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Ritorno a Seul
 

da domenica 14 a  venerdì 19 aprile 2024

 

RITORNO A SEOUL

REGIA DI DAVY CHOU

 

“Freddie ha 25 anni, da molto piccola è stata adottata da una coppia francese che l'ha cresciuta amorevolmente, ma per qualche recondito motivo le sue origini coreane rimangono per lei un nodo irrisolto. In maniera piuttosto fortuita è costretta a trasferire il suo viaggio da Tokyo a Seoul, luogo in cui non riuscirà a ignorare il richiamo delle sue radici e finirà per mettersi alla ricerca della sua famiglia biologica. Nel giro di anni, fatti di silenzio, freddezza e poi riavvicinamenti, Freddie prova a ricostruire i pezzi sparsi della sua identità, cercando di comunicare con un padre alcolizzato che non parla nemmeno la sua lingua e una madre che non vuole farsi trovare.

Freddie Benoit cammina a testa alta per le strade piovose di Seoul, sembra trafiggere spavaldamente gli occhi dei passanti con il suo sguardo freddo, quando in realtà si sta guardando dentro, sta fissando il vuoto che lentamente la inghiottisce. Nemmeno lei ha idea di come sia possibile tentare di colmare questo vuoto, viene da chiedersi se l'effettivo ricongiungimento con i genitori biologici e con le sue radici perdute sia abbastanza. Forse, semplicemente ci sono persone piene e persone vuote, e Freddie fa parte delle seconde.

Ma non può fare a meno di sentirsi così, come un buco nero ambulante che annienta tutto ciò che tocca, e se niente può davvero appagarla allora non vale neanche la pena tentare di creare legami durevoli o condividere qualcosa con qualcuno. Come l'ultima bufera invernale spazza via tutti i bucaneve che timidamente cercano di bucare il manto nevoso, Freddie sopprime ogni relazione o rapporto che richieda un minimo di amore e pazienza. La sua vita sembra come in pausa, Freddie si lascia vivere, errando, osservando, sbagliando e facendo finta di divertirsi mentre attende una risposta della sua madre biologica, che nella sua psiche straziata si presenta come l'unica possibile speranza di rinascita.

In un panorama cinematografico ma non solo, che fa dell'ottimismo e della politica del lieto fine la sua cifra, Davy Chou ci mette davanti all'incapacità di risolvere certi nodi identitari o dissidi, senza neanche suggerire una via per poterci convivere: questa è la vera grandezza di Retour a Seoul, riesce ad essere vero senza rinunciare alla delicatezza e alla sensibilità

Tuttavia, anche nei suoi esiti più struggenti ed emotivamente destabilizzanti, Chou ha il pregio di riuscire a donare compattezza e spessore drammatico all'opera, attraverso una sapiente gestione del ritmo, che per quanto composito si mantiene sempre coinvolgente.
Davy Chou con la sua finezza sentimentale e il suo stile, si conferma sempre di più un astro nascente del panorama cinematografico internazionale.”

Archimede Favini da mymovies.it

 

 

 

 

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Chiara
 

da domenica 7 a  venerdì 12 aprile 2024

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C H I A R A

REGIA DI SUSANNA NICCHIARELLI

 

“1211. Chiara, ragazza di buona famiglia, decide di lasciare la casa del padre per seguire il percorso di Francesco d'Assisi, obbedendo alla regola di castità e di rinuncia ai beni materiali. Inizia così per lei una vita di preghiera, di servizio e di comunità, accanto a fratelli e sorelle, presso il monastero di San Damiano. A poco a poco Chiara emerge come una figura guida per le consorelle, opera miracoli senza nemmeno rendersene conto e raccoglie un seguito sempre crescente, che sfocerà nella creazione di un ordine sancito dal Papa. Ma non tutto sarà lineare e semplice, perché Chiara è una donna, e ad una donna molto di ciò che è consentito ad un uomo, ad esempio Francesco, è invece ostacolato. (…) Chiara viene considerata proprietà del padre e le viene vietato (inizialmente) il privilegio della povertà perché "senza possessione non c'è protezione", sua sorella biologica trova rifugio in convento per sottrarsi ad un matrimonio combinato, e alle Clarisse sarà vietato uscire dal convento per viaggiare verso i luoghi sacri della religione, perché "sono femmine, non frati".

L'accento di Nicchiarelli è anche sulla dimensione comunitaria e solidale che si crea intorno a Chiara, che rifiuta ogni impostazione gerarchica all'interno del suo ordine proclamando "qui non ci sono serve" e rifiutando di definirsi badessa. Ma la ragazza resta una figura carismatica che raccoglie e galvanizza l'energia femminile che la circonda (bella la scena in cui, cantando il suo nome, donne di ogni età e provenienza vengono attirate verso il convento), e la sua quieta determinazione conquista cardinali che diventeranno Papi, opera prodigi, cura gli infermi e le anime.

Centrale è il suo rapporto con Francesco, anche lui non immune all'attrattiva di Chiara, ma abbastanza "politico" da rinnegare il rapporto paritario e di convivialità con le sorelle, in quanto femmine "origine del peccato". Chiara invece resta radicale dall'inizio alla fine, continua a camminare a piedi scalzi e a lavare quelli delle consorelle, e alla fine, letteralmente, detterà le regole, quantomeno quella del suo ordine.

Nicchiarelli fa di Chiara quasi un musical, tutto sommato più vicino a Fratello sole, sorella luna (del quale però, per scelta, non ha la leggerezza) nella descrizione di una letizia tranquilla che a un film rivoluzionario come era stato all'epoca Jesus Christ Superstar, e resta un'ode al saper vivere femminile "sole ma insieme".

La giovane attrice protagonista, Margherita Mazzucco (la Elena della serie L'amica geniale) purtroppo non ha la potenza carismatica richiesta dal ruolo e all'impostazione fortemente pittorica del racconto avrebbero giovato toni più marcati.”.

Paola Casella da mymovies.it

 

 

 

 

 

Marco Massara

(domenica pomeriggio)

La consulenza e collaborazione alla regia della medioevalista Chiara Frugoni fa sì che il film immerga lo spettatore nelle esperienze sensoriali del periodo storico in cui la si dipana la vicenda di (santa) Chiara: una lingua ancora non completamente definita, il buio, il freddo, il cibo scarso (salvo non risparmiarci tutta la colonna sonora del ricco pasto del Papa).

Su questo sfondo Chiara si muove come una protofemminista, sollevando per la prima volta questioni che sono ancora aperte ai nostri giorni quali l’obbedienza e la società patriarcale. Il film ridimensiona anche la dimensione ascetica di S.Francesco e parla ‘forte e chiaro’, nonostante che la recitazione dell’attrice protagonista sia innegabilmente sottotono.

 

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Un bel rompicapo il terzo film di Susanna Nicchiarelli ! Da una parte l’occasione imperdibile di conoscere Santa Chiara attraverso l’interpretazione straordinaria della medievalista Chiara Frugoni, il funzionale lavoro sul volgare umbro di Nadia Cannata, le sonorità dell’Anonima Frottolisti. Dall’altra l’inadeguatezza attoriale di Margherita Mazzucco e Andrea Carpenzano e la difficoltà della regista di trovare una sintesi tra musical, visioni pittoriche e miracoli quotidiani. Insomma il pubblico del Bazin si mostra incuriosito dall’operazione intellettuale sottesa al film ma alquanto perplesso rispetto ai controversi esiti espressivi dello stesso.

 

Giulio Martini

(mercoledì sera)

equilibrata e stuzzicante rivisitazione della santa "oscurata" da Francesco, in evidente confronto con i tanti film dedicati da oltre un secolo al Poverello.

Spunti tematici originali, scelte visive all'opposto dell'abusato Effetto Notte, stranezze nella colonna sonora.

Una Regista da incoraggiare e sostenere, con un bel voto,dati anche i film  precedenti.

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Susanna Nicchiarelli costruisce un’opera-ossimoro la quale, mentre ci cala in modo filologicamente rigoroso nel Medioevo, con le sue superstizioni, come la paura iniziale del diavolo, la lingua volgare umbra antica, i costumi che richiamano il rigore pasoliniano, l’inserimento naturalistico dei miracoli, introduce elementi che rompono la finzione, come i momenti di danza, gli sguardi in macchina, e la canzone di Cosmo alla fine. Con questo stile racconta, da atea, la storia di una grande santa, giovane, ribelle, amante dei poveri, arrabbiata e intransigente prima di tutto con se stessa, ma anche con altri, inclusi i frati traditori e lo stesso Francesco. Si vede una volontà di ridimensionare l’infinitamente più famoso suo ispiratore, per rendere giustizia a una donna che, in quanto tale, ha dovuto faticare molto più di lui in un mondo maschilista e pieno di pregiudizi come quello di tanti secoli fa, in effetti non molto dissimile dal tempo attuale. Una scelta comprensibile, ma che lascia qualche perplessità, e produce un’opera che divide critica e pubblico, il che di solito è segno di una certa personalità

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Brutta storia raccontare il medioevo al cinema (e molti ci hanno provato): o si ha una precisa idea da perseguire (il medioevo astratto di Rohmer, quello cialtrone di Monicelli, quello pop di Zeffirelli, quello riflessivo di Rossellini e Pasolini) oppure incombe il rischio del fallimento o, peggio, del ridicolo. Nonostante il supporto di una valente studiosa come Chiara Frugoni, il film non è compiuto: certo, era difficile dare voce (letteralmente) a chi ne aveva pochissima (le donne, gli emarginati) ma la regista, richiamandosi un po’ a molti, sembra fare fatica a trovare una sua strada. Chiara ora è arruolata nel gruppone del me too, ora è una radicale sovvertitrice sociale attraverso l’ordine da lei fondato, in cui non ci sono serve e badesse (e i fratelli francescani convivono allegramente con le sorelle clarisse in quella che sembra più una comune hippie che un monastero); compare persino una traccia di ironia nella costernazione con cui Chiara prende coscienza delle sue capacità taumaturgiche. Ma non siamo troppo severi: dimenticando qualche caduta di stile (la canzone di Cosmo), tenendo conto di oggettive difficoltà e della circostanza che gli esiti di altre opere sul tema sono ben peggiori, si può valutare positivamente il coraggio della regista nel proporre una seria riflessione in un mondo che ama ben altro della serietà e della riflessione.

 

 

 

 

 

 

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Rapito
 

da domenica 10 venerdì 15 marzo 2024

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RAPITO

REGIA DI MARCO BELLOCCHIO

 

 

Kavac Film, Rai Cinema

 

“Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al "Papa Re" Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un'educazione cattolica che lo "liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei". I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un "non possum" e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità. Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l'interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l'azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.

La fonte letteraria è Il caso Mortara di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l'antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di "costringere gli ebrei a tornare nel loro buco", risigillando la porta del ghetto.

Ma al di là dell'aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un'identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte (il che equivale ad una sottolineatura indelebile), il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l'una che spera, l'altra che inchioda il bambino al suo destino (quando la scena più bella del film è quella in cui il piccolo Edgardo toglie i chiodi dal corpo di Gesù "ucciso dagli ebrei"); un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; un ostinato "ora pro nobis" e un'irruzione della Storia laica.

E per tre volte l'identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo - la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del "rapito" - che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda "Dove è finito Edgardo?", rimando ad una scena iconica di Fai bei sogni, dove la madre, come qui, era Barbara Ronchi.

Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato (…) Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un "non è successo niente".

È violenta la palette cromatica di Rapito, a cominciare dal sigillo rosso sangue con cui viene ratificato il destino di Edgardo, è violento il contrasto caravaggesco fra le poche luci e le molte ombre (la fotografia è di Francesco Di Giacomo); e supremamente violento è l'atto di strappare un figlio alla madre.

Rapitoè un horror ammantato di carità cristiana, un "miserere nobis" che cancella ogni colpa con una formula assolutoria. "Ci vorrebbe Attila", si dirà ad un certo punto, davanti a tale bigottismo, e la regia muscolare di Bellocchio manda altrettanto a gambe all'aria ogni convinzione precostituita e autolegittimante, rifiutando radicalmente ogni sistema di potere basato sul senso di colpa in cui il regista stesso è stato immerso, e dal quale non potrà mai prescindere del tutto, come emerge con chiarezza dal suo cinema, e in particolare dal documentario Marx può aspettare.”

Paola Casella da mymovie.it

 

“La storia è ben nota a pochi (chi conosce le vicende risorgimentali, chi vive o studia il rapporto tra cattolici ed ebrei, i cultori della storia della Chiesa contemporanea) e al tempo stesso pressoché sconosciuta presso il grande pubblico.(…)

Evidente che si tratti di una storia potente da raccontare ma alquanto delicata, per le sensibilissime corde che si vanno a toccare. Lo sa bene Steven Spielberg che da un decennio ha in animo di dare vita al suo progetto The Kidnapping of Edgardo Mortara.

Bellocchio per affrontare una vicenda così complessa, abilmente narrata con il passo dell’interno familiare, si è circondato di una squadra di livello. (…) Il film è ben riuscito e prende per mano (e per i sentimenti) lo spettatore, guidandolo dentro la vicenda e il suo tempo, ricordando le condizioni degli ebrei nei ghetti di Bologna e Roma nell’Ottocento, della perdita forzosa ma provvidenziale del potere temporale della Chiesa, di un’Italia per una parte importante ancora “da fare”.

Bellocchio con sincerità affronta la storia senza ideologie e pregiudizi ma rimanendo aderente ai fatti (sul Risorgimento preziosa la collaborazione di Pina Totaro) mostra sfumature e contraddizioni di tutte le parti in causa (e non solo dell’istituzione ecclesiastica) e - con la solita maestria - la complessità psicologica dei protagonisti. Sempre con rispetto, non solo formale, dei dati di fede cristiani, ebraici e della causa risorgimentale. (…) Rimane in ombra (peccato, si poteva attingere dal memoriale che ha lasciato) la questione chiave, uno dei tratti più interessanti e meno esplorati dalla pubblicistica sul caso: la libertà interiore del ragazzo, che educato forzatamente al cattolicesimo, sceglie di abbracciare la vocazione sacerdotale, confermandola con convinzione in tutta la sua lunga esistenza.(…) Bellocchio torna a lavorare sulle pagine controverse della storia, affrontando il tema del potere, realtà umanissima che al netto delle violenze di cui può rendersi protagonista porta inevitabilmente con se insuperabili imperfezioni. Gli abusi e le contraddizioni di ogni genere di potere (della chiesa, degli ideali politici, dei tribunali…) che il film testimonia, pur condizionando gravemente la vita di molti non hanno la possibilità di soffocare la libertà personale che – pur nella sofferenza – la coscienza individuale custodisce.

Rapitoè così un film sulla supremazia della libertà personale rispetto al potere precostituito e del percorso per affermarla.”

Davide Milani da cinematografo.it

 

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Tradimento/ ripudio improvviso del gruppo di appartenenza? Dominio ingombrante - ma irrinunciabile - delle figure materne? Orrore e fascino della Religiosità? Prepotenze ed abusi del Potere. Impenetrabilità dei sentimenti e delle pulsioni irrazionali? Reclusione in carcere o in manicomio di vittime/distruzione innocenti?

Angoscia della morte e stupore davanti all'auto - annientamento i?

Tutti i temi e le ossessioni dell'ottantacinquenne ex - studente di vari collegi ecclesiastici si condensano di nuovo qui in una tenebrosa ricostruzione storica della fine dell'ultimo Papa-Re.

Se è più che chiaro l'intento e il torrenziale sfogo anticlericale (ma l' episodio della partecipazione di Mortara all' assalto della bara del Papa, da cui per altro  lui ha preso il nome  da sacerdote, è inventata...) tutti gli altri tormenti restano irrisolti, sospesi e acutissimi.

La regia solida ed esperta tiene comunque a bada un magma di emozioni, luci ed ombre, abiti ed ambienti, musiche e canti sacri che rischiano talvolta solo di debordare nel grottesco.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

 

Marco Bellocchio cala l’asso pigliatutto e conquista il Bazin.Basta l’incipit angoscioso e inquietante di Rapito per sedurre gli aficionados del Cineforum. Con la consueta efficacia stilistica, Marco Bellocchio dà vita a una pellicola che ha un ritmo straordinario e incessante, capace di tenere alta la tensione della sala dalla prima all’ultima inquadratura. Generale compiacimento del pubblico per l’ispirato cast (da Barbara Ronchi a Fabrizio Gifuni) dove un apprezzamento speciale va a Paolo Pierobon per la sua sfaccettata rappresentazione di Papa Pio IX. Tutti i presenti in sala ritrovano con compiacimento un approccio cinematografico attento a rispettare la Storia collettiva e le storie individuali in un affresco di grande potenza visiva.

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

È possibile dire che un film ha come difetto quello di offrire troppo allo spettatore? Se la risposta fosse positiva, Rapito si ascriverebbe a questa categoria. Una scenografia bellissima, oscura e inquietante; una dimensione fantasmatica che traduce incubi o desideri; una impaginazione superba, perfetta nei richiami tematici e nel frequente montaggio alternato. Soprattutto una ricchezza di temi che fornirebbero materiali per più opere; facciamo solo alcuni esempi in merito: un primo tema è certamente la descrizione di una Chiesa e di un Papa potenti e arroganti ma le loro azioni violente si accompagnano alla volontà di “salvare” il piccolo Mortara e così il Papa, con un gesto che ripete quello materno (queste madri così volitive), nasconde Edgardo sotto le vesti! Ma un secondo film potrebbe essere dedicato alla ricezione che si ha di una violenza subita, adattandosi e trovandola persino giusta, trovandosi persino “bene” tra chi l’ha commessa. È solo un problema di educazione? Un terzo film potrebbe essere dedicato al motivo della responsabilità di chi commette violenza … e qui mi fermo. Film importante ma eccessivo, troppo stordente!

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Marco Bellocchio ci racconta un fatto storico preciso per mostrare la capacità distruttiva di ogni ideologia, anche quella che dovrebbe esprimere l’amore infinito di Dio per l’uomo. Da una parte abbiamo le persone semplici, come Momolo e la sua famiglia, che vogliono solo vivere insieme. Dall’altra la spietata logica di una religiosità disincarnata, per la quale si può strappare un bambino alla famiglia solo perché è stato battezzato, e dunque è cristiano, come se l’esserlo non avesse a che fare con la libertà dell’individuo. E anche i nuovi dominatori non sembrano tanto meglio, visto che il loro obiettivo non pare il ritorno a casa di Edgardo, bensì l’affermazione del diritto dello Stato a giudicare la Chiesa, cioè la difesa di un’altra, solo più moderna, ideologia.

In mezzo si trova il “rapito”, costretto a mentire, dissociare cuore e mente, fino a ridursi a un misero alienato che non sa più quel che vuole e cerca addirittura di battezzare la madre morente, cioè di ripetere il tragico errore che gli ha rovinato l’esistenza.

Tutto questo ci viene posto davanti senza didascalismi, ma con la pura forza delle immagini, della narrazione, dei suoni, del Cinema, insomma

 

 

 

 

Marco Massara

(Jolly)

 

Troppa roba…. Bellocchio lo conosciamo bene come i suoi attacchi al Potere, ecclesiastico o no. Qui forse c’è un secondo bersaglio: l’ignoranza, rappresentata dalle preghiere recitate meccanicamente, dai rituali accettati acriticamente ed incarnata nella ‘ministra’ del battesimo che si esprime solo in uno stentato dialetto.

La coda storica, con la rappresentazione di Porta Pia ed il resto, appesantisce inutilmente la narrazione.

Meno male che nel finale la madre ‘vuole morire ebrea’, altrimenti il meccanismo drammaturgico sarebbe stato troppo forzato.

 

 

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Il grande giorno
 

da domenica 17 a  venerdì 22 marzo 2024

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IL  GRANDE  GIORNO

REGIA DI MASSIMO VENIER

 

 

“Il grande giorno è ciò che il remake del francese C'est La Vie avrebbe voluto essere, perché racconta gli innumerevoli disastri che possono succedere durante un matrimonio dalle grandi ambizioni: ma qui il copione è tutto nuovo e tutto italiano, pieno di dettagli gustosi e di caratterizzazioni divertenti, dal maitre soprannominato "il Riccardo Muti del catering" (Pietro Ragusa) al cardinale Pineider (in omaggio ad una storica cartoleria che tra l'altro stampa partecipazioni di nozze) interpretato da Roberto Citran ad un prete di provincia (Francesco Brandi, anche narratore). (…)  Il cinema di Aldo, Giovanni e Giacomo ha una dimensione tutta sua: anche il ritmo di commedia non è quello forsennato che ci si aspetta nel 2022, ma per loro funziona, perché i tempi più dilatati tolgono ansia e lasciano spazio al gonfiare della risata capitalizzata sulla conoscenza che abbiamo delle loro maschere. È un cinema che, dopo un periodo di smarrimento e alcune cadute rovinose, ha saputo rinnovarsi nella continuità, tenendo conto del passare del tempo e di alcuni temi che diventano riflessioni quotidiane con l'avanzare degli anni. E ci sta restituendo quel "comfort food" che sono da sempre i loro film: sotto Natale, non potremmo chiedere di meglio.”

Paola Casella da mymovies.it

 

“Forse sotto l'albero non è il suo posto, ma Il grande giorno di Massimo Venier con Aldo (Baglio), Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) in forma crepuscolare, ovvero esistenziale, è più che discreto, va – ehm - a nozze col dramedy, fa i conti con le relazioni ed elegge il divano - né sdraiati, né eretti - a postura morale. È un film carino, nella sostanza umana, nei segreti e bugie di amici, mogli e mariti, figli, nelle geometrie variabili di famiglie allargate, unioni a scomparsa, sodalizi stagionali. Un po’ Casomai, un po’ C’est la vie!, un tot ispirato, un tot derivato, Il grande giorno eleva a potenza il trio che fu nella sua inclusività, nel suo essere primus inter pares, nell’andamento non più solista, ma sinfonico. La scelta, meritoria, va ascritta a AGG, nonché a Venier e al resto della squadra di scrittura, Davide Lantieri e Michele Pellegrini, già al lavoro per il precedente Odio l’estate (2020), sicché il loro undicesimo film si fa apprezzare non per le risate, che pure ci sono, quanto per il malessere che queste non riescono a dissimulare: è una commedia amara, dolente quanto basta, che (si) mette in discussione tra gaffes e incidenti nella sua capacità introspettiva, valenza psicologica, voltaggio residuale. Su quell’altro ramo del lago di Como, Giacomo e Giovanni, amici di vecchia data titolari della Segrate Arredi, stanno per sposare i figli, senza badare a spese: tre gironi di festeggiamenti, vini di pregio, chef di grido, cardinale celebrante e fuochi d’artificio. La situazione si incrina allorché l’ex moglie di Giovanni (Lucia Mascino) si presenta con il nuovo incontenibile compagno Aldo, ma è solo l’innesco del redde rationem, di un Festen un po’ ilare e un po’ lariano, che esalta in levare, per minimalismo le virtù attoriali di AGG e degli altri interpreti, tra cui le mogli Antonella Attili e Elena Lietti, il maitre Pietro Ragusa e il sacerdote Francesco Brandi.

Nulla per cui strapparsi i capelli, molto per non rimanere delusi, Il grande giorno ha gli occhi lucidi di Giovanni, l’istrionismo risonante di Aldo, il vomitino di Giacomo, sopra tutto, absit iniuria verbis, lo scarto esistenziale, l’anello, ehm, che non tiene, la seconda possibilità che lungi dall’essere dimezzata è foriera di felicità. Più che Chiedimi se sono felice (2000), dimmi che non lo sono, e cambiamo strada: le musiche di Brunori Sas aiutano, la sequenza del filmino – sì, abbiamo pure la mise en abyme… – commovente, Il grande giorno quasi un’antifrasi rivelatoria.”

Federico Pontiggia da cinematografo.it

 

“Parlare di Aldo, Giovanni e Giacomo significa parlare di una carriera lunga tre decenni. Di una comicità senza tempo che nel corso degli anni ha saputo offrire un’alternativa di qualità alla tradizione nostrana del cine-panettone e penetrare a fondo nel comune immaginario di più generazioni. Il grande giorno, come anche il suo immediato predecessore, gode dunque inevitabilmente di un ricco campionario citazionista: tornano Wagner, il celeberrimo capitano del Titanic, l’osteoporosi di Anplagghed e le tresche amorose alla Chiedimi se sono felice. Senza tralasciare il moderno riarrangiamento del “paradiso della brugola”, qui sostituito dalla società – e dal jingle – “Segrate Arredi – e sai dove ti siedi”. La delicatezza dei rimandi stride però con la fatica con cui Venier e soci volgono lo sguardo in avanti. E le pur confortevoli spire nostalgiche con cui il film tenta di avvolgere la narrazione, finiscono per stritolare la stessa, soffocando le potenzialità di alcuni spunti – almeno per buona parte di primo e secondo atto – nella semplicistica riproposizione di dinamiche note e protagonisti arrugginiti, condannati a vestire abiti antiquati, privi del mordente degli esordi.

Aldo, Giovanni e Giacomo, inizialmente stanche e sbiadite reminiscenze del proprio passato, riacquistano tuttavia spessore al “giro di boa”, quando, al collassare della sfarzosa struttura preconfezionata, riescono infine a liberarsi dal giogo della propria iconicità ed emergere con sincera naturalezza, squarciando il velo dell’artificiosità e meta-riflettendo sulla strada percorsa insieme. E benché ciò non sia sufficiente per ascrivere Il grande giorno tra i prodotti più riusciti del trio, il film “impara” a guardarsi dentro.”

Dario Boldini da sentieri selvaggi.it

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Agrodolce sequenza di sketch nello stile lombardo -siculo del trio su un plot classico della commedia e su un argomento oggi in grave crisi in Occidente: il Matrimonio (oltretutto in chiesa).

Dopo una solenne partenza socio - antropologica il tutto si risolve il una alternanza di gags e caratterizzazioni dei tipi talvolta esagerata (cfr. il prete - voce fuori campo scoperta solo alla fine).

Nonostante evidenti limiti il film diverte un ampio pubblico

 (anche di brianzoli presi di mira ...).

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Non è indolore la proiezione di Il grande giorno. L’ala dei cinefili oltranzisti non si presenta al Cineforum. Il gruppo liberal li accusa di snobismo culturale e non si fa problema alcuno a ridere alle gag del celeberrimo trio. Che poi, a ben vedere, è un quartetto perché Massimo Venier ha meriti indiscutibili nel successo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Anche nell’ultimo film, che sembra chiudere il ciclo iniziato nel lontano 1997 con Tre uomini e una gamba, la mano del regista varesino è riconoscibile. Nella prima parte dell’operina Venier sembra riprendere vezzi, virtù e battute che rimandano alla tradizione del trio: poi, nella seconda parte, gioca la carta del disincanto e dell’amarezza. Così il film rimane a metà, sospeso tra la risata e la smorfia. Ma nelle pieghe del film si legge in controluce una riflessione ora divertita, ora accorata sulla comune vicenda professionale. Ed è questo, a ben vedere, l'aspetto più interessante del film. 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

 

 Dalle brugole ai divani, l’umorismo si Aldo, Giovanni e Giacomo si conserva bene. Mai volgari, con un pizzico di surreale e un poco di pensosità, ci hanno fatto star bene per una serata, questa volta accompagnati da un cast robusto. Nel solco del loro tipico humour (Aldo il meridionale sempre sopra le righe, Giovanni e Giacomo due “brianzoli” così come ce li immaginiamo) con in più una malinconia sottile sulla natura complessa e imprevedibile dei rapporti umani (amorosi ma non solo). Solo leggero e divertente cabaret o qualcosa di più profondo? Aspettiamo come evolve la storia del nostro amato trio. Per ora verdino …

 

Rolando Longobardi

(venerdì sera)

un ritorno al cinema di Aldo Giovanni e Giacomo segnato dalla regia di Venier si nota ed è l'aggiunta di qualità a questo film narrativamente prevedibile anche se godibile.  la cifra stilistica di Venier emerge nella capacità di bar dialogare la macchina da presa con la narrazione e i tempi comici.  il risultato è un film che seppur non resterà negli annali della storia del cinema si lascia vedere strappando ance qualche risata.

Marco Massara

(jolly)

La riscrittura di “C’est la vie” nella lingua AldoGiovaGiacomese sostanzialmente si lascia vedere.

Riscrittura e non traduzione, in quanto dopo aver seguito la falsariga del film francese con le prevedibili gag in stile slapstick comedy, Massimo Venier, reduce dal positivo remake dell’ingombrante “Vedovo” dell’ingombrante Dino Risi, fa prendere al film una piega agrodolce mettendo sia in scena il tema dell’amicizia e del suo tradimento, che in piazza gli inevitabili pettegolezzi provincialotti.

Decisamente da evitare invece l’ ‘imbullonato’ pistolotto con le vicende finali dei personaggi. Appesantisce inutilmente un film che, come scritto all’inizio, si lascia vedere con apprezzabile scorrevolezza.

 

 

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Mon crime
 

da domenica 24 febbraio a venerdì 1 marzo 2024

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MON  CRIME

REGIA DI FRANCOIS OZON

 

“Procedendo al ritmo di un film all'anno, François Ozon non smette di girare e di concimare i generi. Soltanto ieri firmava Peter von Kant, evocazione impertinente del suo idolo, Rainer Werner Fassbinder, e otto mesi più tardi è di ritorno con una commedia che riconfigura il presente col sorriso aperto e la giusta dose di insolenza. Perché quella che avrebbe potuto essere una screwball comedy nostalgica dispiega, al contrario, una vitalità organica che 'suona' le note moderne delle protagoniste.

Con 8 donne e un misteroe Potiche, Mon Crime forma una sorta di trilogia ideale, inscrivendosi nella vena più popolare e leggera dell'autore. Un trittico scintillante che condivide lo stesso DNA e gli artifici della rappresentazione scenica, perché il teatro resta la sorgente d'ispirazione maggiore per Ozon, come se la teatralità gli permettesse di celebrare meglio il cinema. Ma Mon Crime è altrettanto ossessionato dalla storia del cinema e ritrova lo spirito delle commedie sofisticate dell'età dell'oro hollywoodiana. Una stagione glamour, sublimata tra gli altri da Ernst Lubitsch e Howard Hawks, dove i personaggi si affrontano a colpi di repliche e le donne portano volentieri i pantaloni. (…) Comme d'habitude, Ozon va oltre il testo che lo ispira. Mentre le nostre eroine 'prendono la parola' (e la pistola), il film allude a una possibile deriva del potere femminile. (…) Il femminismo ostentato non manca di ambiguità, l'emancipazione e la scalata sociale delle protagoniste passano di fatto per le bugie e la manipolazione. Perfidia intrigante di un film che dietro il divertissement e i virtuosismi verbali si rivela più sovversivo di quanto le sue 'buone maniere' lascino intendere. (…) Ma ancora più bella è la maniera generosa di Ozon di invitare due attrici in divenire, e tra le più promettenti della loro generazione, nello star system francese. Intorno a Nadia Tereszkiewicz, che incarna la 'deliziosa' colpevole che il pubblico, da convenzione, ama odiare, e Rebecca Marder, novizia del foro che farà di lei un'icona femminista, ruotano come satelliti Fabrice Luchini, giudice conservatore che ha fretta di archiviare l'omicidio invece di chiarirlo, Dany Boon, affarista provenzale con accento di Marsiglia e baffo malandrino, e Isabelle Huppert, attrice del muto lanciata a pieno regime contro il privilegio maschile dominante. In questo gioco di ruoli, di inganni e di massacro, la tentazione di mettere in competizione gli interpreti è grande ma è più appropriato constatare l'inarrestabile effetto comico che producono insieme generando un miracolo: la verità dietro tanto trucco.”

Marzia Gandolfi da mymovies.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Puro divertissement attoriale, simpatico caleidoscopio di invenzioni narrative, denso crogiolo di citazioni ed omaggi al cinema di ieri e dell'altroieri, con strizzatine d'occhio alla pochade, ma con occhi spalancati sulla lubrica società - non solo odierna - del mondo dello spettacolo e anche oltre.

 

Angelo Sabbadini

(lunedìì sera)

Gongolano i fedeli del cineforum: si proietta Francois Ozon e i più lo candidano come film dell’anno. E hanno ragione perché il pirotecnico Mon Crime ha il pregio impagabile della leggerezza E poi è un film eversivo che inneggia alle potenzialità illimitate dell’alleanza tra donne. Arguta farsa d’epoca tratta dagli sconosciuti Georges Beer e Louis Verneil ha un cuore assolutamente contemporaneo e ripropone con dialoghi cesellati e pieni di arguzia tanti temi cari al prolifico regista francese. La recitazione scandita, da Comédie Francaise, fa parte del gioco e affidata ad uno straordinario cast attoriale in vena di autoironia è di uno spasso irresistibile.

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Ancora un film dedicato al rapporto “uomo/donna” o, meglio, ai modi, agli strumenti, a come esercitare l’autonomia e l’emancipazione. Questa volta il racconto è declinato con grande giocosità, con un evidente gusto per l’affabulazione e il paradosso, con i modi dell’ironia e un collage del cinema passato (citato esplicitamente o soltanto alluso) e del teatro, col suo implicito rapporto, sempre stimolante, tra realtà e finzione, verità e menzogna (l’aula di un tribunale che diventa una scena teatrale, ad esempio, dove si “recita” il falso resoconto di un omicidio effettivamente avvenuto). Ozon, tornato ai modi della pochade dopo il “serio” È andato tutto bene, impiega un cast importante, dove tutti recitano un po’ sopra le righe, come negli anni ‘30; tra Billy Wilder e il suo unico film francese, le acconciature di Madeleine tra Lulù-Louise Brooks e Marlene Dietrich, l’abbigliamento di Pauline alla Katharine Hepburn, rimarchevole è Isabelle Huppert in versione comica, un po’ Gloria Swanson un po’ Crudelia Demon (ma sottinteso c’è anche Chabrol). Insomma troviamo di tutto e molto molto altro: come trascurare, infine, Le lacrime amare di Petra von Kant che diventano il terribile film Le lacrime amare di Maria Antonietta! Film non proprio necessario ma divertente.

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

François Ozon costruisce una mise en scène che racconta una serie di messe in scena sempre più clamorose: da quella casalinga allestita per il padrone di casa, a quel vero e proprio palcoscenico che è l’aula di tribunale, a quelle riservate ai media (si vedaChicago),ai futuri marito e suocero della protagonista, per concludere con quella per il teatro, il quale diventa così metafora della vita. D’altronde, come diceva il Bardo, “Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini e le donne sono soltanto attori che entrano ed escono dalla scena”.

Ci regala pezzi di bravura sia dei professionisti che ha scritturato (le giovani Tereszkiewicz e Marder, l’affermato Boon, i mostri sacri Huppert, Luchini e Dussollier), sia del terzetto di protagoniste del film (le due conviventi e la grande diva del muto); insieme mette in ridicolo la società maschilista e patriarcale della Francia degli anni ‘30, difendendo la causa delle donne non tanto mostrandone la virtù, in effetti assai discutibile, quanto piuttosto trattando quasi tutti gli uomini come una massa di individui ripugnanti o ridicoli, in un crescendo che va dal giornalista semplicemente ingenuo al giudice caricaturale e al produttore incarnazione della mascolinità più becera. Un meccanismo perfettamente oleato, che davvero procede come un treno nella notte

 

Marco Massara

(Jolly)

Omaggio al piacere della messa in scena.

La ‘pièce’ che risale addirittura a due secoli fa… è un puro pretesto narrativo per scatenare e rendere ben visibili tutte le potenzialità del cinema. Insomma, una ‘”pochade” d’altri tempi attualizzata con la cura dei particolari ed il piacere della citazione.

Non è un cinema destinato a lasciare tracce importanti nella memoria dello spettatore, ma l’effimero piacere del lasciarsi a cullare da una vicenda spumeggiante è assicurato.

 

 

 

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