gli animatori lo hanno visto così :         BENE

                                                            COSI’-COSI’

                                                            MALE

                                                

THIS MUST BE THE PLACE

 

 

DOM pom

DOM sera

MAR

MER

GIO

VEN

 

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roberta braccio

domenica pomeriggio

Un film dalle tante facce, This must the place e dalla tanta (troppa?) carne al fuoco, tutta cotta a puntino. C’è anche c’è tanta (troppa?) geometria, tanto (troppo?) cervello. Un’abbuffata che mi ha lasciato più stordita che appassionata. Alla base dello sconcerto c’è un inganno sottile: la nostra vecchia star non guarda il (Nuovo)mondo con gli occhi di un bambino, come invece si dice nel film, così come il regista - e allo stesso passo il nostro protagonista - non si affaccia per la prima volta all’America con gli occhi di un turista, come invece ha dichiarato più volte. Entrambi filtrano il teatro e relative comparse che hanno intorno con la ragione più che con il cuore. In questa costruzione perfetta si è persa l’emozione. Il percorso del nostro eroe, e su tutto la vendetta finale, è più una gara d’intelletto che la scoperta di una voglia di vivere con l’abbandono di un trolley pieno di rimorso e di noia. Un peccato non da poco trattandosi di un film che è soprattutto una ricerca di sè.

giulio martini

domenica sera

questa settimana Giulio è stato sostituito da carlo

angelo sabbadini

martedì sera

L’olocausto rock di Paolo Sorrentino piace ai visionari del Bazin. Convince l’azzardo del regista napoletano che, sequenza dopo sequenza, costruisce una storia impossibile che rischia di sbandare ad ogni svolta di sceneggiatura. Meno compatto rispetto agli altri film di Sorrentino This Must Be Place è una festa per gli occhi e per la memoria degli spettatori del cineclub che, ultimata la visione, possono abbandonarsi al piacere collettivo del decoupage.
carlo caspani mercoledì sera Sorrentino si leva tutte le voglie: d'America, di musica, di viaggio. Ma lo fa bene. Grande aiuto da Sean Penn (chi ha detto che è un attore cane?) e da un gran misto di cani, mogli vere e sorelle/madri/fratelli finti o ipotetici, padre morto ma presentissimo, fantasmi dell'Olocausto e con un finale criptico ma affascinante. La scena del concerto di Gabriel Byrne vale il biglietto. Hi yo I got plenty of time...

fabio de girolamo

giovedì sera

Per il suo film americano Sorrentino sceglie il road movie, uno dei classici generi americani, ma lo fa con piglio europeo, sulla scia di Antonioni e Wenders. Il viaggio, infatti, ha una meta ondivaga, che si definisce e si modifica strada facendo e si dirama in mille rivoli prima di giungere alla fine. Inoltre si definisce per Cheyenne come una fuga da se stesso, dal proprio impasse esistenziale e acquisisce inevitabilmente le cadenze della ricerca di se stesso (anche se il protagonista nega).
Il regista rende evidente lo straniamento di Cheyenne di fronte alle cose del mondo, un mondo dal quale si è isolato volontariamente per vent’anni, attraverso lo stile visionario che è diventato anche il suo marchio di fabbrica. Vi aggiunge poi un ulteriore percorso catartico che passa attraverso una revisione (seppur tardiva) dei rapporti col padre e il conseguente completamento del compito che lui aveva lasciato in sospeso.

 

giorgio brambilla

venerdì sera

L'ultimo film di Sorrentino inizia con Sean Penn che, davanti allo specchio, si mette la maschera che da trent'anni gli impedisce di crescere e che indossa a causa dell'interruzione del rapporto col padre, che gli ha bloccato lo sviluppo sull'età di quindici anni. Durante il suo viaggio recupera il senso della paternità (vedi la canzone col figli di Rachel), della figliolanza (la sua), del Male con la “M” maiuscola (Olocausto). Questo road movie di formazione di un cinquantenne ce lo mostra poi alla fine, semplicemente adulto e se stesso. Non c'è un'inquadratura o un movimento di macchina scontato in tutto il film. Nessun episodio è banale, tragico o tenerissimo che sia, spesso surreale. Sean Penn ci regala un personaggio incredibile. Questa massa di elementi geniali finisce però quasi per stancare, perché la storia fatica a dare coesione a tutto questo materiale, per cui si passa di trovata geniale in trovata geniale per semplice accostamento, più che per necessità narrativa interna. Comunque trovarsi di fronte ad un regista che conosce tutte le potenzialità del cinema e le usa per stupire sempre lo spettatore è un piacere che fa perdonare molti peccati
     
marco massara fuori classifica Il plot di ‘This must be the place’ si può raccontare nelle canoniche 25 parole, facendo contento il John Houston di ‘the player’. Il portentoso è che questo semplice intreccio si arricchisce di stratificazioni, visioni e riverberi di tantissimo bel cinema; strizzate d’occhio evidenti al Wenders di ‘Paris,Texas ‘(non solo per via dell’attore che interpreta l’inventore del trolley) e al Lynch di ‘Una storia semplice’ (grazie John Deer !).Si esce soddisfatti e senza il trolley di tanto cinema banale a cui qualcuno vuole abituarci.