai lavori della comunità. Dovrà subire una dura delusione: poco a poco i buoni samaritani cominciano a esigere da lei prestazioni in natura di vario genere, sottoponendola a oppressione psicologica, economica, sessuale secondo la logica del profitto cui anche i poveri sono devoti. Proprio in nome di tale logica gli abitanti del villaggio saranno puniti orrendamente, quando la nivea fanciulla deciderà di assumere il proprio ruolo sociale. Il soggetto sembra riproporre le eroine sacrificali dei film precedenti di von Trier, ma poi ne ribalta la personalità quando rivela la vera Grace. Il ribaltamento che sorprende di più, tuttavia, riguarda il linguaggio. Dogville si situa all'opposto di "Dogma", il manifesto del '95 dettato da Lars che ora, Demiurgo volubile, dinamita le regole imposte prima. Invece di luoghi autentici e luce naturale, una scelta scenografica radicale dove gli spazi sono disegnati sul suolo come nel tabellone del Monopoli e rappresentano ambienti (le case, la chiesa, la scuola, i negozi, perfino la sagoma di un cane) disincarnati, privi di fisicità. Brechtianamente, il film è diviso in nove capitoli e un prologo e raccontato dalla voce di un narratore onnisciente. Sono gli strumenti linguistici di un nuovo corso, che l'autore chiama "cinema fusionale" (cinema+teatro+letteratura), funzionali alla realizzazione di un'atroce, magnifica parabola sui rapporti sociali. Circondandola di un grande cast, von Trier sfrutta al meglio il vero talento di Kidman: mostrare un viso d'angelo e far affiorare per gradi tutta la ferocia del personaggio. C'è da augurarsi che la "trilogia americana", concepita dal cineasta, prosegua con lei. |
Il Giorno (8/11/2003) Silvio Danese |
Dogville è un paesino disegnato col gesso come si faceva in cortile, da ragazzini, per simulare il mondo. Intorno c'è il vuoto, il buio o la luce accecante a seconda se è giorno o notte. Centrato su una eretica parabola cristologica, designando una donna proba, Grazia, al posto del Signore, è un altro film estremo del regista di "Dancer in the dark". Cancella il rapporto convenzionale del cinema con la realtà fotografata e chiede allo spettatore di giocare con l'immaginazione come se leggesse un libro, o se ascoltasse la radio. L'effetto straniante fa passare l'emozione attraverso la psiche e aumenta, nel nuovo, la tragedia. Come si dice, è arte concettuale. Le strade sono definite da righe bianche. Gli alberi da un disegno con la scritta "albero". I venti abitanti entrano ed escono aprendo e chiudendo porte invisibili, ma sonorizzate, come i passi o i motori delle auto. «Teatralità cinematografica» mai tentata così. Per la Kidman un altro passo nella maturità della recitazione. Grande sfida, anche con i 40 minuti in meno rispetto a Cannes. E grandi detrattori, a partire da Enrico Ghezzi. |
Corriere della Sera (8/11/2003)
Tullio Kezich |
È proprio vero che chi entra Papa in conclave ne esce cardinale. Approdato a Cannes come favorito per la Palma d'oro, Dogville ne è uscito senza premi e con le ossa rotte. È bastata l'opinabile decisione della giuria perché la diva Nicole Kidman, che si proclamava stanca ma felice di aver lavorato con Lars von Trier e pronta a interpretare gli altri episodi della sua trilogia Usa, si tirasse indietro; e per imperativi di mercato il regista ha dovuto ridurre di tre quarti d'ora i 180 minuti del film che riesumerà integri nel Dvd. Nel finale della canzone di Brecht e Weill «Jenny dei pirati», la più evidente ispirazione di un melò che potrebbe intitolarsi «Grace dei gangsters», i filibustieri dopo aver espugnato la città chiedono: «Chi dobbiamo uccidere?»; e Jenny risponde: «Tutti». In fuga dai malavitosi che la inseguono, Grace si nasconde in un borgo ai piedi delle Montagne Rocciose dove trova asilo e lavoro. Ma, dopo un breve periodo felice, quando si scopre che la straniera è ricercata dalla polizia, le cose cominciano a cambiare. La cittadina si rileva un'accolita di gente infida: Grace viene angariata, taglieggiata, stuprata e infine, per un'ingiusta accusa di furto, incatenata a una pesante ruota. L'ipocritone Tom, l'unico fra i maschi che credendo di amare la malcapitata non ha partecipato alla violenza collettiva, conclude comunque che sarà meglio sbarazzarsene e telefona al padrino della mala che è anche il padre di Grace. Avrà appena il tempo di pentirsi. Nell'affrontare la descrizione di un paese dove non è mai stato, quasi imitando i nostri grandi americanisti da Vittorini a Pavese, Von Trier (anche se lo nega) si è ricordato di un dramma che ebbe successo poco prima della Seconda Guerra. Come in «Piccola città» di Thornton Wilder c'è un narratore (presente però soltanto «in voce»), non ci sono scenografie realistiche, appena i tracciati sul pavimento dello studio e pochi elementi di arredo. Tira un'aria da vecchio teatro moderno che sulle prime sembra un residuo di avanguardismi superati, ma nel procedere dell'azione si entra nel gioco e se ne intendono la raffinatezza e la necessità. La suggestione nasce dallo stile (inquadrature, illuminazione, montaggio) e dalla presenza di attori che andrebbero elogiati uno per uno. Il sentimento che pervade la finta tragedia americana è di un pessimismo agghiacciante. |
l'Unità (7/10/2003) Alberto Crespi |
Eccola qui, la versione «condensata» di Dogville, nuova attesissima opera del danese Lars Von Trier: dura circa 40 minuti in meno rispetto al film che ci siamo sciroppati a Cannes. Ma aspettate a lanciarvi in pubblici appelli in difesa degli autori e della libertà di espressione: i tagli li ha fatti Von Trier medesimo, non appena i venditori internazionali gli hanno insinuato il dubbio che 177 minuti fossero un po’ troppi. Anche con 40 minuti in meno, Dogville rimane sufficientemente se stesso per dividere il pubblico come è successo a Cannes: qualcuno, convinto che Von Trier abbia inventato il cinema, l'amerà; qualcuno l'odierà, irritandosi per le trovate ad effetto del danese; e qualcuno (fra i quali chi scrive) si collocherà nel mezzo, in una gelida indifferenza, la stessa che provammo all'uscita da Dancer in the Dark. Inutile dire che l'indifferenza è proprio ciò che manderebbe in bestia Von Trier, geniale press-agent di se stesso, regista il cui indubbio talento è finalizzato a far parlare sempre e comunque di sé. Von Trier vuole stupire, indignare, farsi amare o odiare. Con noi, casca male: non lo amiamo e non lo odiamo. Rispetto a Dancer in the Dark, Dogville prosegue la medesima operazione intellettuale - ricreare in studio un'America «mentale» e mai vista - ma con alcuni decisivi passi indietro. Intanto non c'è la trovata del musical, né un'interprete/non attrice di straordinaria personalità come la cantante islandese Bjork. Il Dogma è stato totalmente dimenticato, lo stile è più tradizionale. La novità di Dogville dovrebbe risiedere tutta nella messinscena, ma proprio qui l'operazione di Von Trier mostra la corda: mutuando soluzioni dal teatro d'avanguardia, il regista cade irrimediabilmente nel teatro filmato. E di secondo piano: perché Von Trier non ha voluto (ci mancherebbe!) filmare un testo di Tennessee Williams o di Thornton Wilder, ma ha voluto ricreare a suo modo quei grandi drammaturghi, mescolandoli con suggestioni da scrittori hard-boiled come Dashiell Hammett. Abbiamo quindi, nell'ordine: un testo che è un pastiche del teatro americano e del romanzo noir, un allestimento che sembra un Luca Ronconi riciclato e una recitazione naturalistica, di alto livello, ma convenzionale. A questo punto vorrete sapere cosa racconta Dogville, e soprattutto come lo racconta. Il «cosa» è presto detto: Nicole Kidman è Grace, una donna in fuga che si rifugia in una minuscola cittadina sulle Montagne Rocciose e chiede asilo, ed aiuto, alla comunità. I cittadini di Dogville scoprono ben presto che Grace è inseguita dai gangsters; Grace scopre a sua volta che farsi accettare da Dogville è più difficile e penoso di quanto si potesse immaginare. Alla fine i gangsters arrivano a Dogville e Grace deve confrontarsi con il loro capo (una magnifica comparsata del grande vecchio James Caan). Non vi diciamo né chi è il capo, né come si risolve il conflitto nel quale Grace è incastrata. Sappiate solo che se il nome vi suggerisce qualcosa, avete ragione: come Selma in Dancer in the Dark, e come Bess in Le onde del destino, anche Grace è una puttana santa, una Maria Maddalena vittima della ferocia del mondo. Solo che Grace sa trasformarsi, nel finale, da agnello sacrificale a dea vendicativa. Il «come» vi è stato riferito da Cannes, ripetiamolo: la cittadina di Dogville è tutta costruita in studio, e consiste di 6-7 abitazioni le cui mura sono solo tracciate sul pavimento, come in una mappa. Solo alcuni elementi scenografici (una porta, un mobile, una finestra) suggeriscono la disposizione delle case, ma la convenzione fa sì che gli attori recitino fingendo di essere in un ambiente reale (per cui, se uno di loro bussa su un uscio che non esiste, si sente «toc toc» e l'altro attore dice «avanti»). In questo ambiente, oltre ai citati Kidman e Caan, si muovono grandi attori come Harriet Andersson, Lauren Bacall, Jean-Marc Barr, Paul Bettany, Philip Baker Hall. Alcuni dei quali (soprattutto Hall e la Bacall) decisamente sotto-utilizzati. La voce narrante, in originale, è di John Hurt. |
Sole 24 Ore (16/11/2003) Roberto Escobar |
Il perdono? É un'arroganza. Cosi assicura il Gangster (James Caan) a Grace (Nicole Kidman), nell'ultima sequenza di Dogville (Francia, 2003, 137'). Segue poi una motivazione complessa, di cui possono bearsi i molti estimatori di Lars von Trier. Quanto ai pochi scettici, dopo oltre due ore anche loro hanno un motivo di gratitudine nei confronti del regista danese. Il quale, appunto, ha provveduto da sé a tagliare 40 minuti dei 177 originali. Insomma, il mestiere dei recensore ha i suoi inconvenienti. Da spettatori, dopo qualche sequenza di Dogville si può mettere in atto con tranquilla dignità una delle strategie che più alleggeriscono la condizione umana: la desistenza. Da recensori, invece, si è obbligati al suo opposto: la resistenza (in platea). A tale scopo, può risultare d'aiuto ripassare a mente la presa di posizione "poetica" di von Trier, o almeno la sua più nuova. Quanto alla precedente - nota come Dogma, e il cui testo sacro pullulava di must, forbidden, not acceptable e truth -, pare che non se ne debba far più niente. Con tanti ringraziamenti e attestati di ben servito agli autori e ai critici che, entusiasti e come un sol uomo, dal 1995 a oggi l'han seguito lungo un vicolo cieco. Oggi, dunque, von Trier si fa apostata della propria stessa fede. Non più divieto di luci artificiali, non più divieto di filtri e trucchi ottici, non più dovere di cavar fuori la Verità da luoghi e personaggi. Niente più appelli alle virtù militari della disciplina (espressiva). Niente più "uniformi" in cui rinserrare i film. Niente più giuramenti di fedeltà ("I swear...", "Io giuro...", si leggeva nel testo fondativo di Dogma, che gli adepti eran chiamati a sottoscrivere con animo grato). Ora il Maestro - che i più sbarazzini tra i fedeli, forse non senza brividi, ardiscono chiamare Lars, per così dire en amitié - indica tutta un'altra via verso l'Essenza del Cinema. La quale Essenza pare stia, almeno fino a contrordine, nel la formula magica detta del cinema fusionale. Per spiegare alla buona: si prende un certo numero di macchine da presa le si mene su un palcoscenico e ci si aggiunge prosa letteraria quanto basta. La ricetta non lo precisa, ma pare sia consigliabile insaporire con l'aggiunta di divi e dive di sicuro richiamo, anche a maggior gloria della produzione. Naturalmente, ogni autore ha il diritto di teorizzare come meglio crede. E ha anche quello di sostenere emerite sciocchezze. Ma fine, quel che conta è la sua opera. Nel caso specifico, quel che conta è Dogville. Ossia: un pezzo mediamente furbo e mediamente superfluo, ma certo non originale, di teatro filmato. Gli estimatori aggiungono l'aggettivo brechtiano, che torna nei loro elogi con la stessa insistenza di crudele, atroce, magnifico. Gli scettici, invece, preferiscono lasciare Bertolt Brecht dove si trova, anche per rispetto d'un teatro che è stato grande. D'altra parte, si trattasse solo di teatro filmato, le due ore e più passerebbero senza troppi danni. Ma non c'è via di scampo: la ricetta impone l'aggiunta d'una voce narrante, che nel caso specifico non dà tregua agli orecchi, risultando ancora più petulante che letteraria. Torniamo ora al perdono e all'arroganza. Anzi, facciamo un passo indietro, come si leggeva una volta nei romanzoni popolari (questo è il film, in fondo: una specie di Cieca di Sorrento, ma "brechtiana"). Fatto il passo indietro, troviamo quella che ci assicurano sia la visione del mondo di von Trier: l'umanità è una sentina di malvagità con spiccata attitudine al tormento di fanciulle giovani e belle. Infatti, i bravi paesani di Dogville - che la regia ci mostra nelle loro case disegnate con il gesso, intenti a mimare con puntiglio l'apertura e la chiusura delle porte -, i bravi paesani, dunque, ne combinano di cotte e di crude sulla pelle (e tutto il resto) della povera Grace. Qui si vorrebbe aggiungere che, dato il nome (Grazia), qualcuno azzarda l'ipotesi che si tratti di un film quasi-cristiano. Ma persino il diritto alle idiozie ha un limite. Dunque, ci limitiamo a osservare che la povera Grace abbozza. Infatti, così ancora ci assicurano, von Trier ha una vera passione per le vittime che stanno al gioco. O almeno ce l'aveva fino a ieri. Oggi, con il cinema "fusionale", tutto cambia: la signorina smetterà d'essere arrogante e farà un bel massacro, bambini inclusi. Morale? Non si sa. Comunque - così ancora ci spiegano - si tratta d'un geniale "ribaltamento" della precedente poetica del Maestro. Sarà vero? Non sarà vero? Per quel che ci riguarda, alla fine di Dogville, alzandoci dalla poltrona ce l'abbiamo, una certezza, e anche arrogante: la prossima volta, invece, andremo al cinema. |
I link (torna su)
Sito ufficiale - http://www.medusa.it/dogville/ |