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C'è ancora domani
 

da domenica 28 aprile a  venerdì3 maggio 2024

 

C'E'  ANCORA  DOMANI

REGIA DI PAOLA CORTELLESI

REGIA: Paola Cortellesi

SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Paola Cortellesi

FOTOGRAFIA: Davide Leone  -  Montaggio: Valentina Mariani -- Musiche: Lele Marchitelli

INTERPRETI: Paola Cortellesi (Delia), Valerio Mastandrea (Ivano), Romana Maggiora Vergano (Marcella), Emanuela Fanelli (Marisa), Giorgio Colangeli (Ottorino), Vinicio Marchioni (Nino), Francesco Centorame (Giulio), Lele Vannoli (Alvaro), Paola Tiziana Cruciani (Sora Franca), Yonv Joseph (William), Alessia Barela (Orietta), Federico Tocci (Mario), Priscilla Micol Marino (Sora Giovanna), Maria Chiara Orti (Sora Rosa), Mattia Baldo (Sergio), Gianmarco Filippini (Franchino)

DURATA: 118'

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“Il tono è divulgativo, pensato per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma questo non va a scapito della sua vocazione autoriale, che è manifesta in scelte molto precise di colore (il film è girato nel bianco e nero della cinematografia d'epoca con grande attenzione filologica del direttore della fotografia Davide Leone) di formato (che cambia lungo il corso della narrazione), di commento musicale (…) L'aspetto più sorprendente del film è che, di fatto, è un horror, ma raccontato attraverso il filtro gentile della sensibilità di Paola Cortellesi, nel suo stile riconoscibilmente "leggero" che riassume ciò che abbiamo finora appreso di lei: la capacità di parlare di cose serissime rendendole appetibili, il rispetto della propria e altrui dignità. (…) C'è ancora domani contiene nel titolo una speranza, ma anche un monito importante: perché ci ricorda che le conquiste femminili sono avvenute appena ieri, e perché riporterà istantaneamente alla memoria di tutti, e soprattutto di tutte, almeno un episodio in cui la propria mamma, nonna, bisnonna sono state zittite, o è stato loro impedito di percorrere la propria strada in piena autonomia decisionale. Cortellesi ci rammenta che da questo veniamo, che fa parte del nostro passato recente, e che purtroppo succede ancora perché per chi stava dalla parte dominante del "si è sempre fatto così" reagisce al cambiamento e con la stessa violenza di allora.”

(Paola Casella da mymovies.it)

 

 

“Scritto con grande cura nelle caratterizzazioni e nella scansione degli eventi, il film non si accontenta del bozzetto storico attraverso un bianco e nero che evoca all’istante il neorealismo, ma prova anche a dire qualche cosa sulla condizione femminile che non sia scontato o retorico. Quella di Delia è la storia di una donna che reagisce a modo suo, come può e come riesce, a una vita ingiusta e che prova a riconquistare una dignità che le è stata portata via senza che quasi se ne rendesse conto. Per dare concretezza al suo sentire la Cortellesi regista sperimenta, giocando con i formati, dando ampio spazio alle scelte musicali che assumono valenza narrativa, trasformando con coraggio, e non senza stridere, alcune sequenze in audaci balletti (…). Non opta, come era più scontato, per il dramma a senso unico, ma trova uno stile personale in cui la tristezza evocata si bilancia con la capacità di sdrammatizzare. Tutto ciò fa passare in secondo piano alcuni dialoghi a uso e consumo dello spettatore (…), alcune approssimazioni (…) e mette anche a tacere un interrogativo che si fa subito strada: ma siamo ancora lì, in quell’Italia in bianco e nero tra le macerie che piace tanto agli americani? La risposta è nel retaggio culturale ancorato al patriarcato che ispira ancora troppo spesso il nostro agire. Ben venga, quindi, un cinema che con sensibilità e senza piegare la forma suadente al messaggio - che arriva perché è naturale evoluzione del racconto e non perché spiegato dai personaggi - ci ricorda quello che era, che in parte è ancora e che invece potrebbe essere.”

(Luca Baroncini da spietati.it)

 

 

C’è ancora domani è un film buffo, drammatico, a tratti sorprendente. Ha la sfrontatezza, il coraggio e l’incoscienza dell’opera prima. Le donne laboriose e vitali che Paola Cortellesi mette in scena sono tante ed eterogenee (…) Sono tutte donne che, mute, pazienti e rinunciatarie, hanno fatto l’Italia, hanno sperato un futuro migliore per i propri figli, hanno scelto senza saperlo (e quasi senza volerlo) di diventare protagoniste della Storia, di uscire dal cono d’ombra dell’anonimato (…) ma non è un film storico in senso stretto (per quanto faccia i conti con quella porzione di storia), non pretende la verosimiglianza tout court né si affida al rigore vibrante neorealista. È sì minuzioso nel restituire gli echi di un tempo e un clima oppressivo, ma anche lieve e ironico nel trattare gli aspetti più cupi e meno distensivi. (…) È cinema popolare e intelligente che conosce l’intonazione giusta e sa quale corda emozionale sfiorare per irretire, coinvolgere, intrattenere. I movimenti di macchina sono morbidi e circolari, oppure nervosi e febbrili a seconda degli stati d’animo e degli affanni di Delia. (…) Il film è corale, pieno di afflato e respiro, e gli si perdona, per eccesso di entusiasmo, qualche momento sopra le righe e non perfettamente a fuoco.”

(Mario Tudisco da spietati.it)

 

 

“Una lettera misteriosa. Il mittente sembra sconosciuto. Cosa c’è scritto? E soprattutto, chi l’ha mandata? Nel corso di C’è ancora domani quella lettera diventerà un dettaglio fondamentale. E forse già da quel dettaglio parte il primo omaggio del film al cinema italiano degli anni ’30 e ’40, tra l’evasione cameriniana dei ‘telefoni bianchi’ al Neorealismo con l’immagine della famiglia numerosa che vive in un seminterrato, le scritte sui muri di una Roma post-bellica (“Abbasso i Savoia, Viva la Repubblica”), la fila davanti all’alimentari per comprare la pasta e la presenza ancora di qualche camionetta degli americani in città. (…) Il primo film da regista di Paola Cortellesi è più che convincente proprio per come ricostruisce nel dettaglio l’atmosfera dell’Italia del dopoguerra sottolineata dal bianco e nero della fotografia di Davide Leone (…) C’è ancora domani è un film che ha un sorprendente equilibrio perché non vuole farsi piacere a tutti i costi. Quello che conta prima di tutto è la voglia di raccontare una storia che chissà da quanto tempo Cortellesi aveva in testa.”

(Simone Emiliani da sentieriselvaggi.it)

 

 

“Funziona tutto nel suo film, in primis il cast in stato di grazia (…) riesce nell'impresa impossibile di risultare sia divertente che commovente per motivi e passaggi narrativi che ci guardiamo bene dallo svelarvi. Paola Cortellesi mette tutta la sua bravura, la sua sensibilità e il suo spessore di attrice al servizio di un personaggio di quelli memorabili, mostrando rara padronanza nel tenere insieme i sentimenti più contrastanti, dalla rabbia per le violenze e l'ingiustizia secolare di trattamento subito da intere generazioni di donne, alla poesia del sentimento platonico e del sogno, dall'umorismo fine e dissacrante (si ride anche della morte) alla potenza di fuoco del senso civico alla base di un sistema valoriale semplice ma integro che Cortellesi intende rievocare e ricordare a chi guarda. E ci riesce, creando quel senso di immedesimazione e appartenenza in chi guarda tipico soltanto dei grandi film.”

(Claudia Catalli da wired.it)

 

 

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Emily
 

da domenica 21 a  venerdì26 aprile 2024

 

EMILY

FRANCES O'CONNOR

 

 

“Le tre sorelle Brontë - Charlotte, Emily e Anne - vivono a Haworth, comunità isolata dello Yorkshire, sotto l'egida del padre, un reverendo protestante severo e autoritario, e insieme al fratello Branwell, allegro e scapestrato. Charlotte ha accantonato il suo talento naturale per la scrittura per diventare insegnante e ad Emily è riservato lo stesso destino socialmente accettabile: ma Emily è troppo "strana" e viene rimandata a casa dopo essersi dimostrata poco incline a relazionarsi con il mondo "normale". L'arrivo nella parrocchia di Haworth di un nuovo pastore, William Wieghtman, sconvolgerà ulteriormente gli equilibri domestici: Emily ne avverte la pericolosità ma è attratta dal giovane uomo che, a sua volta, riconosce l'unicità di quella che diventerà l'autrice del capolavoro Cime tempestose, che Charlotte (a sua volta destinata a firmare un altro capolavoro, Jane Eyre), descriverà come "un libro pieno di gente egoista che pensa soltanto a se stessa". (…) O'Connor si muove agilmente fra impostazione drammaturgica classica e suggestioni contemporanee, riuscendo a dare un'impronta personale al racconto, e facendo leva su due attori particolarmente convincenti: l'anglo-francese Emma Mackey e che finalmente trova qui un ruolo da protagonista assoluta (peccato che il suo volto sia eccessivamente moderno per incarnare una donna dell'Ottocento), e Fionn Whiteheadche riesce a cogliere tutte le sfumature di un personaggio complesso come Branwell Brontë. Molto efficace nel ruolo del patriarca Brontë anche Adrian Dunbar, attivissimo negli anni Ottanta e poi quasi scomparso dal grande schermo.

Quel che manca a Emily è una maggiore sicurezza nel compiere scelte narrative radicali, evidente ad esempio nei molteplici finali. La sensibilità e l'intelligenza di O'Connor risultano comunque evidenti, avrebbero solo bisogno di una spinta ad osare ancora di più, e a permettere ai suoi personaggi di uscire definitivamente dalla composizione oleografica ed entrare a gamba tesa in questa storia di originalità e talento femminili confinati ai margini di un'epoca perbenista e patriarcale.”

Paola Casella da mymovies.it

“È considerata “strana” e non riesce a trovare un posto nella società grigia e ottocentesca dello Yorkshire. Il suo talento, il mestiere di scrivere, vive nel baule nascosto nella sua stanza. Le lande accolgono la sua immaginazione, nutrendola e colmandola di pensieri e conversazioni che, tra le mura di casa, sono proibite. La vita familiare di Emily Brontë è tutto ciò che potremmo aspettarci dai costumi dell’epoca.

Una giovane donna può insegnare, altrimenti deve cucinare, pulire, rammendare e andare in Chiesa: non ha diritto ad avere una propria opinione. Emily rifiuta questo stato delle cose, permettendosi di pronunciare quesiti che mettono in dubbio Dio, la fede e i ruoli sociali. La sua voce, così come la sua penna, è libera dell’oppressione alla quale vorrebbero ridurla.

Dedicato alle nuove generazioni, Emily è un sogno nella vita di una delle voci più significative della letteratura gotica dell’Ottocento; un sogno fatto di tante piccole realtà. Nel microcosmo nel quale vive infelicemente, l’unica via di fuga dell’autrice è l’immaginazione; slancio che le permette di correre tra le lande in compagnia di un cavaliere, un capitano, o chiunque la sua voce riesca ad evocare, con parole sempre misurate, calibrate a seconda del ruolo che mette in scena, tra sé e sé, nel silenzio della natura. Emma Mackey regala un’interpretazione fatta di sguardi, allibiti e tormentati ma anche divertiti, davanti al mistero della creazione a cui riesce ad abbandonarsi. Sono infatti dei primi piani studiati, all’insegna delle ombre, che permettono di entrare in contatto con questo personaggio, misterioso e sognante – inafferrabile, lontano da tutti e da tutto. Ribelle come lei è il fratello, Branwell, che la introdurrà all’oppio, ulteriore stimolo per la creatività alla quale sogna di abbandonarsi completamente. Insieme, nella notte, fratello e sorella spiano i vicini, i Lintons, riuniti attorno al camino acceso in un tipico salotto inglese dell’Ottocento. Per tanti versi l’amato Heathcliff vive dei tratti del fratello, condannato ad un’umiliazione plateale, sempre incompreso.

Gelosie e rivalità popolano la casa Brontë, come spettri tormentati. Tra maschere che annullano il confine tra vita e morte, anche i confini sociali vengono sfumati all’insegna di un romanticismo che può vivere solo nell’inchiostro della fantasia; l’unica giustizia che queste giovani donne riescono a conquistarsi.”

Valentina Vignoli da sentieriselvaggi.it


 

 

 

 

 

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Chiara
 

da domenica 7 a  venerdì 12 aprile 2024

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C H I A R A

REGIA DI SUSANNA NICCHIARELLI

 

“1211. Chiara, ragazza di buona famiglia, decide di lasciare la casa del padre per seguire il percorso di Francesco d'Assisi, obbedendo alla regola di castità e di rinuncia ai beni materiali. Inizia così per lei una vita di preghiera, di servizio e di comunità, accanto a fratelli e sorelle, presso il monastero di San Damiano. A poco a poco Chiara emerge come una figura guida per le consorelle, opera miracoli senza nemmeno rendersene conto e raccoglie un seguito sempre crescente, che sfocerà nella creazione di un ordine sancito dal Papa. Ma non tutto sarà lineare e semplice, perché Chiara è una donna, e ad una donna molto di ciò che è consentito ad un uomo, ad esempio Francesco, è invece ostacolato. (…) Chiara viene considerata proprietà del padre e le viene vietato (inizialmente) il privilegio della povertà perché "senza possessione non c'è protezione", sua sorella biologica trova rifugio in convento per sottrarsi ad un matrimonio combinato, e alle Clarisse sarà vietato uscire dal convento per viaggiare verso i luoghi sacri della religione, perché "sono femmine, non frati".

L'accento di Nicchiarelli è anche sulla dimensione comunitaria e solidale che si crea intorno a Chiara, che rifiuta ogni impostazione gerarchica all'interno del suo ordine proclamando "qui non ci sono serve" e rifiutando di definirsi badessa. Ma la ragazza resta una figura carismatica che raccoglie e galvanizza l'energia femminile che la circonda (bella la scena in cui, cantando il suo nome, donne di ogni età e provenienza vengono attirate verso il convento), e la sua quieta determinazione conquista cardinali che diventeranno Papi, opera prodigi, cura gli infermi e le anime.

Centrale è il suo rapporto con Francesco, anche lui non immune all'attrattiva di Chiara, ma abbastanza "politico" da rinnegare il rapporto paritario e di convivialità con le sorelle, in quanto femmine "origine del peccato". Chiara invece resta radicale dall'inizio alla fine, continua a camminare a piedi scalzi e a lavare quelli delle consorelle, e alla fine, letteralmente, detterà le regole, quantomeno quella del suo ordine.

Nicchiarelli fa di Chiara quasi un musical, tutto sommato più vicino a Fratello sole, sorella luna (del quale però, per scelta, non ha la leggerezza) nella descrizione di una letizia tranquilla che a un film rivoluzionario come era stato all'epoca Jesus Christ Superstar, e resta un'ode al saper vivere femminile "sole ma insieme".

La giovane attrice protagonista, Margherita Mazzucco (la Elena della serie L'amica geniale) purtroppo non ha la potenza carismatica richiesta dal ruolo e all'impostazione fortemente pittorica del racconto avrebbero giovato toni più marcati.”.

Paola Casella da mymovies.it

 

 

 

 

 

Marco Massara

(domenica pomeriggio)

La consulenza e collaborazione alla regia della medioevalista Chiara Frugoni fa sì che il film immerga lo spettatore nelle esperienze sensoriali del periodo storico in cui la si dipana la vicenda di (santa) Chiara: una lingua ancora non completamente definita, il buio, il freddo, il cibo scarso (salvo non risparmiarci tutta la colonna sonora del ricco pasto del Papa).

Su questo sfondo Chiara si muove come una protofemminista, sollevando per la prima volta questioni che sono ancora aperte ai nostri giorni quali l’obbedienza e la società patriarcale. Il film ridimensiona anche la dimensione ascetica di S.Francesco e parla ‘forte e chiaro’, nonostante che la recitazione dell’attrice protagonista sia innegabilmente sottotono.

 

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Un bel rompicapo il terzo film di Susanna Nicchiarelli ! Da una parte l’occasione imperdibile di conoscere Santa Chiara attraverso l’interpretazione straordinaria della medievalista Chiara Frugoni, il funzionale lavoro sul volgare umbro di Nadia Cannata, le sonorità dell’Anonima Frottolisti. Dall’altra l’inadeguatezza attoriale di Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano e la difficoltà della regista di trovare una sintesi tra musical, visioni pittoriche e miracoli quotidiani. Insomma il pubblico del Bazin si mostra incuriosito dall’operazione intellettuale sottesa al film ma alquanto perplesso rispetto ai controversi esiti espressivi dello stesso.

 

Giulio Martini

(mercoledì sera)

equilibrata e stuzzicante rivisitazione della santa "oscurata" da Francesco, in evidente confronto con i tanti film dedicati da oltre un secolo al Poverello.

Spunti tematici originali, scelte visive all'opposto dell'abusato Effetto Notte, stranezze nella colonna sonora.

Una Regista da incoraggiare e sostenere, con un bel voto,dati anche i film  precedenti.

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Susanna Nicchiarelli costruisce un’opera-ossimoro la quale, mentre ci cala in modo filologicamente rigoroso nel Medioevo, con le sue superstizioni, come la paura iniziale del diavolo, la lingua volgare umbra antica, i costumi che richiamano il rigore pasoliniano, l’inserimento naturalistico dei miracoli, introduce elementi che rompono la finzione, come i momenti di danza, gli sguardi in macchina, e la canzone di Cosmo alla fine. Con questo stile racconta, da atea, la storia di una grande santa, giovane, ribelle, amante dei poveri, arrabbiata e intransigente prima di tutto con se stessa, ma anche con altri, inclusi i frati traditori e lo stesso Francesco. Si vede una volontà di ridimensionare l’infinitamente più famoso suo ispiratore, per rendere giustizia a una donna che, in quanto tale, ha dovuto faticare molto più di lui in un mondo maschilista e pieno di pregiudizi come quello di tanti secoli fa, in effetti non molto dissimile dal tempo attuale. Una scelta comprensibile, ma che lascia qualche perplessità, e produce un’opera che divide critica e pubblico, il che di solito è segno di una certa personalità

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Brutta storia raccontare il medioevo al cinema (e molti ci hanno provato): o si ha una precisa idea da perseguire (il medioevo astratto di Rohmer, quello cialtrone di Monicelli, quello pop di Zeffirelli, quello riflessivo di Rossellini e Pasolini) oppure incombe il rischio del fallimento o, peggio, del ridicolo. Nonostante il supporto di una valente studiosa come Chiara Frugoni, il film non è compiuto: certo, era difficile dare voce (letteralmente) a chi ne aveva pochissima (le donne, gli emarginati) ma la regista, richiamandosi un po’ a molti, sembra fare fatica a trovare una sua strada. Chiara ora è arruolata nel gruppone del me too, ora è una radicale sovvertitrice sociale attraverso l’ordine da lei fondato, in cui non ci sono serve e badesse (e i fratelli francescani convivono allegramente con le sorelle clarisse in quella che sembra più una comune hippie che un monastero); compare persino una traccia di ironia nella costernazione con cui Chiara prende coscienza delle sue capacità taumaturgiche. Ma non siamo troppo severi: dimenticando qualche caduta di stile (la canzone di Cosmo), tenendo conto di oggettive difficoltà e della circostanza che gli esiti di altre opere sul tema sono ben peggiori, si può valutare positivamente il coraggio della regista nel proporre una seria riflessione in un mondo che ama ben altro della serietà e della riflessione.

 

 

 

 

 

 

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Ritorno a Seul
 

da domenica 14 a  venerdì 19 aprile 2024

 

RITORNO A SEOUL

REGIA DI DAVY CHOU

 

“Freddie ha 25 anni, da molto piccola è stata adottata da una coppia francese che l'ha cresciuta amorevolmente, ma per qualche recondito motivo le sue origini coreane rimangono per lei un nodo irrisolto. In maniera piuttosto fortuita è costretta a trasferire il suo viaggio da Tokyo a Seoul, luogo in cui non riuscirà a ignorare il richiamo delle sue radici e finirà per mettersi alla ricerca della sua famiglia biologica. Nel giro di anni, fatti di silenzio, freddezza e poi riavvicinamenti, Freddie prova a ricostruire i pezzi sparsi della sua identità, cercando di comunicare con un padre alcolizzato che non parla nemmeno la sua lingua e una madre che non vuole farsi trovare.

Freddie Benoit cammina a testa alta per le strade piovose di Seoul, sembra trafiggere spavaldamente gli occhi dei passanti con il suo sguardo freddo, quando in realtà si sta guardando dentro, sta fissando il vuoto che lentamente la inghiottisce. Nemmeno lei ha idea di come sia possibile tentare di colmare questo vuoto, viene da chiedersi se l'effettivo ricongiungimento con i genitori biologici e con le sue radici perdute sia abbastanza. Forse, semplicemente ci sono persone piene e persone vuote, e Freddie fa parte delle seconde.

Ma non può fare a meno di sentirsi così, come un buco nero ambulante che annienta tutto ciò che tocca, e se niente può davvero appagarla allora non vale neanche la pena tentare di creare legami durevoli o condividere qualcosa con qualcuno. Come l'ultima bufera invernale spazza via tutti i bucaneve che timidamente cercano di bucare il manto nevoso, Freddie sopprime ogni relazione o rapporto che richieda un minimo di amore e pazienza. La sua vita sembra come in pausa, Freddie si lascia vivere, errando, osservando, sbagliando e facendo finta di divertirsi mentre attende una risposta della sua madre biologica, che nella sua psiche straziata si presenta come l'unica possibile speranza di rinascita.

In un panorama cinematografico ma non solo, che fa dell'ottimismo e della politica del lieto fine la sua cifra, Davy Chou ci mette davanti all'incapacità di risolvere certi nodi identitari o dissidi, senza neanche suggerire una via per poterci convivere: questa è la vera grandezza di Retour a Seoul, riesce ad essere vero senza rinunciare alla delicatezza e alla sensibilità

Tuttavia, anche nei suoi esiti più struggenti ed emotivamente destabilizzanti, Chou ha il pregio di riuscire a donare compattezza e spessore drammatico all'opera, attraverso una sapiente gestione del ritmo, che per quanto composito si mantiene sempre coinvolgente.
Davy Chou con la sua finezza sentimentale e il suo stile, si conferma sempre di più un astro nascente del panorama cinematografico internazionale.”

Archimede Favini da mymovies.it

 

 

 

 

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Il grande giorno
 

da domenica 17 a  venerdì 22 marzo 2024

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IL  GRANDE  GIORNO

REGIA DI MASSIMO VENIER

 

 

“Il grande giorno è ciò che il remake del francese C'est La Vie avrebbe voluto essere, perché racconta gli innumerevoli disastri che possono succedere durante un matrimonio dalle grandi ambizioni: ma qui il copione è tutto nuovo e tutto italiano, pieno di dettagli gustosi e di caratterizzazioni divertenti, dal maitre soprannominato "il Riccardo Muti del catering" (Pietro Ragusa) al cardinale Pineider (in omaggio ad una storica cartoleria che tra l'altro stampa partecipazioni di nozze) interpretato da Roberto Citran ad un prete di provincia (Francesco Brandi, anche narratore). (…)  Il cinema di Aldo, Giovanni e Giacomo ha una dimensione tutta sua: anche il ritmo di commedia non è quello forsennato che ci si aspetta nel 2022, ma per loro funziona, perché i tempi più dilatati tolgono ansia e lasciano spazio al gonfiare della risata capitalizzata sulla conoscenza che abbiamo delle loro maschere. È un cinema che, dopo un periodo di smarrimento e alcune cadute rovinose, ha saputo rinnovarsi nella continuità, tenendo conto del passare del tempo e di alcuni temi che diventano riflessioni quotidiane con l'avanzare degli anni. E ci sta restituendo quel "comfort food" che sono da sempre i loro film: sotto Natale, non potremmo chiedere di meglio.”

Paola Casella da mymovies.it

 

“Forse sotto l'albero non è il suo posto, ma Il grande giorno di Massimo Venier con Aldo (Baglio), Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) in forma crepuscolare, ovvero esistenziale, è più che discreto, va – ehm - a nozze col dramedy, fa i conti con le relazioni ed elegge il divano - né sdraiati, né eretti - a postura morale. È un film carino, nella sostanza umana, nei segreti e bugie di amici, mogli e mariti, figli, nelle geometrie variabili di famiglie allargate, unioni a scomparsa, sodalizi stagionali. Un po’ Casomai, un po’ C’est la vie!, un tot ispirato, un tot derivato, Il grande giorno eleva a potenza il trio che fu nella sua inclusività, nel suo essere primus inter pares, nell’andamento non più solista, ma sinfonico. La scelta, meritoria, va ascritta a AGG, nonché a Venier e al resto della squadra di scrittura, Davide Lantieri e Michele Pellegrini, già al lavoro per il precedente Odio l’estate (2020), sicché il loro undicesimo film si fa apprezzare non per le risate, che pure ci sono, quanto per il malessere che queste non riescono a dissimulare: è una commedia amara, dolente quanto basta, che (si) mette in discussione tra gaffes e incidenti nella sua capacità introspettiva, valenza psicologica, voltaggio residuale. Su quell’altro ramo del lago di Como, Giacomo e Giovanni, amici di vecchia data titolari della Segrate Arredi, stanno per sposare i figli, senza badare a spese: tre gironi di festeggiamenti, vini di pregio, chef di grido, cardinale celebrante e fuochi d’artificio. La situazione si incrina allorché l’ex moglie di Giovanni (Lucia Mascino) si presenta con il nuovo incontenibile compagno Aldo, ma è solo l’innesco del redde rationem, di un Festen un po’ ilare e un po’ lariano, che esalta in levare, per minimalismo le virtù attoriali di AGG e degli altri interpreti, tra cui le mogli Antonella Attili e Elena Lietti, il maitre Pietro Ragusa e il sacerdote Francesco Brandi.

Nulla per cui strapparsi i capelli, molto per non rimanere delusi, Il grande giorno ha gli occhi lucidi di Giovanni, l’istrionismo risonante di Aldo, il vomitino di Giacomo, sopra tutto, absit iniuria verbis, lo scarto esistenziale, l’anello, ehm, che non tiene, la seconda possibilità che lungi dall’essere dimezzata è foriera di felicità. Più che Chiedimi se sono felice (2000), dimmi che non lo sono, e cambiamo strada: le musiche di Brunori Sas aiutano, la sequenza del filmino – sì, abbiamo pure la mise en abyme… – commovente, Il grande giorno quasi un’antifrasi rivelatoria.”

Federico Pontiggia da cinematografo.it

 

“Parlare di Aldo, Giovanni e Giacomo significa parlare di una carriera lunga tre decenni. Di una comicità senza tempo che nel corso degli anni ha saputo offrire un’alternativa di qualità alla tradizione nostrana del cine-panettone e penetrare a fondo nel comune immaginario di più generazioni. Il grande giorno, come anche il suo immediato predecessore, gode dunque inevitabilmente di un ricco campionario citazionista: tornano Wagner, il celeberrimo capitano del Titanic, l’osteoporosi di Anplagghed e le tresche amorose alla Chiedimi se sono felice. Senza tralasciare il moderno riarrangiamento del “paradiso della brugola”, qui sostituito dalla società – e dal jingle – “Segrate Arredi – e sai dove ti siedi”. La delicatezza dei rimandi stride però con la fatica con cui Venier e soci volgono lo sguardo in avanti. E le pur confortevoli spire nostalgiche con cui il film tenta di avvolgere la narrazione, finiscono per stritolare la stessa, soffocando le potenzialità di alcuni spunti – almeno per buona parte di primo e secondo atto – nella semplicistica riproposizione di dinamiche note e protagonisti arrugginiti, condannati a vestire abiti antiquati, privi del mordente degli esordi.

Aldo, Giovanni e Giacomo, inizialmente stanche e sbiadite reminiscenze del proprio passato, riacquistano tuttavia spessore al “giro di boa”, quando, al collassare della sfarzosa struttura preconfezionata, riescono infine a liberarsi dal giogo della propria iconicità ed emergere con sincera naturalezza, squarciando il velo dell’artificiosità e meta-riflettendo sulla strada percorsa insieme. E benché ciò non sia sufficiente per ascrivere Il grande giorno tra i prodotti più riusciti del trio, il film “impara” a guardarsi dentro.”

Dario Boldini da sentieri selvaggi.it

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Agrodolce sequenza di sketch nello stile lombardo -siculo del trio su un plot classico della commedia e su un argomento oggi in grave crisi in Occidente: il Matrimonio (oltretutto in chiesa).

Dopo una solenne partenza socio - antropologica il tutto si risolve il una alternanza di gags e caratterizzazioni dei tipi talvolta esagerata (cfr. il prete - voce fuori campo scoperta solo alla fine).

Nonostante evidenti limiti il film diverte un ampio pubblico

 (anche di brianzoli presi di mira ...).

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Non è indolore la proiezione di Il grande giorno. L’ala dei cinefili oltranzisti non si presenta al Cineforum. Il gruppo liberal li accusa di snobismo culturale e non si fa problema alcuno a ridere alle gag del celeberrimo trio. Che poi, a ben vedere, è un quartetto perché Massimo Venier ha meriti indiscutibili nel successo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Anche nell’ultimo film, che sembra chiudere il ciclo iniziato nel lontano 1997 con Tre uomini e una gamba, la mano del regista varesino è riconoscibile. Nella prima parte dell’operina Venier sembra riprendere vezzi, virtù e battute che rimandano alla tradizione del trio: poi, nella seconda parte, gioca la carta del disincanto e dell’amarezza. Così il film rimane a metà, sospeso tra la risata e la smorfia. Ma nelle pieghe del film si legge in controluce una riflessione ora divertita, ora accorata sulla comune vicenda professionale. Ed è questo, a ben vedere, l'aspetto più interessante del film. 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

 

 Dalle brugole ai divani, l’umorismo si Aldo, Giovanni e Giacomo si conserva bene. Mai volgari, con un pizzico di surreale e un poco di pensosità, ci hanno fatto star bene per una serata, questa volta accompagnati da un cast robusto. Nel solco del loro tipico humour (Aldo il meridionale sempre sopra le righe, Giovanni e Giacomo due “brianzoli” così come ce li immaginiamo) con in più una malinconia sottile sulla natura complessa e imprevedibile dei rapporti umani (amorosi ma non solo). Solo leggero e divertente cabaret o qualcosa di più profondo? Aspettiamo come evolve la storia del nostro amato trio. Per ora verdino …

 

Rolando Longobardi

(venerdì sera)

un ritorno al cinema di Aldo Giovanni e Giacomo segnato dalla regia di Venier si nota ed è l'aggiunta di qualità a questo film narrativamente prevedibile anche se godibile.  la cifra stilistica di Venier emerge nella capacità di bar dialogare la macchina da presa con la narrazione e i tempi comici.  il risultato è un film che seppur non resterà negli annali della storia del cinema si lascia vedere strappando ance qualche risata.

Marco Massara

(jolly)

La riscrittura di “C’est la vie” nella lingua AldoGiovaGiacomese sostanzialmente si lascia vedere.

Riscrittura e non traduzione, in quanto dopo aver seguito la falsariga del film francese con le prevedibili gag in stile slapstick comedy, Massimo Venier, reduce dal positivo remake dell’ingombrante “Vedovo” dell’ingombrante Dino Risi, fa prendere al film una piega agrodolce mettendo sia in scena il tema dell’amicizia e del suo tradimento, che in piazza gli inevitabili pettegolezzi provincialotti.

Decisamente da evitare invece l’ ‘imbullonato’ pistolotto con le vicende finali dei personaggi. Appesantisce inutilmente un film che, come scritto all’inizio, si lascia vedere con apprezzabile scorrevolezza.

 

 

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