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Il grande giorno
 

da domenica 17 a  venerdì 22 marzo 2024

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IL  GRANDE  GIORNO

REGIA DI MASSIMO VENIER

 

 

“Il grande giorno è ciò che il remake del francese C'est La Vie avrebbe voluto essere, perché racconta gli innumerevoli disastri che possono succedere durante un matrimonio dalle grandi ambizioni: ma qui il copione è tutto nuovo e tutto italiano, pieno di dettagli gustosi e di caratterizzazioni divertenti, dal maitre soprannominato "il Riccardo Muti del catering" (Pietro Ragusa) al cardinale Pineider (in omaggio ad una storica cartoleria che tra l'altro stampa partecipazioni di nozze) interpretato da Roberto Citran ad un prete di provincia (Francesco Brandi, anche narratore). (…)  Il cinema di Aldo, Giovanni e Giacomo ha una dimensione tutta sua: anche il ritmo di commedia non è quello forsennato che ci si aspetta nel 2022, ma per loro funziona, perché i tempi più dilatati tolgono ansia e lasciano spazio al gonfiare della risata capitalizzata sulla conoscenza che abbiamo delle loro maschere. È un cinema che, dopo un periodo di smarrimento e alcune cadute rovinose, ha saputo rinnovarsi nella continuità, tenendo conto del passare del tempo e di alcuni temi che diventano riflessioni quotidiane con l'avanzare degli anni. E ci sta restituendo quel "comfort food" che sono da sempre i loro film: sotto Natale, non potremmo chiedere di meglio.”

Paola Casella da mymovies.it

 

“Forse sotto l'albero non è il suo posto, ma Il grande giorno di Massimo Venier con Aldo (Baglio), Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) in forma crepuscolare, ovvero esistenziale, è più che discreto, va – ehm - a nozze col dramedy, fa i conti con le relazioni ed elegge il divano - né sdraiati, né eretti - a postura morale. È un film carino, nella sostanza umana, nei segreti e bugie di amici, mogli e mariti, figli, nelle geometrie variabili di famiglie allargate, unioni a scomparsa, sodalizi stagionali. Un po’ Casomai, un po’ C’est la vie!, un tot ispirato, un tot derivato, Il grande giorno eleva a potenza il trio che fu nella sua inclusività, nel suo essere primus inter pares, nell’andamento non più solista, ma sinfonico. La scelta, meritoria, va ascritta a AGG, nonché a Venier e al resto della squadra di scrittura, Davide Lantieri e Michele Pellegrini, già al lavoro per il precedente Odio l’estate (2020), sicché il loro undicesimo film si fa apprezzare non per le risate, che pure ci sono, quanto per il malessere che queste non riescono a dissimulare: è una commedia amara, dolente quanto basta, che (si) mette in discussione tra gaffes e incidenti nella sua capacità introspettiva, valenza psicologica, voltaggio residuale. Su quell’altro ramo del lago di Como, Giacomo e Giovanni, amici di vecchia data titolari della Segrate Arredi, stanno per sposare i figli, senza badare a spese: tre gironi di festeggiamenti, vini di pregio, chef di grido, cardinale celebrante e fuochi d’artificio. La situazione si incrina allorché l’ex moglie di Giovanni (Lucia Mascino) si presenta con il nuovo incontenibile compagno Aldo, ma è solo l’innesco del redde rationem, di un Festen un po’ ilare e un po’ lariano, che esalta in levare, per minimalismo le virtù attoriali di AGG e degli altri interpreti, tra cui le mogli Antonella Attili e Elena Lietti, il maitre Pietro Ragusa e il sacerdote Francesco Brandi.

Nulla per cui strapparsi i capelli, molto per non rimanere delusi, Il grande giorno ha gli occhi lucidi di Giovanni, l’istrionismo risonante di Aldo, il vomitino di Giacomo, sopra tutto, absit iniuria verbis, lo scarto esistenziale, l’anello, ehm, che non tiene, la seconda possibilità che lungi dall’essere dimezzata è foriera di felicità. Più che Chiedimi se sono felice (2000), dimmi che non lo sono, e cambiamo strada: le musiche di Brunori Sas aiutano, la sequenza del filmino – sì, abbiamo pure la mise en abyme… – commovente, Il grande giorno quasi un’antifrasi rivelatoria.”

Federico Pontiggia da cinematografo.it

 

“Parlare di Aldo, Giovanni e Giacomo significa parlare di una carriera lunga tre decenni. Di una comicità senza tempo che nel corso degli anni ha saputo offrire un’alternativa di qualità alla tradizione nostrana del cine-panettone e penetrare a fondo nel comune immaginario di più generazioni. Il grande giorno, come anche il suo immediato predecessore, gode dunque inevitabilmente di un ricco campionario citazionista: tornano Wagner, il celeberrimo capitano del Titanic, l’osteoporosi di Anplagghed e le tresche amorose alla Chiedimi se sono felice. Senza tralasciare il moderno riarrangiamento del “paradiso della brugola”, qui sostituito dalla società – e dal jingle – “Segrate Arredi – e sai dove ti siedi”. La delicatezza dei rimandi stride però con la fatica con cui Venier e soci volgono lo sguardo in avanti. E le pur confortevoli spire nostalgiche con cui il film tenta di avvolgere la narrazione, finiscono per stritolare la stessa, soffocando le potenzialità di alcuni spunti – almeno per buona parte di primo e secondo atto – nella semplicistica riproposizione di dinamiche note e protagonisti arrugginiti, condannati a vestire abiti antiquati, privi del mordente degli esordi.

Aldo, Giovanni e Giacomo, inizialmente stanche e sbiadite reminiscenze del proprio passato, riacquistano tuttavia spessore al “giro di boa”, quando, al collassare della sfarzosa struttura preconfezionata, riescono infine a liberarsi dal giogo della propria iconicità ed emergere con sincera naturalezza, squarciando il velo dell’artificiosità e meta-riflettendo sulla strada percorsa insieme. E benché ciò non sia sufficiente per ascrivere Il grande giorno tra i prodotti più riusciti del trio, il film “impara” a guardarsi dentro.”

Dario Boldini da sentieri selvaggi.it

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Agrodolce sequenza di sketch nello stile lombardo -siculo del trio su un plot classico della commedia e su un argomento oggi in grave crisi in Occidente: il Matrimonio (oltretutto in chiesa).

Dopo una solenne partenza socio - antropologica il tutto si risolve il una alternanza di gags e caratterizzazioni dei tipi talvolta esagerata (cfr. il prete - voce fuori campo scoperta solo alla fine).

Nonostante evidenti limiti il film diverte un ampio pubblico

 (anche di brianzoli presi di mira ...).

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Non è indolore la proiezione di Il grande giorno. L’ala dei cinefili oltranzisti non si presenta al Cineforum. Il gruppo liberal li accusa di snobismo culturale e non si fa problema alcuno a ridere alle gag del celeberrimo trio. Che poi, a ben vedere, è un quartetto perché Massimo Venier ha meriti indiscutibili nel successo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Anche nell’ultimo film, che sembra chiudere il ciclo iniziato nel lontano 1997 con Tre uomini e una gamba, la mano del regista varesino è riconoscibile. Nella prima parte dell’operina Venier sembra riprendere vezzi, virtù e battute che rimandano alla tradizione del trio: poi, nella seconda parte, gioca la carta del disincanto e dell’amarezza. Così il film rimane a metà, sospeso tra la risata e la smorfia. Ma nelle pieghe del film si legge in controluce una riflessione ora divertita, ora accorata sulla comune vicenda professionale. Ed è questo, a ben vedere, l'aspetto più interessante del film. 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

 

 Dalle brugole ai divani, l’umorismo si Aldo, Giovanni e Giacomo si conserva bene. Mai volgari, con un pizzico di surreale e un poco di pensosità, ci hanno fatto star bene per una serata, questa volta accompagnati da un cast robusto. Nel solco del loro tipico humour (Aldo il meridionale sempre sopra le righe, Giovanni e Giacomo due “brianzoli” così come ce li immaginiamo) con in più una malinconia sottile sulla natura complessa e imprevedibile dei rapporti umani (amorosi ma non solo). Solo leggero e divertente cabaret o qualcosa di più profondo? Aspettiamo come evolve la storia del nostro amato trio. Per ora verdino …

 

Rolando Longobardi

(venerdì sera)

un ritorno al cinema di Aldo Giovanni e Giacomo segnato dalla regia di Venier si nota ed è l'aggiunta di qualità a questo film narrativamente prevedibile anche se godibile.  la cifra stilistica di Venier emerge nella capacità di bar dialogare la macchina da presa con la narrazione e i tempi comici.  il risultato è un film che seppur non resterà negli annali della storia del cinema si lascia vedere strappando ance qualche risata.

Marco Massara

(jolly)

La riscrittura di “C’est la vie” nella lingua AldoGiovaGiacomese sostanzialmente si lascia vedere.

Riscrittura e non traduzione, in quanto dopo aver seguito la falsariga del film francese con le prevedibili gag in stile slapstick comedy, Massimo Venier, reduce dal positivo remake dell’ingombrante “Vedovo” dell’ingombrante Dino Risi, fa prendere al film una piega agrodolce mettendo sia in scena il tema dell’amicizia e del suo tradimento, che in piazza gli inevitabili pettegolezzi provincialotti.

Decisamente da evitare invece l’ ‘imbullonato’ pistolotto con le vicende finali dei personaggi. Appesantisce inutilmente un film che, come scritto all’inizio, si lascia vedere con apprezzabile scorrevolezza.

 

 

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Rapito
 

da domenica 10 venerdì 15 marzo 2024

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RAPITO

REGIA DI MARCO BELLOCCHIO

 

 

Kavac Film, Rai Cinema

 

“Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al "Papa Re" Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un'educazione cattolica che lo "liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei". I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un "non possum" e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità. Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l'interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l'azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.

La fonte letteraria è Il caso Mortara di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l'antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di "costringere gli ebrei a tornare nel loro buco", risigillando la porta del ghetto.

Ma al di là dell'aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un'identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte (il che equivale ad una sottolineatura indelebile), il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l'una che spera, l'altra che inchioda il bambino al suo destino (quando la scena più bella del film è quella in cui il piccolo Edgardo toglie i chiodi dal corpo di Gesù "ucciso dagli ebrei"); un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; un ostinato "ora pro nobis" e un'irruzione della Storia laica.

E per tre volte l'identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo - la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del "rapito" - che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda "Dove è finito Edgardo?", rimando ad una scena iconica di Fai bei sogni, dove la madre, come qui, era Barbara Ronchi.

Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato (…) Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un "non è successo niente".

È violenta la palette cromatica di Rapito, a cominciare dal sigillo rosso sangue con cui viene ratificato il destino di Edgardo, è violento il contrasto caravaggesco fra le poche luci e le molte ombre (la fotografia è di Francesco Di Giacomo); e supremamente violento è l'atto di strappare un figlio alla madre.

Rapitoè un horror ammantato di carità cristiana, un "miserere nobis" che cancella ogni colpa con una formula assolutoria. "Ci vorrebbe Attila", si dirà ad un certo punto, davanti a tale bigottismo, e la regia muscolare di Bellocchio manda altrettanto a gambe all'aria ogni convinzione precostituita e autolegittimante, rifiutando radicalmente ogni sistema di potere basato sul senso di colpa in cui il regista stesso è stato immerso, e dal quale non potrà mai prescindere del tutto, come emerge con chiarezza dal suo cinema, e in particolare dal documentario Marx può aspettare.”

Paola Casella da mymovie.it

 

“La storia è ben nota a pochi (chi conosce le vicende risorgimentali, chi vive o studia il rapporto tra cattolici ed ebrei, i cultori della storia della Chiesa contemporanea) e al tempo stesso pressoché sconosciuta presso il grande pubblico.(…)

Evidente che si tratti di una storia potente da raccontare ma alquanto delicata, per le sensibilissime corde che si vanno a toccare. Lo sa bene Steven Spielberg che da un decennio ha in animo di dare vita al suo progetto The Kidnapping of Edgardo Mortara.

Bellocchio per affrontare una vicenda così complessa, abilmente narrata con il passo dell’interno familiare, si è circondato di una squadra di livello. (…) Il film è ben riuscito e prende per mano (e per i sentimenti) lo spettatore, guidandolo dentro la vicenda e il suo tempo, ricordando le condizioni degli ebrei nei ghetti di Bologna e Roma nell’Ottocento, della perdita forzosa ma provvidenziale del potere temporale della Chiesa, di un’Italia per una parte importante ancora “da fare”.

Bellocchio con sincerità affronta la storia senza ideologie e pregiudizi ma rimanendo aderente ai fatti (sul Risorgimento preziosa la collaborazione di Pina Totaro) mostra sfumature e contraddizioni di tutte le parti in causa (e non solo dell’istituzione ecclesiastica) e - con la solita maestria - la complessità psicologica dei protagonisti. Sempre con rispetto, non solo formale, dei dati di fede cristiani, ebraici e della causa risorgimentale. (…) Rimane in ombra (peccato, si poteva attingere dal memoriale che ha lasciato) la questione chiave, uno dei tratti più interessanti e meno esplorati dalla pubblicistica sul caso: la libertà interiore del ragazzo, che educato forzatamente al cattolicesimo, sceglie di abbracciare la vocazione sacerdotale, confermandola con convinzione in tutta la sua lunga esistenza.(…) Bellocchio torna a lavorare sulle pagine controverse della storia, affrontando il tema del potere, realtà umanissima che al netto delle violenze di cui può rendersi protagonista porta inevitabilmente con se insuperabili imperfezioni. Gli abusi e le contraddizioni di ogni genere di potere (della chiesa, degli ideali politici, dei tribunali…) che il film testimonia, pur condizionando gravemente la vita di molti non hanno la possibilità di soffocare la libertà personale che – pur nella sofferenza – la coscienza individuale custodisce.

Rapitoè così un film sulla supremazia della libertà personale rispetto al potere precostituito e del percorso per affermarla.”

Davide Milani da cinematografo.it

 

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Tradimento/ ripudio improvviso del gruppo di appartenenza? Dominio ingombrante - ma irrinunciabile - delle figure materne? Orrore e fascino della Religiosità? Prepotenze ed abusi del Potere. Impenetrabilità dei sentimenti e delle pulsioni irrazionali? Reclusione in carcere o in manicomio di vittime/distruzione innocenti?

Angoscia della morte e stupore davanti all'auto - annientamento i?

Tutti i temi e le ossessioni dell'ottantacinquenne ex - studente di vari collegi ecclesiastici si condensano di nuovo qui in una tenebrosa ricostruzione storica della fine dell'ultimo Papa-Re.

Se è più che chiaro l'intento e il torrenziale sfogo anticlericale (ma l' episodio della partecipazione di Mortara all' assalto della bara del Papa, da cui per altro  lui ha preso il nome  da sacerdote, è inventata...) tutti gli altri tormenti restano irrisolti, sospesi e acutissimi.

La regia solida ed esperta tiene comunque a bada un magma di emozioni, luci ed ombre, abiti ed ambienti, musiche e canti sacri che rischiano talvolta solo di debordare nel grottesco.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

 

Marco Bellocchio cala l’asso pigliatutto e conquista il Bazin.Basta l’incipit angoscioso e inquietante di Rapito per sedurre gli aficionados del Cineforum. Con la consueta efficacia stilistica, Marco Bellocchio dà vita a una pellicola che ha un ritmo straordinario e incessante, capace di tenere alta la tensione della sala dalla prima all’ultima inquadratura. Generale compiacimento del pubblico per l’ispirato cast (da Barbara Ronchi a Fabrizio Gifuni) dove un apprezzamento speciale va a Paolo Pierobon per la sua sfaccettata rappresentazione di Papa Pio IX. Tutti i presenti in sala ritrovano con compiacimento un approccio cinematografico attento a rispettare la Storia collettiva e le storie individuali in un affresco di grande potenza visiva.

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

È possibile dire che un film ha come difetto quello di offrire troppo allo spettatore? Se la risposta fosse positiva, Rapito si ascriverebbe a questa categoria. Una scenografia bellissima, oscura e inquietante; una dimensione fantasmatica che traduce incubi o desideri; una impaginazione superba, perfetta nei richiami tematici e nel frequente montaggio alternato. Soprattutto una ricchezza di temi che fornirebbero materiali per più opere; facciamo solo alcuni esempi in merito: un primo tema è certamente la descrizione di una Chiesa e di un Papa potenti e arroganti ma le loro azioni violente si accompagnano alla volontà di “salvare” il piccolo Mortara e così il Papa, con un gesto che ripete quello materno (queste madri così volitive), nasconde Edgardo sotto le vesti! Ma un secondo film potrebbe essere dedicato alla ricezione che si ha di una violenza subita, adattandosi e trovandola persino giusta, trovandosi persino “bene” tra chi l’ha commessa. È solo un problema di educazione? Un terzo film potrebbe essere dedicato al motivo della responsabilità di chi commette violenza … e qui mi fermo. Film importante ma eccessivo, troppo stordente!

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Marco Bellocchio ci racconta un fatto storico preciso per mostrare la capacità distruttiva di ogni ideologia, anche quella che dovrebbe esprimere l’amore infinito di Dio per l’uomo. Da una parte abbiamo le persone semplici, come Momolo e la sua famiglia, che vogliono solo vivere insieme. Dall’altra la spietata logica di una religiosità disincarnata, per la quale si può strappare un bambino alla famiglia solo perché è stato battezzato, e dunque è cristiano, come se l’esserlo non avesse a che fare con la libertà dell’individuo. E anche i nuovi dominatori non sembrano tanto meglio, visto che il loro obiettivo non pare il ritorno a casa di Edgardo, bensì l’affermazione del diritto dello Stato a giudicare la Chiesa, cioè la difesa di un’altra, solo più moderna, ideologia.

In mezzo si trova il “rapito”, costretto a mentire, dissociare cuore e mente, fino a ridursi a un misero alienato che non sa più quel che vuole e cerca addirittura di battezzare la madre morente, cioè di ripetere il tragico errore che gli ha rovinato l’esistenza.

Tutto questo ci viene posto davanti senza didascalismi, ma con la pura forza delle immagini, della narrazione, dei suoni, del Cinema, insomma

 

 

 

 

Marco Massara

(Jolly)

 

Troppa roba…. Bellocchio lo conosciamo bene come i suoi attacchi al Potere, ecclesiastico o no. Qui forse c’è un secondo bersaglio: l’ignoranza, rappresentata dalle preghiere recitate meccanicamente, dai rituali accettati acriticamente ed incarnata nella ‘ministra’ del battesimo che si esprime solo in uno stentato dialetto.

La coda storica, con la rappresentazione di Porta Pia ed il resto, appesantisce inutilmente la narrazione.

Meno male che nel finale la madre ‘vuole morire ebrea’, altrimenti il meccanismo drammaturgico sarebbe stato troppo forzato.

 

 

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Mon Crim
 

da domenica 24 febbraio a venerdì 1 marzo 2024

 

IO VIVO ALTROVE

REGIA DI GIUSEPPE BATTISTON

 

 

“Durante una gita di fotoamatori, due uomini di mezza età di Roma, entrambi di nome Fausto, si conoscono e diventano amici. Il primo è un bibliotecario vedovo e dall'animo gentile, il secondo un tecnico del gas dall'aria dimessa che vive ancora con la madre. Un'improvvisa eredità spinge il primo Fausto e proporre all'amico di mollare tutto e trasferirsi al nord, nelle campagne del Friuli, dove vivere liberi praticando l'agricoltura e cercando l'indipendenza economica. Volenterosi ma inetti, i due Fausto provano inutilmente a imparare sui libri il mestiere di agricoltori e coi loro disastri si alienano le simpatie della gente del luogo. Ingenui e ottusi, anche dopo un incidente non perderanno, però, l'entusiasmo e la voglia di fare...

Per il suo esordio alla regia, Giuseppe Battiston si è ispirato liberamente a Bouvard e Pécuchet di Flaubert per una commedia sul ritorno alla natura e sull'incrollabilità dei sogni. Ma il sogno di entrare in comunione con la terra e i suoi prodotti vale sempre la pena di essere perseguito? E la fiducia nelle proprie capacità, sia pratiche sia intellettuali, è sempre sinonimo di bontà, di coraggio, di forza, e non magari di ossessione, di tenacia mal riposta o, peggio, di quel dilettantismo della volontà che rendeva ridicoli già gli amabili e buffi personaggi di Flaubert? (…) Battiston ha riunito nella sua figura i dubbi di un sognatore e i patetici sforzi di un uomo fallito ma ostinato. Il film stesso, con i suoi toni svagati e bonari, con la sua anima dolce e un po' programmatica, sembra aver assorbito l'esibita incertezza del progetto: il personaggio dello stesso Battiston, il primo Fausto, compìto ed elegante anche quando zappa la terra, ribalta in maniera interessante la tipica figura dell'attore friulano (…), costringendolo però lo stesso Battiston ad assumere toni forzati e mai del tutto spontanei; la regia è misurata, un po' impacciata e formale come i due protagonisti, ma per questo inevitabilmente scolastica, senza guizzi; la scrittura, infine, è didascalica ed edulcorata, anche in questo caso per restare al passo con l'ingenuità soprattutto del primo Fausto (che la rivelazione finale inquadra però meglio come uomo segnato dal dolore), finendo però per scadere nel bozzettistico quando raffigura la variegata umanità del paesino di campagna, tra il prete dall'animo combattente, due fratelli un po' matti ma buoni, una farmacista francese bella e amorevole, i vicini di casa gretti e antipatici...

Resta, come unico aspetto fuori dagli schemi di questo film corretto fino all'anonimato, la strana amicizia fra i due Fausto, con il secondo ben interpretato da un Rolando Ravello il cui piccolo uomo timido e sconfitto aggiorna il personaggio di Romanzo di un giovane povero di Scola (era il 1995). Per fortuna priva di connotazioni omoerotiche, la relazione fra i protagonisti di Io vivo altrove! rappresenta nella sua unicità l'estraneità di due sognatori al mondo che li circonda, rendendoli principi di un mondo inesistente e ridicolo, ma senza dubbio libero o, meglio ancora, altrove.”

Roberto Manesseno da mymovies.it

 

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Mon crime
 

da domenica 24 febbraio a venerdì 1 marzo 2024

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MON  CRIME

REGIA DI FRANCOIS OZON

 

“Procedendo al ritmo di un film all'anno, François Ozon non smette di girare e di concimare i generi. Soltanto ieri firmava Peter von Kant, evocazione impertinente del suo idolo, Rainer Werner Fassbinder, e otto mesi più tardi è di ritorno con una commedia che riconfigura il presente col sorriso aperto e la giusta dose di insolenza. Perché quella che avrebbe potuto essere una screwball comedy nostalgica dispiega, al contrario, una vitalità organica che 'suona' le note moderne delle protagoniste.

Con 8 donne e un misteroe Potiche, Mon Crime forma una sorta di trilogia ideale, inscrivendosi nella vena più popolare e leggera dell'autore. Un trittico scintillante che condivide lo stesso DNA e gli artifici della rappresentazione scenica, perché il teatro resta la sorgente d'ispirazione maggiore per Ozon, come se la teatralità gli permettesse di celebrare meglio il cinema. Ma Mon Crime è altrettanto ossessionato dalla storia del cinema e ritrova lo spirito delle commedie sofisticate dell'età dell'oro hollywoodiana. Una stagione glamour, sublimata tra gli altri da Ernst Lubitsch e Howard Hawks, dove i personaggi si affrontano a colpi di repliche e le donne portano volentieri i pantaloni. (…) Comme d'habitude, Ozon va oltre il testo che lo ispira. Mentre le nostre eroine 'prendono la parola' (e la pistola), il film allude a una possibile deriva del potere femminile. (…) Il femminismo ostentato non manca di ambiguità, l'emancipazione e la scalata sociale delle protagoniste passano di fatto per le bugie e la manipolazione. Perfidia intrigante di un film che dietro il divertissement e i virtuosismi verbali si rivela più sovversivo di quanto le sue 'buone maniere' lascino intendere. (…) Ma ancora più bella è la maniera generosa di Ozon di invitare due attrici in divenire, e tra le più promettenti della loro generazione, nello star system francese. Intorno a Nadia Tereszkiewicz, che incarna la 'deliziosa' colpevole che il pubblico, da convenzione, ama odiare, e Rebecca Marder, novizia del foro che farà di lei un'icona femminista, ruotano come satelliti Fabrice Luchini, giudice conservatore che ha fretta di archiviare l'omicidio invece di chiarirlo, Dany Boon, affarista provenzale con accento di Marsiglia e baffo malandrino, e Isabelle Huppert, attrice del muto lanciata a pieno regime contro il privilegio maschile dominante. In questo gioco di ruoli, di inganni e di massacro, la tentazione di mettere in competizione gli interpreti è grande ma è più appropriato constatare l'inarrestabile effetto comico che producono insieme generando un miracolo: la verità dietro tanto trucco.”

Marzia Gandolfi da mymovies.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Puro divertissement attoriale, simpatico caleidoscopio di invenzioni narrative, denso crogiolo di citazioni ed omaggi al cinema di ieri e dell'altroieri, con strizzatine d'occhio alla pochade, ma con occhi spalancati sulla lubrica società - non solo odierna - del mondo dello spettacolo e anche oltre.

 

Angelo Sabbadini

(lunedìì sera)

Gongolano i fedeli del cineforum: si proietta Francois Ozon e i più lo candidano come film dell’anno. E hanno ragione perché il pirotecnico Mon Crime ha il pregio impagabile della leggerezza E poi è un film eversivo che inneggia alle potenzialità illimitate dell’alleanza tra donne. Arguta farsa d’epoca tratta dagli sconosciuti Georges Beer e Louis Verneil ha un cuore assolutamente contemporaneo e ripropone con dialoghi cesellati e pieni di arguzia tanti temi cari al prolifico regista francese. La recitazione scandita, da Comédie Francaise, fa parte del gioco e affidata ad uno straordinario cast attoriale in vena di autoironia è di uno spasso irresistibile.

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Ancora un film dedicato al rapporto “uomo/donna” o, meglio, ai modi, agli strumenti, a come esercitare l’autonomia e l’emancipazione. Questa volta il racconto è declinato con grande giocosità, con un evidente gusto per l’affabulazione e il paradosso, con i modi dell’ironia e un collage del cinema passato (citato esplicitamente o soltanto alluso) e del teatro, col suo implicito rapporto, sempre stimolante, tra realtà e finzione, verità e menzogna (l’aula di un tribunale che diventa una scena teatrale, ad esempio, dove si “recita” il falso resoconto di un omicidio effettivamente avvenuto). Ozon, tornato ai modi della pochade dopo il “serio” È andato tutto bene, impiega un cast importante, dove tutti recitano un po’ sopra le righe, come negli anni ‘30; tra Billy Wilder e il suo unico film francese, le acconciature di Madeleine tra Lulù-Louise Brooks e Marlene Dietrich, l’abbigliamento di Pauline alla Katharine Hepburn, rimarchevole è Isabelle Huppert in versione comica, un po’ Gloria Swanson un po’ Crudelia Demon (ma sottinteso c’è anche Chabrol). Insomma troviamo di tutto e molto molto altro: come trascurare, infine, Le lacrime amare di Petra von Kant che diventano il terribile film Le lacrime amare di Maria Antonietta! Film non proprio necessario ma divertente.

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

François Ozon costruisce una mise en scène che racconta una serie di messe in scena sempre più clamorose: da quella casalinga allestita per il padrone di casa, a quel vero e proprio palcoscenico che è l’aula di tribunale, a quelle riservate ai media (si vedaChicago),ai futuri marito e suocero della protagonista, per concludere con quella per il teatro, il quale diventa così metafora della vita. D’altronde, come diceva il Bardo, “Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini e le donne sono soltanto attori che entrano ed escono dalla scena”.

Ci regala pezzi di bravura sia dei professionisti che ha scritturato (le giovani Tereszkiewicz e Marder, l’affermato Boon, i mostri sacri Huppert, Luchini e Dussollier), sia del terzetto di protagoniste del film (le due conviventi e la grande diva del muto); insieme mette in ridicolo la società maschilista e patriarcale della Francia degli anni ‘30, difendendo la causa delle donne non tanto mostrandone la virtù, in effetti assai discutibile, quanto piuttosto trattando quasi tutti gli uomini come una massa di individui ripugnanti o ridicoli, in un crescendo che va dal giornalista semplicemente ingenuo al giudice caricaturale e al produttore incarnazione della mascolinità più becera. Un meccanismo perfettamente oleato, che davvero procede come un treno nella notte

 

Marco Massara

(Jolly)

Omaggio al piacere della messa in scena.

La ‘pièce’ che risale addirittura a due secoli fa… è un puro pretesto narrativo per scatenare e rendere ben visibili tutte le potenzialità del cinema. Insomma, una ‘”pochade” d’altri tempi attualizzata con la cura dei particolari ed il piacere della citazione.

Non è un cinema destinato a lasciare tracce importanti nella memoria dello spettatore, ma l’effimero piacere del lasciarsi a cullare da una vicenda spumeggiante è assicurato.

 

 

 

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Io vivo altrove!
 

da domenica 3 venerdì 8 marzo 2024

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IO VIVO ALTROVE

REGIA DI GIUSEPPE BATTISTON

 

 

“Durante una gita di fotoamatori, due uomini di mezza età di Roma, entrambi di nome Fausto, si conoscono e diventano amici. Il primo è un bibliotecario vedovo e dall'animo gentile, il secondo un tecnico del gas dall'aria dimessa che vive ancora con la madre. Un'improvvisa eredità spinge il primo Fausto e proporre all'amico di mollare tutto e trasferirsi al nord, nelle campagne del Friuli, dove vivere liberi praticando l'agricoltura e cercando l'indipendenza economica. Volenterosi ma inetti, i due Fausto provano inutilmente a imparare sui libri il mestiere di agricoltori e coi loro disastri si alienano le simpatie della gente del luogo. Ingenui e ottusi, anche dopo un incidente non perderanno, però, l'entusiasmo e la voglia di fare...

Per il suo esordio alla regia, Giuseppe Battiston si è ispirato liberamente a Bouvard e Pécuchet di Flaubert per una commedia sul ritorno alla natura e sull'incrollabilità dei sogni. Ma il sogno di entrare in comunione con la terra e i suoi prodotti vale sempre la pena di essere perseguito? E la fiducia nelle proprie capacità, sia pratiche sia intellettuali, è sempre sinonimo di bontà, di coraggio, di forza, e non magari di ossessione, di tenacia mal riposta o, peggio, di quel dilettantismo della volontà che rendeva ridicoli già gli amabili e buffi personaggi di Flaubert? (…) Battiston ha riunito nella sua figura i dubbi di un sognatore e i patetici sforzi di un uomo fallito ma ostinato. Il film stesso, con i suoi toni svagati e bonari, con la sua anima dolce e un po' programmatica, sembra aver assorbito l'esibita incertezza del progetto: il personaggio dello stesso Battiston, il primo Fausto, compìto ed elegante anche quando zappa la terra, ribalta in maniera interessante la tipica figura dell'attore friulano (…), costringendolo però lo stesso Battiston ad assumere toni forzati e mai del tutto spontanei; la regia è misurata, un po' impacciata e formale come i due protagonisti, ma per questo inevitabilmente scolastica, senza guizzi; la scrittura, infine, è didascalica ed edulcorata, anche in questo caso per restare al passo con l'ingenuità soprattutto del primo Fausto (che la rivelazione finale inquadra però meglio come uomo segnato dal dolore), finendo però per scadere nel bozzettistico quando raffigura la variegata umanità del paesino di campagna, tra il prete dall'animo combattente, due fratelli un po' matti ma buoni, una farmacista francese bella e amorevole, i vicini di casa gretti e antipatici...

Resta, come unico aspetto fuori dagli schemi di questo film corretto fino all'anonimato, la strana amicizia fra i due Fausto, con il secondo ben interpretato da un Rolando Ravello il cui piccolo uomo timido e sconfitto aggiorna il personaggio di Romanzo di un giovane povero di Scola (era il 1995). Per fortuna priva di connotazioni omoerotiche, la relazione fra i protagonisti di Io vivo altrove! rappresenta nella sua unicità l'estraneità di due sognatori al mondo che li circonda, rendendoli principi di un mondo inesistente e ridicolo, ma senza dubbio libero o, meglio ancora, altrove.”

Roberto Manesseno da mymovies.it

Giulio Martini

Domenica pomeriggio)

Il debuttante friulano Battiston si misura con il libro incompiuto di Flaubert, ma dirige il discorso sul mito attuale secondo cui il semplice ritorno alla Natura e/o all'Agricoltura risolva i guasti della vita e della civiltà metropolitana rendendo tutto davvero genuino, amicizia compresa. Ci credevi? È solo una favola nostalgica? O una ubriacatura intellettuale? Troppi libri letti  

Rispetto a " Le 8 Montagne* o a * Il vento fa il suo giro* qui l'ottimismo impera. Ma qualche fragilità di sceneggiatura - al limite della verosimiglianza - dimostra che assumere il ruolo di Regista (ormai vizio diffuso tra gli attori di mezzo mondo) non è facile anche per uno bravo e simpatico interprete come lui.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Cosa spinge gli attori italiani a passare compatti alla regia  Il bisogno di autonomia? Un imperativo di produzione? Comunque sia, si accoda alla lunga lista anche il talentuoso Giuseppe Battiston, già al seguito di solidi autori come Soldini e Mazzacurati. E il suo Io vado altrove è innanzitutto un omaggio ai suoi numi tutelari citati con sincero e appassionato affetto. E poi una straordinaria occasione per riunire sul set i sodali di una vita: Alfonso Santagata, compagno di mille avventure teatrali, Rolando Ravello che lo ha diretto in È per il tuo bene, Ida Marinelli, conosciuta durante la formazione giovanile a Milano e via includendo. Il punto di partenza è ambizioso: il mirabile romanzo Bouvard e Pécuchet. Con la differenza che Battiston, a differenza di Gustave Flaubert, s’identifica totalmente nei due eroi del fallimento, eliminando ogni distanza tra la regia e i due buffi personaggi. L’adesione incondizionata non giova alla lucidità del disegno narrativo: alcune sequenze (su tutte la festa di benvenuto) difettano di mestiere registico e l’epilogo iterato oltre ogni dire è decisamente faticoso. L’intelligenza però non manca al bravo attore di Udine che ha già dichiarato che nel prossimo film si dedicherà unicamente alla regia.

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Film d’esordio di Battiston non proprio memorabile, in alcuni punti faticoso e scontato, altrove più simpatico e divertito, soprattutto dove ricorda i toni (i personaggi comuni) e i luoghi (la marginalità e i confini orientali) del regista che più lo ha apprezzato, Carlo Mazzacurati. La vicenda flaubertiana trasportata in Friuli ha una sua ragione d’essere, sottolineare come la campagna aiuti a riscattare una vita di dolori e affanni e la arricchisca di autentici valori, ma la storia è deboluccia. I molteplici sottofinali, poi, sembrano denotare una difficoltà a concludere, del resto anche il romanzo di Flaubert da cui trae ispirazione è incompiuto!

 

 

Giulio Martini

(venerdì sera)

Giulio ha sostituito Giorgio

Marco Massara

(Jolly)

Potrebbe essere un elogio del dilettantismo bucolico (seguendo la pista di Flaubert cui il film si riferisce esplicitamente) con in più una acrobazia finale.

Le intenzioni sono buone e la simpatia non manca; quella verso Battiston è collaudata, ma quella verso      Rolando Ravello che interpreta il “Fausto perito elettrotecnico” è una piacevole novità.

Purtroppo per l’evolversi della vicenda è troppo prevedibile, troppo da onesto manuale di sceneggiatura, e manca quel ‘quid’ capace di coinvolgere di più lo spettatore.

Alla prossima!

 

 

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