La critica - La tigre e il dragone


La Stampa (2/2/2001)
Lietta Tornabuoni

Corpi che volano, acrobazie, corse veloci e leggerissime, scontri all’arma bianca tra contendenti posati sulle cime degli alberi, inseguimenti e combattimenti sui tetti, persone proiettate nello spazio, calci, duelli accaniti, pugni, tuffi spettacolari, balzi altissimi: le coreografie di duellanti, le mirabolanti scene di arti marziali, le fughe senza peso, opera del mago di «The Matrix» Yuen Wo-Ping, sono così straordinarie che tutto il resto sembra scialbo, piatto, deludente. Eppure «La tigre e il dragone» di Ang Lee, gran successo americano, già premiato con due Golden Globes in attesa dell’Oscar, è il film che vuol sancire la fine della competizione tra cinema d’America e d’Asia, l’unione di tecnologia digitale occidentale e fantasy ginnica orientale, l’accordo possibile fra le due culture e i due modi tradizionali di commercio. Il grande sostegno, la pubblicità dilatata offerti al film negli Stati Uniti sono dovuti anche a questo. Invece di eroi, eroine: nobili duellanti femminili d’una bravura che non può stupire gli spettatori della fantasy prodotta da Sam Raimi per la televisione («Xena, principessa guerriera») ma che resta stupefacente e insieme incantevole. Una spada perfetta, quasi magica, sottratta, recuperata, smarrita, ritrovata, contesa. Un amore mai dichiarato. Un altro amore, vissuto in un deserto simile ai deserti western tra una ragazzina combattente aristocratica e il giovane bandito Nuvola Nera. Anche un poco di filosofia o di mistica, se le arti marziali servono a oltrepassare i propri limiti, a sormontare ogni ostacolo, a ricercare il nulla e il vuoto in cui rinascono la forza interiore e l’energia capaci di donare potere e saggezza, di placare le tensioni, di realizzare l’armonia dei contrari. Niente realismo nè verosimiglianza: emozioni, sogno, fantasia, nostalgia di vecchie storie d’avventura o di vecchi romanzi di cappa e spada dell’infanzia, un po’ di New Age, un po’ di buddhismo, desideri di perfezione. Il tempo è quello terminale della dinastia Ching, all’inizio dell’Ottocento. Il film è tratto da un romanzo-fiume di Wang Du Lu. Il titolo (nell’originale, «La tigre in agguato e il drago nascosto») allude a un proverbio antico usato per definire eroi e leggende occulti, occasioni in cui nulla è come appare. Gli attori famosi, più celebri sul mercato cinese che altrove, sono bravissimi. Ang Lee, 45 anni, nato a Taiwan e operante in America, ha ottenuto i primi successi di regista («Il banchetto dinozze», « Mangiare bere uomo donna») con storie di cinesi, per passare poi all’Occidente con un romanzo di Jane Austen sceneggiato da Emma Thompson («Ragione e sentimento»), con un romanzo di moralità borghese di Rick Moody («Tempesta di ghiaccio»). Ne «La tigre e il dragone» fugge nella Cina storica: è un bravo professionista, non un vero talento e tanto meno un genio.



Corriere della Sera (3/2/2001)
Tullio Kezich

Ariostesco. È il primo aggettivo che viene in mente di fronte al film osannato dalla critica americana, vincitore di un Golden Globe e gran favorito nella corsa all'Oscar del miglior film straniero. Sta a vedere che Dino De Laurentiis l'ha indovinata un'altra volta commissionando a Suso e Masolino d'Amico la sceneggiatura di un imminente «Orlando furioso»; tanto che il produttore farebbe bene ad assicurarsi fin d'ora la collaborazione dell'esperto Yuen Wo Ping. Con l'ausilio d'intrepidi cascatori e il rinforzo degli effetti speciali, l'ormai celebre maestro d'armi ha infatti organizzato per il film cinese un'ininterrotta serie di combattimenti nei quali i duellanti letteralmente volano come nelle favole al suono di esotiche percussioni. Tratto dai romanzi di Wang Du Lu, popolarissimi da quelle parti, La tigre e il dragone sciorina avventure intorno a una spada quasi magica, con paladini in crisi, donne guerriere e streghe assatanate. A seguire le vicende si perde il filo anche perché i cinesi si assomigliano tanto da confondere eroi e cattivi, e l'espressività si articola su una gamma estranea alle nostre abitudini. L'insieme, pur suggestivo mi è parso manieristico. Rientra infatti nei canoni di un genere chiamato, wuxia, avventure di guerrieri dell'epoca di Confucio abilissimi nelle arti marziali, e che qualcuno assimila ai pistoleri del western americano. Però il regista Ang Lee non è John Ford. Ariostesco La tigre e il dragone, ma senza poesia né vero incantamento



Film TV (6/2/2001)
Mauro Gervasini

In un'epoca sospesa tra mito e storia (il medioevo cinese) un filosofo spadaccino, una giovane discepola ribelle e una saggia guerriera intrecciano i loro destini. Eroi e eroine del wu xia pian, il cappa e spada orientale rivisitato con rigore filologico e fiabesco da un regista di Taiwan, Ang Lee, da venticinque anni emigrato in America. Fosse un film western, potremmo considerare "La tigre e il dragone" come (già) classico. In occidente critica e pubblico si entusiasmano per una novità che sugli schermi di Pechino e Hong Kong scorre da oltre trent'anni. Ang Lee non è Tsui Hark e "La tigre e il dragone" non è bello come "The Blade" (recuperatelo in cassetta, IIF Home Video). Tuttavia siamo di fronte ad un'opera preziosa. Perché coinvolge in uno messa in scena emozionante capace di coniugare poesia e violenza, armonia e bellezza, secondo una coreografia di immagini tipico del genere. Inoltre vale come punta dell'iceberg: un eventuale Oscar (su cui si vocifera con insistenza) e il grande successo in America, potrebbero favorire la distribuzione di capolavori sommersi. "La tigre e il dragone" è dunque un "altrove" cinematografico: un mondo nuovo dove i personaggi volano restando verosimili, e dove la magia è parte delle cose. Il combattimento sui bambù, chiaro omaggio al cult del filone "Touch of Zen" di King Hu, merita da solo qualunque premio.



Sette (1/2/2001)
Claudio Carabba

Alcuni secoli la viveva in Cina un grande guerriero che, stanco delle troppe battaglie, decise di deporre la sua leggendaria spada (chiamata Destino) e di dedicarsi alla meditazione. Ma l'amore no, quello (ancorché impossibile) non riuscì a dimenticarlo. Così, fu proprio l'intrepida ragazza, che ricambiava la casta passione, a riprendere la lotta contro le forze del Male, impugnando l’arma fatata. Fra duelli volanti e ardite acrobazie, l'eclettico cinese-americano Ang Lee costruisce con La tigre e il dragone un film-favola affascinante, curando bene i dettagli. Gli attori sono i più ruggenti divi (o belle dive) della scuola di Hong Kong. Le coreografie da combattimento sono curate da Wo-Ping, uno dei maghi di Matrix. E al di là del clamoroso successo (miliardi, Globe, probabili Oscar), è importante la ricerca di questo autore spericolato che cambiando genere e stile cerca sempre l'identità dell'uomo.



Ciak (1/3/2001)
Stefano Lusardi

Per noi, oggi, una spada é una spada. E Destino Verde, la preziosa spada di Chow Yun-Fat non é altro che un hitchcockiano mcguffin, un pretesto per l'avventura. Per gli orientali, al contrario, la spada ha una valenza simbolica, é uno strumento d'evoluzione spirituale. Il primo merito di La tigre e il dragone é perciò culturale: mette in contatto due universi differenti, aprendo l'Occidente alla conoscenza di quello che, letteralmente, é un altro mondo. Ma Ang Lee, anche se rispetta tutte le convenzioni narrative di un genere - compresa la "frattura" del lungo flashback romantico nel deserto - non compie un'operazione semplicemente filologica. Raffredda il materiale e lo intellettualizza, confermando il suo stile personale (vedi il "grande freddo" di Tempesta di ghiaccio o il western rarefatto di Cavalcando col diavolo). Trasformando così Il suo film in qualcosa dl allusivo e universale: l'inconciliabilità fra innocenza (dello sguardo, della mente) e disincanto, fra giovinezza e maturità. Non é un caso che la protagonista sia la giovane Jen (Zhang Zlyl), personaggio non risolto e dalle pulsioni contraddittorie, o che il regista rifiuti la perfezione tecnica a favore di effetti speciali primitivi e svelati (nel combattimento fra gli alberi di bambù é importante che "si vedano" i fili che muovono i guerrieri-marionette) e soprattutto che le due scene migliori siano opposte e speculari: Il combattimento iniziale, fuga liberatoria dalla forza di gravità e la morte dell'eroe, che é invece la caduta e il frantumarsi di ogni utopia, non a caso il momento più caldo e romantico del film. Come a dire, con consapevole struggimento, che il prezzo che bisogna comunque pagare (vale per un successo da dieci nomination come per la nostra vita) é la perdita dell'innocenza.



Il Giorno (3/2/2001)
Silvio Danese

Combattimenti all'ultima lama, corpi che volano, passioni liriche da cineseria melò. Quasi un musical. Da molti anni Ang Lee, taiwanese, arguto immigrato di Hollywood ("Ragione e sentimento") voleva tentare un colossal di arti marziali dai romanzi "wuxia", saghe del "Meraviglioso" che ricordano a noi l'"Orlando Furioso". Al centro, la misteriosa figlia del governatore che conosce il segreto del furto della spada di un grande guerriero. Sola contro tutti, compirà il tradizionale sacrificio di agnizione. L'ultimo frutto della globalizzazione cinematografica, e della rapidità di contaminazione delle culture. Sta all'originale e invisibile "The Blade", del maestro Tsui Hark, come "L'ultimo imperatore" di Bertolucci a "Kagemusha" di Kurosawa. Come le automobili di Tucker: per renderle vendibili è stato indispensabile ridurle nel sistema della grande industria. La condotta eroica dei combattenti, elevati (anche fisicamente) dal Tao, era già nel film di Hark, come la celebrata partitura al femminile tradizionalmente riservata ai maschi. Si astengano gli illuministi.