Titolo

Oppenheimer

 

 

da domenica 19 a  venerdì 24 maggio 2024

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O P P E N H E I M E R

REGIA DI CRISTOPHER  NOLAN

 

IO CAPITANO

 

“Gocce di pioggia sollevano increspature sull'acqua di una pozzanghera: si apre così Oppenheimer, su quello che diventerà un motivo figurativo ricorrente, ripreso per esempio mentre il protagonista guarda una mappa e immagina la caduta di bombe atomiche sulle città, le cui esplosioni sollevano increspature come la pioggia dell'incipit. In mezzo c'è un episodio enigmatico, un breve incontro con Einstein che appare come un affronto agli occhi dell'egocentrico Lewis Strauss. Questi è una figura poco geniale ma con manie di grandezza, che sta a Oppenheimer come Salieri stava a Mozart. Il vero significato di quella sorta di Rosabella che è la conversazione con Einstein si aprirà solo nell'epilogo, quando alla reazione a catena acquatica dell'incipit risponderà un tripudio di fuoco. (…) La circolarità tanto cara al regista dunque non manca e neppure la grandiosità. Il primo film in cui è stata utilizzata pellicola in bianco e nero IMAX 70mm. andrebbe infatti visto in una sala consona, che purtroppo in Italia continua a non esistere. (…) Pur con le sue imperfezioni, che in fondo la rendono anche vitale nonostante l'approccio freddamente calcolato di Nolan al cinema, Oppenheimer è un'opera nel complesso affascinante, complessa e stratificata. Tratta dalla biografia del 2005 "Prometeo americano" di Kai Bird e Martin J. Sherwin, è una pellicola per nulla facile per la sbalorditiva quantità di dettagli storici e di personaggi coinvolti, ma sorretta da un cast stellare.”

Andrea Fornasiero di mymovies.it

 

“Non credo davvero che sia questo il vero Nolan. Più correttamente: è forse il Nolan che ottiene e otterrà lo universal acclaim ma non quello che merita di essere definito un autore (sempre che la definizione, qui e ora, abbia ancora un senso univoco e condiviso). L’Autore Nolan, semplificando molto ma non troppo, è quello che sviluppa un'idea /soggetto/sfida e cerca le modalità specificatamente cinematografiche più adatte a realizzare quest’idea/ soggetto/sfida (…) L’Autore Nolan è quello che inventa congegni narrativi e spiega agli spettatori come funzionano, trascinandoli quasi nel processo creativo. E dell’Autore Nolan, in Dunkirk prima e in Oppenheimer adesso, c’è poco. E il poco che c’è potrebbe (dovrebbe?) anche non esserci. Per converso, l’Autore Nolan non è un grande sceneggiatore. Di fatto, direi che è più un grande soggettista incapace poi di scrivere personaggi e dialoghi credibili e/o profondi (…) Oppenheimer è, insomma, un brutto film? Non esattamente. si potrebbe concludere dicendo che Oppenheimer è il Nolan che il grande pubblico e l’Industria Cinema merita(no) ma non quello di cui la Storia Del Cinema ha bisogno.”

Gianluca Pelleschi da Spietati.it

 

“Basandosi sulla fluviale e dettagliatissima biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin (American Prometheus, Premio Pulitzer nel 2006), Nolan rompe come di consueto ogni linearità d’azione e intreccia tre linee temporali nella vita del “padre della bomba atomica”: nel 1942 Robert Oppenheimer (Cillian Murphy nel ruolo della vita) è incaricato dal generale Leslie Groves (Matt Damon) di guidare il Progetto Manhattan per arrivare alla costruzione di una bomba a fissione nucleare prima della Germania nazista; nel 1954 la Commissione per l’Energia Atomica interroga Oppenheimer sulle sue passate frequentazioni con il partito comunista americano e sulla sua attuale ritrosia alla sperimentazione della bomba a idrogeno; infine, nel 1959, il segretario al commercio Lewis Strauss (Robert Downey jr.) viene ascoltato in varie audizioni del Senato americano sui suoi rapporti con Oppenheimer e su presunte manipolazioni di molte verità per meri fini personali (prima che ideologici). In queste tre linee temporali incontriamo decisivi personaggi storici (interpretati da un numero impressionante di divi, difficili anche da nominare in una singola recensione) che strutturano un mosaico stilisticamente e narrativamente troncato in due da un evento. O meglio, dall’Evento per antonomasia. La detonazione del primo ordigno nucleare della storia, il Trinity test del 16 luglio 1945 nel deserto di Los Alamos, esperimento che non solo cambierà il corso della Seconda guerra mondiale “ma cambia definitivamente il mondo” (come sintetizza il fisico danese Niels Bohr interpretato da Kenneth Branagh).

Ecco il perfetto algoritmo nolaniano: tre linee temporali orizzontali (la scienza, il potere, la redenzione) e due blocchi verticali (divisi dalla bomba come rivelazione di un nuovo ordine mondiale). Nella notevole prima parte del film Nolan concepisce ogni inquadratura come estensione dello sguardo di un geniale fisico-teorico che utilizza la sua conoscenza per disarticolare la materia (decisivo in tal senso l’utilizzo della pellicola 70mm IMAX) riportandola a pura radiazione elettromagnetica (quindi a particelle di luce) con effetti di polverizzazione del visibile. (…) Lo spettacolo terribile del primo esperimento atomico, con la costruzione di un enorme set a Los Alamos e poi con la detonazione dell’immagine mancante della modernità, porta con sé i fantasmi in fuori campo dell’indicibile apocalisse di Hiroshima e Nagasaki. Ed è questa la parte più libera e densa del film di Nolan, con le auricolarizzazioni interne di un personaggio che fa esplodere continue bombe emotive represse. (…)  Con Robert Oppenheimer sempre più in bianco e nero, roso dal senso di colpa e in cerca di redenzione (“i fisici hanno conosciuto il peccato e da questa consapevolezza non potranno mai liberarsi”). E con gli equilibri narrativi sbilanciati verso il thriller politico sui fantasmi del maccartismo nel quale solo la moglie Kitty Puening e il ricordo amoroso di Jane Tatlock (interpretate rispettivamente da Emily Blunt e Florence Pugh, bravissime entrambe) riescono a preservare l’ultimo afflato umanista. Questa è la parte più tradizionalmente nolaniana, geometrica, fredda, che tende a costruire con pazienza un the prestige narrativo custodito sin dalle prime inquadrature dal mentore Einstein. Ci risiamo, certo. Ma questa volta il discorso filmico del regista-prestigiatore-demiurgo è un po’ meno ingombrante del solito, perché è la densità della materia narrata a garantire la nostra aderenza emotiva.

Concludendo, con i suoi pregi e difetti, Oppenheimer è un film importante per il XXI secolo ed è probabilmente il film più riuscito di Christopher Nolan. Un film costruito su uno squilibrio narrativo e formale sin troppo pensato (e dialogato…) ma che sa cogliere in maniera lucidissima il perturbante balenare della bomba nella storia (e nelle storie) come rottura del tempo lineare e creazione di un nuovo cyberspazio. Nuovi colori, umori e formati dell’immagine che ridisegneranno i confini visibili del mondo tra orizzonti utopici e previsioni distopiche, fusioni fredde di estatica rivelazione e guerre fredde di lugubre manipolazione. Insomma, Cillian Murphy/Robert Oppenheimer chiude gli occhi e interroga urgentemente il nostro presente… per un film del 2023 non è certo una cosa da poco.”

Pietro Masciullo da sentieriselvaggi.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Strabiliante rievocazione del tormentato scienziato ebreo, che voleva sconfiggere i demoni nazisti ma poi temette l'Apocalisse.

I problemi  più  ardui e astratti  delle teorie fisiche del '900, le complesse relazioni interpersonali, i labirintici intrighi politici ed i rebus morali si accavallano e scavalcano in un racconto montato  "alla Nolan", con immagini splendide e dialoghi spinosi.

Tre ore appassionanti di cinema.

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Bella la stagione di cinema che abbiamo vissuto al Bazin ! Si chiude con un campione: Christopher Nolan. Il regista inglese mette alla frusta gli aficionados del cineforum con la sua ardita scomposizione della linearità degli eventi. Costringendo così il pubblico in sala a confrontarsi con il loro significato, più che con il loro sviluppo. Idea geniale che conduce gli spettatori nella mente di Oppenheimer (Cillian Murphy). Quest’ultimo è di gran lunga il personaggio più ambiguo della filmografia di Nolan. Oppenheimer infatti non è uno scienziato che ripudia il suo lavoro, opta invece per il suo contenimento, diventando, come è stato osservato, il primo tecnocrate della Storia.

 

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

 

 Tra rutilanti colori, stupefacenti effetti speciali, musiche fragorose, andirivieni temporali, ottima recitazione, Nolan, che è uno bravo, ci ammansisce un film monstre. Al termine però, invece di entusiasta meraviglia, ho provato un disagio sottopelle, intenso e fastidioso. Perché, mi sono chiesta. Perché è prolisso, noioso e scontato nei personaggi e nei passaggi chiave della storia? Perché Einstein è ridicolo e sembra quello che fa la pubblicità ad un supermercato? Perché asseconda il luogo comune dello scienziato matto? Tutto vero, ma troppo poco. Perché non problematizza nessuna tra le infinite questioni legate all’atomica? Ma è solo un film, non un trattato di morale o di filosofia della scienza. Perché dobbiamo gioire per un lieto fine perché a Oppenheimer viene finalmente resa giustizia? E già qui le cose si complicano. Perché i cattivi sono i politicanti arrivisti e i loro tirapiedi? Perché chi è davvero un patriota è americano (e viceversa)e russi (ugualmente bolscevichi e anticomunisti), tedeschi, inglesi e altra umanità sono crudeli oi nfidi? E questa spiegazione mi piace di più. Perché è un film smaccatamente patriottico e ideologico, come non se ne vedeva da anni (ah, la falsa coscienza che non mette in discussione la narrazione americana circa la scelta di sganciare non una ma due bombe su un Giappone sconfitto, giusto perché faceva brutto provarla direttamente sui sovietici, i cui scienziati però erano così tonti da costruire la bomba solo grazie ad una spiata di un anglo-tedesco)? Non so, non ho ancora deciso e quindi mi fermo qui.

 

 

Giulio Martini

(venerdì sera)

 

Giulio ha sostituito Giorgio

Marco Massara

(Jolly)

“le dimensioni contano” diceva il trailer di Gozilla. E in effetti ogni tanto realizzano oggetti cinematografici poco maneggevoli.

Molto interessante il modo in cui Nolan costruisce la narrazione della prima e nella terza delle parti in cui il film è  strutturato: una narrazione che ‘avvolge’ lo spettatore consapevole del fatto che non riesca a recepire ed organizzare tutte le informazioni che gli vengono trasmesse e che costruisce un ‘modello’ di Oppenheimer sostanzialmente definito, anche se incompleto. (del resto anche la teoria quantistica “non arriva fino in fondo” Cit.)

In mezzo Nolan ci mette la cronaca del “Trinity test” in una forma classica, quasi fumettistica e avvincente al punto giusto.

Lo spettatore esce con una idea del protagonista abbastanza solida, ma anche con una sensazione di un certo sovraccarico.

Io lascerei un lenzuolo appeso ad asciugarsi……..

 

 

 

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Io capitano

 

 

da domenica 12 a  venerdì 17 maggio 2024

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IO  CAPITANO

REGIA DI MATTEO GARRONE

 

 

IO CAPITANO

 

Anno: 2023

Regia:  Matteo Garrone

Attori: Seydou SarrMoustapha FallIssaka SawagodoHichem YacoubiDoodu SagnaKhady SyVenus GueyeOumar DiawJoe LassanaMamadou SaniBamar KaneBeatrice Gnonko

Paese: Italia, Belgio

Durata:121 min

Sceneggiatura: Matteo GarroneMassimo GaudiosoMassimo CeccheriniAndrea Tagliaferri

Fotografia: Paolo Carnera

Montaggio: Marco SpoletiniAndrea Farri

Produzione: Archimede con Rai Cinema, in coproduzione con Tarantula, con la partecipazione di Pathé

 

“Due adolescentiSeydou e Moussa, lasciano Dakar, in Senegal, alla volta dell'Italia. Lo fanno di nascosto, un po' incauti un po' sognatori un po' ridendo, spintonandosi l'un l'altro, come del resto sono e fanno i ragazzi a quell'età, a qualunque latitudine, con in mente il calcio e la musica (…) i due partono, inizialmente con l'entusiasmo incosciente dei pionieri. Ma Mali, Libia, mare Mediterraneo saranno soprattutto le tappe di un tragitto a capitoli quasi tutti dolorosi, tra soprusi, violenze, sete, fame, schiavismo, ferite, sfruttamento, in un percorso dove si può morire a ogni svolta e si finisce magari come corpi dimenticati lungo il cammino della speranza. Messa così sembra la classica confezione, prevista e ormai un po' abusata, della cinematografia più sensibile e buonista, calibrata per muovere pietà e indignazione. Matteo Garrone però evita la didascalia di denuncia e il patetico grossolano e ne trae piuttosto un racconto persino solare, luccicante di speranza, commovente solidarietà tra disperati e bisogno di futuro, quasi un classico e avventuroso racconto di formazione (…) le ambientazioni sono di un colorato realismo di sensuale visione, ma soprattutto si coglie il piacere evidente del regista romano nei confronti del colpo di scena magico che sposta improvvisamente i piani della lettura, sino a suggerire una dimensione trascendente di favola contemporanea.”

Massimo Lastrucci da Cineforum.it

 

“Garrone toglie da subito Io capitano dalla retorica polarizzata che caratterizza il tema dell'immigrazione, restituendogli una purezza di racconto narrato dal punto di vista di chi non viene mai interpellato sull'argomento. Dall'ottica di Seydou e Moussa il viaggio è un'avventura da Capitani coraggiosi (…) Ciò nonostante Garrone, qui regista e cosceneggiatore inserisce nella trama tutti gli elementi che faranno di questo film una cartina di tornasole degli opposti schieramenti: ad esempio i due ragazzi non scappano dalla miseria o dalla guerra ma scelgono autonomamente di avventurarsi oltre il Mediterraneo e gli scafisti libici apparentemente possiedono il numero di cellulare di una ONG, e per contro il film evidenzia il rimpallo della Guardia Costiera italiana e delle autorità marittime maltesi circa il destino dei migranti. Io capitano è soprattutto una parabola sulla necessità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.”

Paola Casella da mymovies.it

 

“È interessante come Matteo Garrone non insista troppo sulla durezza delle condizioni di vita dei suoi personaggi. Quasi a suggerire che alla base della decisione dei due ragazzi, più che una reale esigenza materiale, ci sia un sogno, vago, di affermazione personale e una più decisiva urgenza di scoperta. Del mondo e di sé stessi. Che naturalmente deve scontrarsi con la paura di abbandonare la sicurezza dell’ordinario. È un momento narrativo universale. Il che conferma la sensazione che Garrone, oggi, sia interessato più alle dinamiche del racconto che a quelle del reale. Alla ricerca, forse, di una linfa immaginativa più vitale, di una maggiore libertà rispetto alle gabbie in cui si rinchiudevano i suoi film di un tempo. Eccoci dunque alle figure e ai momenti tipici. Il richiamo dell’avventura, il terrore dell’ignoto, la spinta decisiva all’attraversamento. E, coerentemente, tutta la prima parte di Io capitano è un andare alla ricerca di un consiglio, di un’esperienza. O di una premonizione.

Poi si parte. E qua iniziano le difficoltà. Per il nostro giovane protagonista, che deve attraversare l’inferno del deserto, concretamente e metaforicamente. Ma soprattutto per il film. Perché il viaggio di Seydou disegna comunque la scoperta di un eroe capace di mantenere la barra dritta e ben saldo il timone, nonostante le innumerevoli avversità. Mentre, d’altra parte, Garrone sembra a tratti smarrire la concretezza terribile, incandescente, della materia che racconta (..) che forse avrebbe trovato un riflesso più fedele nello sguardo del Garrone più allucinato e glaciale. (…) Non che sia necessariamente un male. Ma allora, forse, sarebbe stata necessaria una maggiore fiducia nella forza eversiva di un’immaginazione attiva (…) O sulle implicazioni emotive, non necessariamente retoriche, delle situazioni drammatiche (…) La sensazione è che invece il film sia un po’ incerto sulle strade tra intraprendere e si mantenga a metà, tra le varie tracce, per non smarrire la guida. Come se Garrone si scoprisse bloccato da un eccessivo pudore (…) Ma è comunque evidente il tentativo di trovare una nuova cifra, una rotta diversa per il suo cinema. La ricerca di un diverso piano di contatto con il mondo.”

 Aldo Spiniello da sentieri selvaggi.it

 

“Io Capitanopuò essere definito un bel film: per come è realizzato, per la qualità delle interpretazioni, per il pathos che trasmette e anche perché getta un fascio di luce su uno dei grandi scandali del nostro tempo, la scelta compiuta dalle democrazie europee di “lasciar morire” migliaia di persone ai propri confini. (…) I “cattivi” del film sono i trafficanti che affittano auto, pullman, barche a prezzi esorbitanti, e poi i poliziotti e i miliziani che picchiano, umiliano, torturano ed estorcono denaro, ma Io Capitano non mette a fuoco il nodo politico della questione e anzi rischia -involontariamente- di legittimare la falsa narrazione sulla “tratta dei migranti”, cioè l’idea che gli “scafisti” e i “trafficanti” siano i responsabili degli “sbarchi” e della presunta “invasione”, insomma la retorica politico-mediatica prevalente. Matteo Garrone, in verità, è personalmente lontano da questa rappresentazione e nelle interviste sostiene la necessità di istituire canali di ingresso legale in Europa per tutti, ma il suo film manca di mettere a fuoco questo punto e quindi non affonda il colpo. Io Capitano resta quindi privo di spessore politico, omette di denunciare i veri responsabili del “sistema” che semina ingiustizia e morte, tra i quali ci siamo anche noi spettatori, in quanto cittadini di Paesi che di fatto sostengono quel “sistema”. Il regista ha precisato che il suo intento era semplicemente raccontare una storia mettendosi nell’ottica degli “altri”, cioè i ragazzi in viaggio verso l’Europa, e questo ha fatto, ma intanto “Io Capitano” può essere definito “un bel film” da chiunque, anche da chi finge di non sapere che il deserto nordafricano e il mare Mediterraneo sono diventati dei grandi cimiteri a cielo aperto per “nostra” scelta. Sono le democrazie europee, con le loro politiche sull’immigrazione, come sono ipocritamente chiamate, a sostenere i trafficanti, gli scafisti, le milizie che lucrano sulle “vite di scarto” che devono rimanere fuori dai confini dell’Unione. Io Capitano può essere definito un bel film, ma è certamente un’occasione mancata.”

Lorenzo Guadagnucci da altreconomia.it

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

 

 

coraggioso film/ reportage che per evitare stupidi melodrammi accentua l'atroce tragicità dell'odissea africana mescolando paesaggi meravigliosi a situazioni oscene e ciniche.

I due ingenui pinocchietti neri sono da Oscar.

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

A convincere in Io capitano è l’efficacia di una narrazione capace di avvicinare gli spettatori del Bazin all'esperienza dei protagonisti, riducendo le distanze tra l'ordinario delle vite del pubblico e l'eccezionalità di un’autentica, tragica Odissea dei nostri tempi. Senza contare che la conoscenza di Matteo Garrone (da L’imbalsamatore in avanti) da parte degli aficionados del Cineforum facilita la comprensione delle stazioni del film. Un’opera che si muove agilmente tra i due poli dell’estetica del regista romano: iperrealismo e suggestioni favolistiche. Il Pinocchio mancato del 2019 trova una forma compiuta nel 2023 tra Dakar e il Mediterraneo. Collodi diventa nostro contemporaneo e ritroviamo nell’orrore del carcere libico i ragazzi segregati da Mangiafuoco nel paese dei Balocchi. E riconosciamo pure la fatina nelle fattezze di un generoso muratore senegalese che permette a Pinocchio/Seydou di proseguire il suo viaggio dell’eroe verso l’età adulta.

 

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Film interessante perché ci mostra i giovani immigrati da un punto di vista cui non spesso non pensiamo: li vediamo come ragazzi “normali, uguali ai nostri”, pieni di vita e di desideri, inconsapevoli e poco inclini ad ascoltare le voci degli adulti, tanto della madre quanto del maturo fabbro. Studiano, giocano, lavoricchiano, scrivono canzoni che immaginano bellissime, hanno una casa e una famiglia accoglienti, certo non sono benestanti secondo i nostri criteri ma non sono quei pezzenti affamati e miserabili che talvolta li si dipinge. I due cugini partono per l’Europa, alla ventura, con sprovveduta ed allegra leggerezza. Il loro viaggio lo conosciamo da molte testimonianze dirette, anche se non lo abbiamo mai visto, né mai un giornalista potrà documentarlo: sappiamo che Seydou (ma che attore, questo ragazzo!) giungerà non solo in Italia ma anche alla consapevolezza e alla maturità. Uno spettatore commenta a mezza voce “Speriamo che non finiscano in un CPR!” ed io penso “Speriamo che la smetta di gridare che è il capitano, altrimenti lo arrestano come scafista”. La realtà irrompe e rosicchia l’incanto della speranza, la tenerezza della giovinezza e la meraviglia delle luci e dei colori del deserto.

 

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

 Matteo Garrone adotta un registro narrativo meno creativo del solito, ad es. rispetto a Il racconto dei racconti, per concentrarsi con grande rispetto sulla storia dei suoi due personaggi, dando un taglio umanista piuttosto che politico. Di conseguenza i suoi protagonisti non sono ideologicamente degli eroi, ma semplicemente persone che desiderano migliorare la propria condizione e quella della loro famiglia. Saranno le avventure e le sofferenze che dovranno affrontare che ne faranno degli uomini, che pure resteranno anche adolescenti.

Seydou attraversa un inferno, mostrato dal regista senza inutile enfasi, impara un lavoro, si assume la responsabilità della vita di molte persone. Riesce a non cedere al delirio di onnipotenza, pur essendo orgoglioso di “non perdere neanche uno di quelli che gli sono stati affidati”, tanto che all’arrivo, invece di nascondersi per evitare guai, grida in faccia ai soccorritori/poliziotti il ruolo che ha avuto nella traversata, del quale va giustamente fiero.

Un film profondo, realistico anche nell’uso delle lingue, ma con inserti onirici che ci aiutano a penetrare l’animo del protagonista, coinvolgente al punto da far dimenticare di essere sottotitolato

 

 

Marco Massara

(Jolly)

‘Viaggio’ spalla a spalla con i migranti dal Senegal alla Libia e poi fino al soccorso italiano.

La forza di questo film sta nella gestione della intensità di narrazione, senza disperdersi mai in rivoli di racconto che ne diluirebbe la forza  comunicativa.

Allo spettatore non viene risparmiato nulla; tuttavia il film instaura un ritmo che appunto modula l’intensità della comunicazione introducendo incontri con personaggi che lasciano spazio a momenti di umanità e solidarietà.

Il film si chiude  con l’arrivo dei soccorsi che coincide con l’urlo di orgoglio di Seydou. Sarebbe bello ipotizzare un sequel con il racconto di quello che succede dopo il salvataggio

 

 

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C'è ancora domani
 

da domenica 28 aprile a  venerdì3 maggio 2024

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C'E'  ANCORA  DOMANI

REGIA DI PAOLA CORTELLESI

REGIA: Paola Cortellesi

SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Paola Cortellesi

FOTOGRAFIA: Davide Leone  -  Montaggio: Valentina Mariani -- Musiche: Lele Marchitelli

INTERPRETI: Paola Cortellesi (Delia), Valerio Mastandrea (Ivano), Romana Maggiora Vergano (Marcella), Emanuela Fanelli (Marisa), Giorgio Colangeli (Ottorino), Vinicio Marchioni (Nino), Francesco Centorame (Giulio), Lele Vannoli (Alvaro), Paola Tiziana Cruciani (Sora Franca), Yonv Joseph (William), Alessia Barela (Orietta), Federico Tocci (Mario), Priscilla Micol Marino (Sora Giovanna), Maria Chiara Orti (Sora Rosa), Mattia Baldo (Sergio), Gianmarco Filippini (Franchino)

DURATA: 118'

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“Il tono è divulgativo, pensato per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma questo non va a scapito della sua vocazione autoriale, che è manifesta in scelte molto precise di colore (il film è girato nel bianco e nero della cinematografia d'epoca con grande attenzione filologica del direttore della fotografia Davide Leone) di formato (che cambia lungo il corso della narrazione), di commento musicale (…) L'aspetto più sorprendente del film è che, di fatto, è un horror, ma raccontato attraverso il filtro gentile della sensibilità di Paola Cortellesi, nel suo stile riconoscibilmente "leggero" che riassume ciò che abbiamo finora appreso di lei: la capacità di parlare di cose serissime rendendole appetibili, il rispetto della propria e altrui dignità. (…) C'è ancora domani contiene nel titolo una speranza, ma anche un monito importante: perché ci ricorda che le conquiste femminili sono avvenute appena ieri, e perché riporterà istantaneamente alla memoria di tutti, e soprattutto di tutte, almeno un episodio in cui la propria mamma, nonna, bisnonna sono state zittite, o è stato loro impedito di percorrere la propria strada in piena autonomia decisionale. Cortellesi ci rammenta che da questo veniamo, che fa parte del nostro passato recente, e che purtroppo succede ancora perché per chi stava dalla parte dominante del "si è sempre fatto così" reagisce al cambiamento e con la stessa violenza di allora.”

(Paola Casella da mymovies.it)

 

 

“Scritto con grande cura nelle caratterizzazioni e nella scansione degli eventi, il film non si accontenta del bozzetto storico attraverso un bianco e nero che evoca all’istante il neorealismo, ma prova anche a dire qualche cosa sulla condizione femminile che non sia scontato o retorico. Quella di Delia è la storia di una donna che reagisce a modo suo, come può e come riesce, a una vita ingiusta e che prova a riconquistare una dignità che le è stata portata via senza che quasi se ne rendesse conto. Per dare concretezza al suo sentire la Cortellesi regista sperimenta, giocando con i formati, dando ampio spazio alle scelte musicali che assumono valenza narrativa, trasformando con coraggio, e non senza stridere, alcune sequenze in audaci balletti (…). Non opta, come era più scontato, per il dramma a senso unico, ma trova uno stile personale in cui la tristezza evocata si bilancia con la capacità di sdrammatizzare. Tutto ciò fa passare in secondo piano alcuni dialoghi a uso e consumo dello spettatore (…), alcune approssimazioni (…) e mette anche a tacere un interrogativo che si fa subito strada: ma siamo ancora lì, in quell’Italia in bianco e nero tra le macerie che piace tanto agli americani? La risposta è nel retaggio culturale ancorato al patriarcato che ispira ancora troppo spesso il nostro agire. Ben venga, quindi, un cinema che con sensibilità e senza piegare la forma suadente al messaggio - che arriva perché è naturale evoluzione del racconto e non perché spiegato dai personaggi - ci ricorda quello che era, che in parte è ancora e che invece potrebbe essere.”

(Luca Baroncini da spietati.it)

 

 

C’è ancora domani è un film buffo, drammatico, a tratti sorprendente. Ha la sfrontatezza, il coraggio e l’incoscienza dell’opera prima. Le donne laboriose e vitali che Paola Cortellesi mette in scena sono tante ed eterogenee (…) Sono tutte donne che, mute, pazienti e rinunciatarie, hanno fatto l’Italia, hanno sperato un futuro migliore per i propri figli, hanno scelto senza saperlo (e quasi senza volerlo) di diventare protagoniste della Storia, di uscire dal cono d’ombra dell’anonimato (…) ma non è un film storico in senso stretto (per quanto faccia i conti con quella porzione di storia), non pretende la verosimiglianza tout court né si affida al rigore vibrante neorealista. È sì minuzioso nel restituire gli echi di un tempo e un clima oppressivo, ma anche lieve e ironico nel trattare gli aspetti più cupi e meno distensivi. (…) È cinema popolare e intelligente che conosce l’intonazione giusta e sa quale corda emozionale sfiorare per irretire, coinvolgere, intrattenere. I movimenti di macchina sono morbidi e circolari, oppure nervosi e febbrili a seconda degli stati d’animo e degli affanni di Delia. (…) Il film è corale, pieno di afflato e respiro, e gli si perdona, per eccesso di entusiasmo, qualche momento sopra le righe e non perfettamente a fuoco.”

(Mario Tudisco da spietati.it)

 

 

“Una lettera misteriosa. Il mittente sembra sconosciuto. Cosa c’è scritto? E soprattutto, chi l’ha mandata? Nel corso di C’è ancora domani quella lettera diventerà un dettaglio fondamentale. E forse già da quel dettaglio parte il primo omaggio del film al cinema italiano degli anni ’30 e ’40, tra l’evasione cameriniana dei ‘telefoni bianchi’ al Neorealismo con l’immagine della famiglia numerosa che vive in un seminterrato, le scritte sui muri di una Roma post-bellica (“Abbasso i Savoia, Viva la Repubblica”), la fila davanti all’alimentari per comprare la pasta e la presenza ancora di qualche camionetta degli americani in città. (…) Il primo film da regista di Paola Cortellesi è più che convincente proprio per come ricostruisce nel dettaglio l’atmosfera dell’Italia del dopoguerra sottolineata dal bianco e nero della fotografia di Davide Leone (…) C’è ancora domani è un film che ha un sorprendente equilibrio perché non vuole farsi piacere a tutti i costi. Quello che conta prima di tutto è la voglia di raccontare una storia che chissà da quanto tempo Cortellesi aveva in testa.”

(Simone Emiliani da sentieriselvaggi.it)

 

 

“Funziona tutto nel suo film, in primis il cast in stato di grazia (…) riesce nell'impresa impossibile di risultare sia divertente che commovente per motivi e passaggi narrativi che ci guardiamo bene dallo svelarvi. Paola Cortellesi mette tutta la sua bravura, la sua sensibilità e il suo spessore di attrice al servizio di un personaggio di quelli memorabili, mostrando rara padronanza nel tenere insieme i sentimenti più contrastanti, dalla rabbia per le violenze e l'ingiustizia secolare di trattamento subito da intere generazioni di donne, alla poesia del sentimento platonico e del sogno, dall'umorismo fine e dissacrante (si ride anche della morte) alla potenza di fuoco del senso civico alla base di un sistema valoriale semplice ma integro che Cortellesi intende rievocare e ricordare a chi guarda. E ci riesce, creando quel senso di immedesimazione e appartenenza in chi guarda tipico soltanto dei grandi film.”

(Claudia Catalli da wired.it)

 

 

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

originale rilettura romanesca e postmoderna del neorealismo in uscita dagli studi di  Cinecitta' ed ambientata in uno degli ultimi luoghi della Capitale non ancora filmati.

L'ironia spalmata sui personaggi , stereotipati eppure verosimili, rimodula il racconto evitando melodramma  e sceneggiata. Con astuzia l'intreccio gioca sul " topos" delle carte nascoste e delle possibili tresche amorose per dar fiato ad un sorprendente ma sincero credito al ruolo della politica nell'attuazione del programma femminista.

Le donne italiane ( con o senza rossetto sulle labbra, e magari con i denti macchiati dal  malizioso cioccolato americano)  hanno finalmente diritto - grazie anche al giorno successivo all' apertura dei seggi del Referendum del '46 - di  aprire  bocca. Non saranno più essere zittite in pubblico dai  maschi di ogni ceto sociale...

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Apoteosi del femminile negli ultimi film del Cineforum: Chiara, Freddie, Emily e Delia sono le volitive eroine che hanno intrigato gli spettatori del Bazin. Chiude la rassegna nella rassegna la funambolica Paola Cortellesi che è riuscita nell’impresa di portare una valanga di pubblico al cinema tra cui anche una significativa percentuale di giovani. Quali le ragioni di questo successo? Senza dubbio la denuncia del maschilismo becero, come sottolineano molte spettatrici del Bazin, ma anche, a ben vedere, l’uso di un virtuosismo cinematografico che spiazza sistematicamente lo spettatore. Proviamo a seguire, ad esempio, la traccia della musica: la canzone che apre il film è Aprite le finestre (1956) di Fiorella Bini, tutta giocata in chiave beffarda e comunque funzionale al contesto che guarda al cosiddetto Neorealismo rosa. Ma poi la musica dei nostri tempi irrompe nel film e ascoltiamo con stupore Calvin di The Jon Spencer Blues Explosion, tra blues e funk, l'hip-hop degli Outkast di B.O.B. (Bombs Over Baghdad) e il northern soul di The little things di Big Gigantic featuring Angela McCluskey. Insomma la neo regista Cortellesi si diverte a giocare con una serie di materiali eterogenei che assembla con azzardi che mandano in bestia i cinefili ma seducono il pubblico. La sequenza tanto discussa della violenza domestica che diventa un balletto sulle note di Nessuno, brano portato al successo da Mina nel 1960, è un altro esempio che ci racconta di uno stile eterogeneo che, come ultimo colpo, conquista anche la platea del Bazin.

 

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Forse per spiegare il successo di questo film sarebbe opportuno scomodare psicologi o sociologi, potrebbero spiegarci quali corde ha toccato, quali comportamenti rimossi ha riportato alla luce, quali esperienze ha ricordato. Non è stato solo un film ma una sorta di autoanalisi (o psicodramma) della nazione. Ogni comportamento repressivo e maschilista è ogni autodifesa femminile ci sono noti, fanno parte del nostro vissuto e questo supera ogni valutazione estetica del film. Film che, tra l’altro, non è così brutto come certe livorose analisi affermano (e anche qui ci starebbe bene lo psicologo); c’è ironia e acutezza nella storia, una buona recitazione, una colonna sonora che rivela tutta la modernità (e post modernità) della vicenda. Soprattutto il film ci ricorda che la salvezza è nella solidarietà e nella partecipazione alla cosa pubblica.  Il domani del titolo è il giorno delle prime elezioni libere dopo il fascismo che videro una clamorosa partecipazione femminile, forse tornare senza timidezza e remore, alla partecipazione politica è il tema più sottile ma più perturbante di quest’opera.

 

 

Giulio Martini

(venerdì sera)

 

 

 

Giulio ha sostituito Giorgio

 

 

 

Marco Massara

(jolly)

Le intenzioni sono ottime (Bille August sarà contento), il tema  accattivante, serio e progressista, il bianconero  stupendo.

E allora perchè non dare un verde pieno? Perché il dosaggio tra lo sviluppo forte ed i risvolti in chiave di commedia non è perfetto, come qualcuno ha scritto, e rischia di indebolire ed annacquare l’intento progressista su cui si basa un film che segna un ottimo esordio che lascia ben sperare per le prossime opere.

 

 

 

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Colpo di fortuna

 

 

da domenica 5 a  venerdì 10 maggio 2024

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UN COLPO DI FORTUNA

REGIA DI WOODY ALLEN

 

 

“Che Woody Allen sia ancora oggi un grande regista lo si capisce dalla prima sequenza di Un colpo di fortuna - Coup de chance, in cui i due futuri amanti Fanny (Lou de Laâge) e Alain (Niels Schneider), lei impiegata in una casa d’aste, lui scrittore, si incontrano per strada a Parigi dopo essersi conosciuti anni prima in un liceo di New York. La camera di Vittorio Storaro regge un morbido piano sequenza che prima coglie di sfuggita l’incrocio tra i due personaggi e poi dopo un attimo il saluto e la conversazione, introducendo lo spettatore nello spazio della città e nella accidentalità dell’incontro. C’è un senso preciso nella scelta del piano sequenza, dal momento che Coup de chance è costruito sul contrasto tra il caso e la premeditazione, tra la vita di Alain, artista senza radici innamorato dell’incertezza, e quella di Jean (Melvil Poupaud), il marito di Fanny, ricchissimo consulente finanziario e uomo possessivo e abitudinario, convinto al contrario che la fortuna di un uomo vada costruita e manipolata. (…) Coup de chance è la ripresa di alcuni dei tipici elementi dell’universo di Allen, dall’idea del delitto come affrancamento dal dovere morale, all’influenza dell’ambiente sui comportamenti individuali (…), alla casualità come ironica sistemazione di un ordine capriccioso. Le domande sono sempre le stesse, fin dai tempi di Crimini e misfatti o più avanti di Match Point: perché qualcuno si salva e qualcuno no? Perché alcune decisioni portano alla salvezza e altre alla condanna? (…) Con una scelta di sceneggiatura inaspettata, Coup de chance passa così da Dostoevskij a Simenon (citato esplicitamente), opponendo alle rigorose pianificazioni di Jean le intuizioni di una donna curiosa e al tempo stesso sbadata, che la verità non la conosce e non la può dimostrare, ma la sente e la sa… Un colpo d’ala geniale, che conferma la crudele precisione della scrittura di Allen (specie dell'Allen filosofico, che avrà per sempre in Crimini e misfatti il suo capolavoro) e, anche in questo piccolo film, il suo cinquantunesimo, la vena in fondo inesauribile di un cinema inteso come continua variazione sui medesimi temi.”

Roberto Manesseno da cineforum.it

 

 

“Woody affronta nuovamente il tema che più lo affascina: le dinamiche di coppia e il rapporto tra la fredda razionalità (anche se mascherata da sentimentalismo) e il flusso dei sentimenti veri. (…) Tutto va bene finché il caso non mette letteralmente sulla sua (di Fanny) strada Alain, un compagno di liceo, ora scrittore, da sempre innamorato di lei senza averglielo mai rivelato. Da questo momento Woody si diverte a lavorare su due termini che, fin dal tempo del teatro greco, attraversano la vita degli esseri umani e la sua rappresentazione scenica. Si tratta di due termini che la lingua francese con cui gli interpreti si esprimono sa distinguere con sottigliezza. (...) Il caso, la coincidenza può trasformarsi in un rischio? Woody pensa di sì ma ritiene anche che si tratti di un'opportunità. Ricorda, fin dai tempi di Match point, che in fondo tutti noi siamo in balia di questi due elementi a cui aggiunge una riflessione che porta, ancora una volta, con sé sin dall'età giovanile e dalla passione per Dostoevskij. Quali sono le vere colpe commesse dagli esseri umani? Vivere una modalità di relazione appagante senza per questo smettere di provare un sentimento sincero nei confronti della persona con cui si divide da anni il quotidiano è davvero una colpa? O ce ne sono altre, ben più gravi, che meritano una punizione ad esse commisurata? Allen, in una Parigi autunnale come piace a lui (ed esaltata in questo dalle scelte cromatiche di Storaro) con i toni delle sue commedie più riuscite ci mostra come la vita in fondo sia una lotteria. A partire dal giorno in cui siamo entrati in questo mondo.”

Giancarlo Zappoli da mymovies.it

 

 

“Il cinema di Woody Allen degli ultimi (chissà quanti) anni è spesso un esercizio di riciclo combinatorio. Temi, stilemi e situazioni (anche molto specifiche e circostanziate) dei suoi film precedenti vengono costantemente rievocate e riproposte, magari ricontestualizzandole, con leggere variazioni e ripensamenti/approfondimenti (…) il delitto, il castigo, la colpa (con o senza “senso di”) e ancora il fato, il caso, il controllo o la mancanza di controllo sul proprio destino. Più o meno. Con buona approssimazione, diciamo. Torna anche l‘ormai fido Vittorio Storaro e con lui l’eleganza, spesso inquieta, dei movimenti di macchina (il bel piano sequenza iniziale) e la taratura cromatica dell’immagine. Torna la direzione degli attori, sempre allenianamente perfetta/riconoscibile, così come la capacità, in fase di scrittura, di far convivere i meccanismi e gli sviluppi (quasi) da cinema di genere con un cinema che di genere, alla fine, non è, se non “genere Woody Allen”. C’è però una probabile, non si sa quanto volontaria, novità: Woody non sembra neanche più provare a farci ridere. (…) Della commedia è come rimasta solo l’aura, l’apparente intenzione, una vaga atmosfera. (…)
Ecco che Un colpo di fortuna risulta un film ancora più funereo e testamentario del precedente, con Woody Allen che progressivamente, come l’eremita di Battiato, rinuncia a sé.”

Gianluca Pelleschi da spietati.it

Giulio Martini

(Domenica pomeriggio

Chi mai è riuscito alla soglia  ei 90 anni a sfornare un film così gioiosamente esistenziale ?

Il talento di Woody si replica e si impreziosisce nel tempo. E non è prodotto del Caso a generare tanta eleganza sul tema del destino (perturbante quesito di fondo) ma sono le sue meditate scelte espressive  a collocare il  percorso del film su binari precisi, con incroci narrativi perfetti, scambi di  battute ben oleati,  segnali di attenzione e  di pericolo nei luoghi giusti, scorrimento rapido della trama, e puntuale arrivo a destinazione secondo le promesse del titolo.

Woody, come il trenino/ giocattolo che odia (da confrontare con quello delle prime scene del correligionario Spielberg di quest'anno al Bazin) ci dice che analoghe passioni ludiche infantili e poi professionali possono derivare da motivazioni molto diverse.

L' altro si diverte a far correre il suo cinema ricamando su paure sublimate dalla fantasia, lui - da sempre - solo per esorcizzare/ filosofare ironicamente su angosce e quesiti incombenti fin dalla nascita e irrisolti perché secondo lui irrisolvibili in eterno.

 

 

 

 

Angelo Sabbadini

(Lunedì sera)

Come sostiene un simpatico aficionados del Bazin con grande convinzione: sotto sotto, Woody Allen è sempre stato un giallista, un autore noir – in un modo o nell’altro, e non solo in Manhattan Murder Mystery o in Crimini e misfatti – è sempre stato anche il Georges Simenon di New York, il Raymond Chandler che suona il clarinetto. Nell'ultimo film il riferimento evidente è Match Point, con Scarlett Johansson, del 2005: la forza del caso che spinge quasi inavvertitamente verso il delitto. Ma ci sono anche i grandi russi, per quanto mai citati, a muoversi nel sottosuolo di Colpo di fortuna: non c’è delitto senza colpa (anche se il colpevole non conosce alcun rimorso), è il caso a muovere nel modo più subdolo e sorprendente le azioni umane. Questo film, dopo la scivolata di Rifkin's Festival, riconcilia Allen con il pubblico del Bazin che gli regala commenti molto affettuosi.

Marco Massara

(Mercoledì sera)

Woody Allen in stato di grazia realizza (siamo a Parigi…) una commedia nera quasi in controcanto con il sopravvalutato “Match point” (se è un capolavoro allora “Crimini e misfatti” un iper-capolavoro!).

Ma c’è di più; Woody trasferisce la sua poetica nei personaggi di Fanny e Alain: la creatività e lo stile di scrittura nel ragazzo, l’empatia con lo spettatore nella ‘moglie da trofeo’.

Confesso che avevo immaginato uno sviluppo da “Il postino suona sempre due volte” e che sono rimasto (felicemente) spiazzato quando Jean, magistralmente ripreso in perfetta silhouette, si svela, quale autentico ‘uomo nero’, nello spietato mandante.

E’ invece il caso a bussare due volte, anzi tre: se la suocera non avesse dimenticato le pillole, se Fanny non avesse deciso di tornare nella casa di Alain, se l’ignaro cacciatore non avesse scambiato Jean per un cervo (!), le cose sarebbero andate in ben altro modo.

E appunto il manoscritto ritrovato a chiudere il film con una perfetta dichiarazione alleniana sul mondo quale teatro di una cieca ed inesorabile ‘lotteria’.

Attori quasi tutti eccellenti: mai visto un antipatico interpretato così ‘professionalmente’ come da Jean/ Melvil Poupaud.

Musica cool al punto giusto e Vittorio Storaro che conferma una volta di più la sua fama.

Grazie Woody!

 

 

Guglielmina Morelli

(Venerdì sera)

Ancora “una occasione favorevole” per vedere all’opera Allen regista. Film dove la precisione tecnica, in alcuni momenti, sfiora la perfezione. I colori che connotano i personaggi già ne definiscono la visione del mondo: un azzurro chiaro e freddo per il freddo Jean e i colori caldi dell’autunno (giallo, arancio, marrone chiaro) per il poeta Alain; una musica che non è più la romantica, struggente colonna sonora di Cole Porter (colui che ha scritto I love Paris) o di George Gershwin ma l’eleganza stilizzata di certo jazz anni ’50, tipo Modern Jazz Quartet. E tuttavia qualcosa discorda, in tanta perfezione: una recitazione non all’altezza (soprattutto Niels Schneider), i due romeni cattivissimi che starebbero bene nella parte dei “bravi” in un nuovo sceneggiato dei Promessi Sposi, soprattutto un desiderio di “spiegare” ciò che al cinema si deve mostrare. Allen è sempre Allen, ma evidentemente 50 film pesano.

Rolando Longobardi

(Jolly)

Continua il dialogo tra tragico e commedia nell'ultima filmografia di Allen. questo "un colpo di fortuna" segna un nuovo paragrafo del libro visivo che il registra newyorkese concederà ai posteri: dramma, cinismo, ipocrisia, assurdità dell'esistenza. Ingredienti questi che ormai caratterizzano gli ultimi lavori importanti del nostro. forse il messaggio è ridondante, ma anche questo fa parte della necessità ed esigenza di comunicare l'umano nella visione di Allen. La fotografia (guidata dalla maestria di Storaro), rende tutto ancora più sublime (nel senso kantiano del termine, come affascinante e terrificante nel contempo). 

 


 

 

 

 

 

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Emily

 

 

da domenica 21 a  venerdì 26 aprile 2024

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EMILY

FRANCES O'CONNOR

 

 

“Le tre sorelle Brontë - Charlotte, Emily e Anne - vivono a Haworth, comunità isolata dello Yorkshire, sotto l'egida del padre, un reverendo protestante severo e autoritario, e insieme al fratello Branwell, allegro e scapestrato. Charlotte ha accantonato il suo talento naturale per la scrittura per diventare insegnante e ad Emily è riservato lo stesso destino socialmente accettabile: ma Emily è troppo "strana" e viene rimandata a casa dopo essersi dimostrata poco incline a relazionarsi con il mondo "normale". L'arrivo nella parrocchia di Haworth di un nuovo pastore, William Wieghtman, sconvolgerà ulteriormente gli equilibri domestici: Emily ne avverte la pericolosità ma è attratta dal giovane uomo che, a sua volta, riconosce l'unicità di quella che diventerà l'autrice del capolavoro Cime tempestose, che Charlotte (a sua volta destinata a firmare un altro capolavoro, Jane Eyre), descriverà come "un libro pieno di gente egoista che pensa soltanto a se stessa". (…) O'Connor si muove agilmente fra impostazione drammaturgica classica e suggestioni contemporanee, riuscendo a dare un'impronta personale al racconto, e facendo leva su due attori particolarmente convincenti: l'anglo-francese Emma Mackey e che finalmente trova qui un ruolo da protagonista assoluta (peccato che il suo volto sia eccessivamente moderno per incarnare una donna dell'Ottocento), e Fionn Whiteheadche riesce a cogliere tutte le sfumature di un personaggio complesso come Branwell Brontë. Molto efficace nel ruolo del patriarca Brontë anche Adrian Dunbar, attivissimo negli anni Ottanta e poi quasi scomparso dal grande schermo.

Quel che manca a Emily è una maggiore sicurezza nel compiere scelte narrative radicali, evidente ad esempio nei molteplici finali. La sensibilità e l'intelligenza di O'Connor risultano comunque evidenti, avrebbero solo bisogno di una spinta ad osare ancora di più, e a permettere ai suoi personaggi di uscire definitivamente dalla composizione oleografica ed entrare a gamba tesa in questa storia di originalità e talento femminili confinati ai margini di un'epoca perbenista e patriarcale.”

Paola Casella da mymovies.it

“È considerata “strana” e non riesce a trovare un posto nella società grigia e ottocentesca dello Yorkshire. Il suo talento, il mestiere di scrivere, vive nel baule nascosto nella sua stanza. Le lande accolgono la sua immaginazione, nutrendola e colmandola di pensieri e conversazioni che, tra le mura di casa, sono proibite. La vita familiare di Emily Brontë è tutto ciò che potremmo aspettarci dai costumi dell’epoca.

Una giovane donna può insegnare, altrimenti deve cucinare, pulire, rammendare e andare in Chiesa: non ha diritto ad avere una propria opinione. Emily rifiuta questo stato delle cose, permettendosi di pronunciare quesiti che mettono in dubbio Dio, la fede e i ruoli sociali. La sua voce, così come la sua penna, è libera dell’oppressione alla quale vorrebbero ridurla.

Dedicato alle nuove generazioni, Emily è un sogno nella vita di una delle voci più significative della letteratura gotica dell’Ottocento; un sogno fatto di tante piccole realtà. Nel microcosmo nel quale vive infelicemente, l’unica via di fuga dell’autrice è l’immaginazione; slancio che le permette di correre tra le lande in compagnia di un cavaliere, un capitano, o chiunque la sua voce riesca ad evocare, con parole sempre misurate, calibrate a seconda del ruolo che mette in scena, tra sé e sé, nel silenzio della natura. Emma Mackey regala un’interpretazione fatta di sguardi, allibiti e tormentati ma anche divertiti, davanti al mistero della creazione a cui riesce ad abbandonarsi. Sono infatti dei primi piani studiati, all’insegna delle ombre, che permettono di entrare in contatto con questo personaggio, misterioso e sognante – inafferrabile, lontano da tutti e da tutto. Ribelle come lei è il fratello, Branwell, che la introdurrà all’oppio, ulteriore stimolo per la creatività alla quale sogna di abbandonarsi completamente. Insieme, nella notte, fratello e sorella spiano i vicini, i Lintons, riuniti attorno al camino acceso in un tipico salotto inglese dell’Ottocento. Per tanti versi l’amato Heathcliff vive dei tratti del fratello, condannato ad un’umiliazione plateale, sempre incompreso.

Gelosie e rivalità popolano la casa Brontë, come spettri tormentati. Tra maschere che annullano il confine tra vita e morte, anche i confini sociali vengono sfumati all’insegna di un romanticismo che può vivere solo nell’inchiostro della fantasia; l’unica giustizia che queste giovani donne riescono a conquistarsi.”

Valentina Vignoli da sentieriselvaggi.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Tentativo parzialmente riuscito di districarsi nell'enigma psicologico e fantastico della Bronte, rinchiusa nella prigione di tre maschi amati e detestati, di uno Yorkshire lontano dal mare, ma umidissimo e minacciato dalla desolazione e ricoperta da una strana maschera/ espressività facciale che ne nasconde/ svela le emozioni tempestose.

L'invenzione narrativa riempie gli ampi vuoti di una biografia ambigua, ma a momenti è lacunosa e incerta nel presentare le motivazioni dei personaggi attorno a lei e nell'articolare le scelte di regia.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Le sorelle Bronte con i loro struggimenti hanno da sempre folgorato il cinema. Il film capostipite è Devotion del 1946 dove Emily Bronte era interpretata dalla fascinosa Ida Lupino. L’ultima variazione sul tema arriva nel sottofinale del nostro cineforum diretta dalla solida attrice Francis O’Connor che si prova alla regia cinematografica. Al debutto la regista mostra di avere le idee chiare e tra la possibilità del biopic e l’occasione del melo sceglie senza indugi la strada del melodramma, concentrando la sua attenzione sulla figura di Emily. Del resto poco si sa della vita delle Bronte: la biografia di Emily scritta dalla sorella Charlotte è poco veritiera e risente pesantemente del controverso rapporto tra le due. Dunque la O’Connor costruisce la vicenda intorno alla passione tra Emily e il curato William Weightman, interpretato da un legnoso Oliver Jackson-Cohen. E tra brughiere, romantici tormenti, piogge e interni vittoriani centra l’obiettivo. Certo i visionari del Bazin arrivano all’epilogo del film sfiniti e senza dubbio una bella sforbiciata avrebbe giovato all’impresa. Rimane impressa la significativa interpretazione di Emma Mackey, nota per il ruolo di Maeve Wiley nella serie televisiva Sex Education. Facile pronosticare per lei un avvenire radioso!

 

 

 

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

Gradevole, senza essere un capolavoro, questa Emily, opera prima della attrice ora regista Frances O'Connor, si inserisce bene nel nostro panorama femminile che ha visto Chiara, Freddie, Emily e terminerà con Delia, al protagonista di C’è ancora domani. Uno scenario variegato che parte nel 1200 e arriva ai nostri giorni, tra Italia, Francia, Inghilterra e Corea, ma che ha in comune ritratti di donne volitive, magari “strane”, ma dalla grande personalità. Emily è tra i quattro il film più tradizionale, nell’impianto e nella forma: la protagonista vive la propria vocazione letteraria parallelamente alla vicenda d’amore che ne costituisce la sostanza, in un contesto familiare e sociale maschilista e avvelenato. Il film cede talvolta al gusto modernizzante del postmoderno, magari nel gioco ironico per cui l’unico maschio della famiglia Brontë tenta - vanamente - di essere un artista mentre sono celebri scrittrici tutte e tre le sorelle, Emily, Charlotte e Anne. E però le brughiere solitarie e le burrasche nello Yorkshire fanno tanto “voce nella tempesta”, nell’indimenticabile opera di william wiler del 1939.

 

 

 

Giulio Martini 

venerdì sera

 

Giulio ha sostituto Marco

Jolly

(Rolando Longobardi)

Opera prima della regista e attrice Frances O'Connor, con il suo Emily, la regista sembra voler dare una lettura del tutto personale dell'autrice inglese. Per questo motivo non si tratta di una biografia (alcuni riferimenti cronologici e narrativi non coincidono con la vita dell'autrice), ma di una narrazione comunque emotiva e profonda che scruta gli aspetti più importante della relazione tra l'artista (di qualunque arte si tratti) con la sua opera. La letteratura e la scrittura diventa un'esigenza esistenziale in simbiosi con tutti i sensi del "sentire". In questo il film di O'Connor è fedele: lo spettatore "sente" nascere l'opera attraverso le luci, i suoni, i colori e il chiaro scuro. Non mancano i toni gotici e un "goccio" mistica e alchimia che allarga la pupilla (e la visuale), facendo della macchina da presa, un oppiaceo non tossico.

 


 

 

 

 

 

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