La critica |
La Stampa (19/1/2002) Lietta Tornabuoni |
Il mondo degli emigrati dall´Europa dell´Est nella Svizzera francese. Una storia d´amore tra fratellastri, una donna e un uomo nati dallo stesso padre che vivono senza turbamenti la passione: «Al tempo dei Faraoni si pensava che il matrimonio migliore fosse tra fratello e sorella...». Il pensiero tormentoso d´aver ucciso il padre. La «corsa idiota», ripetitiva e infelice, della vita quotidiana. Un film drammatico diretto da Silvio Soldini dopo la commedia giocosa «Pane e tulipani» (gran successo, venduto in tutto il mondo, in programmazione da oltre sei mesi negli Stati Uniti, premiato anche con nove David di Donatello e cinque Nastri d´argento). Il primo film di Soldini che non nasca da una storia originale ma sia tratto da un romanzo, «Ieri» di Agota Kristof; che sia interpretato da tutti attori stranieri, céchi a volte emigrati in Francia. La fotografia meravigliosa, ricca di semplicità, forza e raffinatezza, di Luca Bigazzi. «Brucio nel vento» è un film letterario come il suo titolo, e insieme realistico. Il vento dell´inquietudine percorre la difficile storia d´amore: lui è operaio, scrive e vuol essere scrittore, lei è laureata e costretta al lavoro in fabbrica; lui è alla ricerca della donna ideale, lei è sposata male e madre d´una bambina; lui è figlio della bella prostituta e del maestro d´un villaggio, lei è figlia dello stesso maestro e della moglie di lui, sono stati da piccoli a scuola insieme; balenano nelle loro storie un parricidio incompiuto, un accoltellamento senza morte del marito, lame lucenti insanguinate, rimorsi cancerosi. Il film bello comincia con la solitudine di lui nel gelo svizzero (La Chaux-de-Fonds, zona di fabbriche d´orologi), si conclude con la nuova piccola famiglia amorosa (lei, lui, la bambina) che viaggia in treno nel sole e lungo il mare verso un altro Paese dove tutto ricomincerà in un´altra lingua: come per dire che l´amore vince tutto, che l´amore può essere più forte anche dell´esistenza desolata. Eppure è proprio la brutta vita quotidiana la cosa bellissima del film: alzarsi alle cinque del mattino, nella semioscurità prendere l´autobus dove il sonno folgora di colpo, arrivare alla fabbrica di semilavorati per orologeria, fare lo stesso buco ogni giorno per anni, fare l´amore senza amore una volta alla settimana, tentare di scrivere, sognare una tazza coperta di formiche rosse, una tigre che comanda di suonare il pianoforte, uccelli addensati sulla cima degli alberi. L´intensità del racconto su questo tema raggiunge un´ammirevole maestria. |
Corriere della Sera (19/1/2002) Maurizio Porro |
Un’ossessione d’amore, il sogno di un affetto e di una famiglia insegue tutta la vita Tobias, nato in un villaggio senza nome in un paese senza importanza, segnato da un’infanzia «colpevole» (ha accoltellato l’amante della madre prostituta), operaio straniero dell’Est che svolge in suolo svizzero la «corsa idiota» della vita. Il nuovo, bellissimo film di Silvio Soldini Brucio nel vento dopo un folgorante inizio in digitale in cui caschiamo dentro l’incubo del protagonista, ci porta dentro la sua angoscia esistenziale e sociale, così come il film si altalena tra le cupezze di un disadorno realismo e la voglia di affetti fantastici. Il riferimento è «Il grido» di Antonioni, con la figura di un uomo che il lavoro rende estraneo anche a se stesso ma che in un mondo straniero offre un non corrisposto amore. Venato da una patologica vena sentimentale che finisce in un imprevisto lieto fine, il film è la riprova che Soldini sa riprendere anche gli stati d’animo. Tobias, dopo un’infanzia tragica attende da sempre di incontrare la sua metà, la compagna di scuola Line, oggetto di una passione incestuosa (è la sorellastra) che comunque si realizzerà, anche se la donna si ritrova moglie, madre. Dando così un segno positivo al lungo racconto di Agota Kristof «Ieri» (Einaudi) cui si è ispirato, il regista conferma la vitalità espressa in «Pane e tulipani» senza tradire il suo cinema sugli sconfitti dalla vita. Alle prese col Cinemascope e il primo eroe maschile (il nuovo e meraviglioso attore Ivan Franek), Soldini brucia un frenato melodramma che ci invita a mettere in gioco tutte le nostre regole sentimentali. |
Film TV (29/1/2002) Enrico Magrelli |
«Oggi ricomincio la corsa idiota» Dice Tobias ad alta voce e scrive, con una matita, i suoi pensieri sullo schermo nero usato come un diario, un quaderno. La scrittura (letteraria e cinematografica) come deposito del desiderio di un’altra vita: fare lo scrittore, essere altrove, essere un altro, aspettare una donna sconosciuta e irreale, staccarsi dalla macchina con cui fabbrica pezzi da assemblare in orologi tutti uguali, avere un altro passato e un’altra memoria, smetterla di camminare sulla corda tesa, non protetta da una rete, di due lingue, quella natale e quella acquisita, di due identità, di un’estraneità più angosciosa di quella imposta dalla condizione di immigrato. La sua anima è divisa in tanti frammenti, nel vento, nel gelo, nella solitudine, nei pensieri di un inverno svizzero. Straniero a se stesso e al paese che lo ospita, fotografato con i colori e descritto con inquadrature che sottolineano la continuità figurativa con le luci velate dell'Est dal quale Tobias è fuggito convinto di aver ucciso il padre, uno dei clienti della madre, la mendicante e la puttana del villaggio senza nome dove tutto è cominciato. Il duro melodramma raccontato da Agota Kristof nel suo romanzo "Ieri" è il territorio emotivo e geografico sul quale Silvio Soldini raccorda la sua poetica d'autore, "L'aria serena dell'Ovest" e "Le acrobate", e l'esplorazione, nella commedia esistenziale di "Pane e tulipani". Le rinunce, le frustrazioni, le pene e l'infelicità del melodramma sono, naturalmente, più avvolgenti e strazianti di altre tonalità più lievi, nonostante un finale più luminoso e più caldo (da Oriente a Occidente e poi al Sud) di quello del romanzo. Gli attori scelti dal regista (Ivan Franek e Barbara Lukesova) sono perfetti nel far vibrare e "bruciare" una tristezza e un’inquietudine irreperibili. Il film riesce ad essere denso ed intenso con momenti molto belli, anche se certi riavvolgimenti della storia su se stessa e alcune scene in cui si torna, senza una vera necessità, su personaggi e su passaggi narrativi secondari, affievolisce la veemenza della passione. D'amore e di racconto. |
la Repubblica (20/1/2002) Roberto Nepoti |
Si è parlato molto, la scorsa stagione, di rinascita italiana, quando il talento consolidato di Nanni Moretti e quello emergente di Gabriele Muccino hanno fatto sperare in una nuova fioritura del nostro cinema. Poi lo sboccio con la parziale delusione di Venezia è parso frenato. Però la rinascita c'è. Lo dimostra una produzione coraggiosa e difficile come Brucio nel vento, film forse non perfetto ma bello, intenso e struggente diretto da Silvio Soldini. La storia, adattata dal breve romanzo di Agota Kristof "Ieri", è incentrata su un fantasma d'amore; ennesima riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che le storie migliori sono quelle che raccontano un'ossessione. Figlio di una giovane prostituta di villaggio, Tobias fugge all'Ovest dopo avere accoltellato l'amante della madre. Non vi trova un'aria serena, ma un triste lavoro alla catena di montaggio, una vita grama tra altri emigrati alle prese con la povertà e le umiliazione quotidiane. Tobias, invece, vuole scrivere e amare: amare Line, che ha conosciuto da bambino e cerca in tutte le donne che incontra. Un giorno giunge in Svizzera, nella fabbrica in cui lavora il giovane, proprio Line. E' sposata, ha una bambina, è sorella di Tobias per via paterna; nessun ostacolo, però, sembra insormontabile al visionario innamorato. Brucio nel vento è il film migliore di Soldini, nettamente superiore al celebrato Pane e tulipani. Per gradi, il regista installa un'atmosfera di squallore poetico quanto mai suggestiva e contagiosa, facendoti sposare la pazzia d'amore di un personaggio che all'inizio appare bizzarro, poi si conquista la tua solidarietà e il tuo affetto. Lui soprattutto e il carisma dell'interprete Ivan Franek non ha una parte secondaria in ciò ma anche la trepida Line, il patetico Janek, affamato di patate e di contatti umani, e altri caratteri di contorno. Nella colonna delle cose meno riuscite vanno iscritte l'improvvisa accelerazione degli eventi (e del ritmo cinematografico) nell'ultima parte, le allucinazioni di Tobias, il commento musicale un po' troppo straziante di Giovanni Venosta. Però il bilancio è largamente in attivo; c'è da restare sorpresi, anzi, per la qualità del risultato a fronte di problemi, estetici e produttivi, di cui è intuibile la complessità. Ottimo il doppiaggio di Fabrizio Gifuni e Licia Maglietta; anche se gli spettatori più sofisticati non vorranno perdersi l'edizione originale con sottotitoli. |
Sette (31/1/2002) Claudio Carabba |
Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato...». Parte alla grande, Brucio nel vento, il nuovo film di Silvio Soldini, seguendo la voce del protagonista e il filo angoscioso proposto dal racconto ispiratore (Ieri di Agata Kristof). Fuori, nella campagna d'intorno, non ci sono pane e tulipani, ma prati ghiacciati e foglie morte, lo specchio desolato di una vita vissuta a onde corte. Ed é questo (la noia quotidiana; l'illusione di cambiare la vita con un guizzo da acrobata) il tema dominante del cinema lirico di Soldini. Qui il regista dà il suo meglio con uno sguardo audace e duro. Il suo punto debole é però l'incapacità di credere sino in fondo agli intrecci drammatici. E davanti al materiale della Kristof, pieno di sangue versato, incesti e amori impossibili e terribili castighi, Soldini si smarrisce, sbagliando molto, a cominciare dagli interpreti eccessivi o inespressivi. L'epilogo è vanamente lieto. Dopo il gelo svizzero, il sole spagnolo che avvolge i protagonisti ha una luce artificiale e straniera, che non scalda. |
l'Unità (18/1/2002) Dario Zonta |
Brucio nel vento poteva essere il più bel film europeo della stagione. Ha mancato questo appuntamento. Brucio nel vento é il più bel film italiano della stagione. Ma non è un film italiano. Entro questo paradosso si muove l'ultima opera del regista milanese Silvio Soldini. Vediamo perché. Brucio nel vento è tratto dal romanzo (meglio definirlo racconto lungo) Ieri della scrittrice ceca Agota Kristof conosciuta ai più per l'opera Bambini della città di K. In uno stile scarnato, quasi disossato (a eccezione di lirici voli pindarici che trasformano il pensiero del protagonista in assunzioni di poesie), la Kristof mette in righe un vero e proprio melodramma, nella sua accezione principale di scontro con e del destino, affidato alle intemperanze solipsistiche di un giovane uomo, che si chiude al mondo, che decide volontariamente, soggiogato dal destino, di ritirarsi entro le fragili mura della sua mente per perseguire, con ostentata maniacalità, un'ossessione amorosa, un'ancora di salvataggio a cui si aggrappa per difendersi dall'orrore della vita quotidiana, e con cui affonda immergendosi nel baratro di una vita comune. La sua ossessione è l'immagine-sogno di una donna, Line, una visione del passato. Una bambina conosciuta sui banchi di scuola della natia Cecoslovacchia, che presto prenderà le forme di una donna incontrata quindici anni dopo nella fredda e grigia Svizzera che ha ridotto questi stranieri-operai, immigrati dai frantumi della Stoffa, in fabbriche di orologi. Le radici profonde dell'ossessione stringono i due amanti in un vincolo di sangue: lo stesso padre, un maestro di campagna ammaliato dalle arti amatorie della prostituta del villaggio. Il piccolo bambino Tobias attenta alla vita del padre fuggendo nei boschi alla volta di una nuova vita tra i comignoli svizzeri. Una vita di solitudine stregata dal ricordo del passato. Il delitto, mancato, non viene punito e l'incontro tardivo con la sua Line, ora sposata e con un figlio, riannoda i fili di una storia pensata conclusa e rinata tragica. Fin qua il libro che assume tutti i caratteri di un melodramma anarcoide e che tratteggia i contorni di un giovane, a metà tra Raskolnikov e Werther, che rifiuta la Storia e la Realtà in favore di un individualismo, appunto anarchico e onirico. Soldini ricalca il film sullo stampo preciso del libro, e lo fa con mano decisamente felice sia nella realizzazione dei dialoghi che nella trasfigurazione in immagini, cosa che eleva il film in un'opera di tutto rispetto. Ma, allo stesso tempo, trasforma il melodramma in storia d'amore e l'assunto anarchico (delitto senza castigo, individuo contro società) in strategia dell'evasione, fuga che ha contraddistinto le sue ultime opere Le acrobate e Pani e tulipani. L'ossessione impossibile diventa amore realizzato in un dolce finale, l'unica cosa che differisce dal libro. Vedere per verificare. Il finale marittimo é in Italia, salvo doppiaggio che lo vuole spagnolo. Ma questa é l'unica cosa italiana del film. Il resto parla di Europa: attori, ambientazione, clima culturale ed estetico. Un'Europa, quella di Soldini, che teme l'emozione e il sentimento come forma vera di ribellione. |
Ciak (1/2/2002) Valerio Guslandi |
Le storie che Silvio Soldini racconta sono come treni nella notte. Attraversano il buio dell'anima cercando un traguardo da raggiungere. Spesso quest'anima è rimasta "divisa in due" - proprio come il titolo di un altro bel film di Soldini di qualche anno fa - irrisolta, tormentata. Poi, con il solare Pani e tulipani, ha conosciuto finalmente un approdo diverso, sereno, compiuto. Brucio nel vento (un bellissimo titolo, come sono sempre stati belli e poetici tutti i titoli dei film del regista milanese) ritrova accenti più drammatici e complessi, spazia ancora sotto un cielo quasi sempre cupo e grigio, specchio dei sentimenti e dei destino dei protagonista. É la storia di un amour fou, un amore impossibile e totale, di fronte al quale qualsiasi altro possibile "amore" è soltanto una pallida imitazione. Ed è ancora più estremo e impossibile perché il protagonista, Tobias (Ivan Franek) è innamorato sin da bambino di Line, che ha scoperto essere la sua sorellastra. Fuggito ancora piccolo dal suo paese natale dell'est nella grigia e indifferente Svizzera credendo di aver ucciso il vero padre, dopo anni senza emozioni e senza prospettive ritrova Line (Barbara Lukesovà), ormai cresciuta e sposata. E la passione esplode, sorda a qualsiasi richiamo della ragione. Ieri, il libro di Agota Kristof da cui è liberamente tratto il film, non concedeva domani a questa storia d'amore. Soldini invece, apre uno squarcio di luce, offre una prospettiva diversa ai protagonisti. Una scelta che conferma l'esigenza del regista di un approdo positivo, come per Pane e tulipani e che arriva un po' troppo improvvisa a chiudere il film. É l'unico, piccolo, "corto circuito" all'interno di una pellicola che dimostra la splendida maturità stilistica raggiunta da Soldini. La narrazione fluida, complessa e allo stesso tempo lieve le intrusioni oniriche, il taglio delle inquadrature (una menzione particolare alla superlativa fotografia di Luca Bigazzi) fanno uscire Brucio nel vento dai confini del cinema italiano. E in questa storia che sarebbe piaciuta a François Truffaut non vanno dimenticati gli inediti interpreti, specie l'ottimo Ivan Franek, che sa dare al sul Tobias fragilità, passione e lucida follia. |
il Giornale Nuovo (26/1/2002) Maurizio Cabona |
Storia d’emigrazione ed emarginazione, Brucio nel vento di Silvio Soldini è un bel film triste. Pazienza se il finale allegro contrasta coi presupposti: é una concessione commerciale degli sceneggiatori, Soldini stesso e Doriana Leondeff, impensieriti dal coerente, dunque amaro, finale del libro dell’ungherese Agota Kristof (Einaudi), da cui la vicenda è tratta.Brucio nel vento - titolo da marca di fiammiferi - non pare però destinato ad accrescere il pubblico di midinette che, dopo Pane e tulipani, reclamano da Soldini altre rivolte di casalinghe pescaresi. Per non deludere le loro attese, Soldini ha dunque escogitato quell’esito gradito dall’area femminile d’ogni età, censo e cultura. Che paga il biglietto per un sogno: la realtà l’ha già a casa. E l’emigrazione nei ricordi anche cinematografici: I magliari di Francesco Rosi (1959), La ragazza in vetrina di Luciano Emmer (1961) e Pane e cioccolata di Franco Brusati (1974) non avevano alcun bisogno di frugare all’Est per trovare vicende di esuli per miseria. Erano storie di italiani. Comunque Brucio nel vento è il film più maturo di Soldini. Mostra una Svizzera dura e adulta, da fabbrica e non da cartolina e ritrova due interpreti - Ivan Franek e Barbra Lukesova – all’altezza del memorabile Bruno Ganz di Pane e tulipani. La meticolosa esistenza - regolata da sveglie all’alba, giornate in fabbrica, sabati al circolo dopolavoristico denuncia l’alienazione senza cedere all’enfasi. Gli sconfitti; nella lotta per la sopravvivenza ne prendono atto pacatamente e si uccidono; solo chi non s’è ancora accorto di essere un vinto tira avanti, fra giorni uguali, mura grigie, capodanni di solitudine. La trama. Nel 1978 un giovane ceco (Ivan Franek), figlio di una vagabonda, passa in Svizzera dopo avere accoltellato il padre della coetanea che ama dall’infanzia, e che é anche suo padre. Passano dieci anni. Incapace di innamorarsi, l’emigrato si lega senza convinzione a una ragazza (Caroline Baehr), poi a un’avvocatessa (Cécile Pallas) locali, ma, anziché a naturalizzarsi, pensa a ricongiungersi con la coetanea sorellastra. Che un giorno arriva davvero, per caso, proprio nella stessa fabbrica dove lavora lui, presso La Chaux-de-Fonds. Ma lei (Barbra Lukesova) é già sposata con un ricercatore universitario e ha una bambina. L’operaio la corteggia, si fa riconoscere e occupa ogni spazio lasciato libero dal distratto marito. Sogna di accoltellarlo - é una mania - dopo avere affettato il lardo, ma è lei, più concreta, a farlo davvero... Franek è perfetto come ombroso innamorato, che abita in un appartamentino squallido e non gradisce visite diconnazionali perché gli fanno aumentare la depressione e perché deve scrivere un libro. La Lukesova è una credibile moglie, con quella dose di autodistruttività che hanno le slave in amore. Il cantone di Neûhatel, coi suoi autobus postali gialli, offre il desolante ma attendibile sfondo, autunnale anche in estate. |
Il Giorno (18/1/2002) Silvio Danese |
L'amore nel tormento dell'inappartenenza. Dal sorriso zingaro e italico di "Pane e tulipani" Soldini riprende (e non diciamo "torna", perchè è un passo avanti) l'amarezza dell'anima divisa in due: Tobias, fuggiasco da un'infanzia oppressa nella quale ha accoltellato il padre ed è rimasto folgorato dalla sorellastra, è un non riconciliato. Emigrato dall'Est in un anonimo paese svizzero, è diventato operaio per vivere e scrittore segreto per non morire, uomo nudo di quelli che "sappiamo solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", come scrive Montale. La luce è l'attesa di Line, la vagheggiata sorellastra che un giorno si presenta in fabbrica, amore incestuoso consumato nella metafora del ricongiungimento con la zona tronca e sanguinante del passato. Liberamente tratto dal romanzo "Hier" di Agota Kristof. Con la collaborazione del fedele Luca Bigazzi, Soldini raggiunge una vaga atmosfera neoromantica nordica che ricorda il "Lenz" di Buchner o i film tedeschi di Herzog. Almeno due i punti deboli: la stitichezza dell'incontro infantile con la sorellastra, su cui si regge la passione di Tobias, e il sogno omicida finale. In doppia versione (originale sottotitolata e doppiata per l'ottimo lavoro di Licia Maglietta, Gifuni e Battiston). Da vedere. |