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Jersey Boys
 

da domenica 5 a venerdì 9 ottobre 2014

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JERSEY BOYS

REGIA DI C.EASTWOOD

 

Siamo nei primissimi anni ’50 nel New Jersey, quando una band di italoamericani diventa celebre con il nome Four Seasons. Si dice che, negli anni ‘60 i Beatles abbiano rivoluzionato la musica ma si dimentica che, pochi anni prima, all'insegna della musica rock, vi era stata la rivoluzione suscitata nel New Jersey da altri quattro giovanotti che si erano annunciati come i Four Seasons e che, anticipando appunto i Beatles, si erano subito proposti con dei veri e propri successi mondiali. A tal segno che Broadway non tardò a dedicar loro addirittura un musical, intitolato, data la loro provenienza, Jersey Boys: Clint Easwood parte da questa storia per il suo film. Il protagonista, John Lloyd Young nel ruolo di Frankie, è lo stesso del musical dedicato al gruppo, così come la partecipazione produttiva; nella cornice di un'affettuosa ricostruzione d'epoca, tra brillantina, impresentabili camicette bicolori e sfacciate cabrio pinnate dai colori accecanti, sfilano le canzoni che portarono i Four Seasons in vetta alle classifiche, con il loro sound accattivante e la voce flautata di Frankie/John: Sherry, Big Girls Don't Cry, Bye Bye Baby e tante altre. Che il legame di Clint Eastwood con la musica sia forte e profondo è noto, avendo egli stesso composto le colonne sonore di alcune sue pellicole e avendone girate due dedicate al jazz: il documentario The Piano Blues e il biopic di Charlie «Bird» Parker. Dalle note di regia si legge: “Ognuno se la ricorda come gli fa più comodo”. Conosciamo le canzoni. Conosciamo il sound. Ma solo pochi conoscono la storia. Jersey Boys racconta dell’ascesa e della conseguente caduta dell’iconico gruppo rock ‘n’ roll, The Four Seasons, raccontando agli spettatori come le loro canzoni siano riuscite a fare presa nelle coscienze del pubblico—alcune delle quali per oltre mezzo secolo—ma anche rivelando le sorprendenti origini di questa, apparentemente perbene, rock band americana. l film è tratto dal musical di successo che ha conquistato un premio Tony Award, incantando le platee di tutto il mondo (negli U.S.A. e all’estero) e diventando uno degli spettacoli più longevi nella storia di Broadway. Ora, il regista Clint Eastwood dirige la storia dei The Four Seasons allargandone gli orizzonti, portando tutta la gioia, la musica ed i ricordi sul grande schermo per emozionare le platee di tutto il mondo. Eastwood, che è anche produttore del film assieme a Graham King e Robert Lorenz, ha voluto svelare il dramma nascosto dietro le giacche e le cravatte, dietro l’apparente armonia che legava i quattro ragazzi, era ciò che maggiormente lo intrigava: “Mi è sempre piaciuta la musica dei The Four Seasons, quindi sapevo che sarebbe stato divertente rivisitarla, ma quello che più mi interessava era che questi delinquenti, poco più che maggiorenni, cresciuti certo non nella migliore delle situazioni, fossero riusciti a raggiungere questo enorme successo. Cresciuti in una periferia gestita e controllata dalla mafia, vivevano di piccoli crimini. Alcuni di loro hanno anche passato del tempo in prigione. Poi è arrivata la musica, la loro salvezza per uscire da quella situazione. Avevano trovato finalmente qualcosa per cui valeva la pena lottare.”
(dal presbook)

gli animatori lo hanno visto così :                                                 

 

Matteo Mazza

  domenica

 pomeriggio

All'interno del suo personale discorso di rielaborazione dei generi cinematografici quel che Eastwood mette in scena con questo musical resta sorprendente. Jersey boys, oltre ad essere un film di formazione, una storia d'amicizia, un nuovo viaggio nelle dinamiche che si innescano tra talenti e libertà, riscatto e ambizione, è anche un modo per continuare a guardare la storia made in Usa (siamo nell'anticamera vietnamita) che sembra tutta racchiusa e anticipata nelle note di Can't Take My Eyes Off You cantata da Frank Valli. Allora, alla luce di questo sguardo disincantato che dal particolare si sposta sull'universale, non sono casuali la presenza di Christopher Walken nei panni del boss (cosa canta in Il cacciatore prima di partire per il Vietnam?), di Joe Pesci (riguardate Goodfellas e Casinò) e la menzione a Liberace come icona di una società dello spettacolo sempre più specchio dei tempi (avete visto Dietro i candelabri con Michael Douglas?).
 

giulio martini

domenica sera

operazione nostalgia per l'ultimo Clint Eastwood. Racconta in una tersa aura "vintage" una storia di bulli di periferia, che tutto sommato, sono però dei bravi agazzi. Hanno i loro piccoli - grandi valori da difendere, da far vincere, così da tirar un bilancio positivo
della loro carriera e forse della loro vita.
Persino la mafia è paterna ed affettuosa, in nome di una solidariatà un po' mitizzata (di gruppo o interetnica) che sembra sopravanzare quasiasi altra ragione,
perchè interviene a difendere dalle tragedie il percorso accidentato di questi eterni adolesvcenti impeganti ad uscire dalla miseria e dall'anonimato.
A tarscinarli è un talento personale indubbio. Cioè qualla risorsa intima cui Eastwood sempre crede, e che sempre nobilita nei tratti dei suoi protagonisti,
soprattutto se si muovono in mezzo al fango.

angelo sabbadini

martedì sera

Questa settimana Angelo è stato sostituito da Giulio

carlo caspani

mercoledì sera 

Per altri sarebbe un compitino alimentare, per Clint diventa un'occasione speciale per ricordare atmosfere di gioventù senza cadere nel melenso da una parte e nel ricalco di genere "spaghetti gangster" che ha già illustri rappresentanti in Scorsese e Coppola. Tono
leggero anche nel dramma, musica e ritmo nei bravi guaglioni del Jersey che, tra marachelle giovanili e amicizie non proprio commendevoli, trovano la loro strada, la loro melodia finchè dura e i
soldi nonsii mettono di mezzo. Da un musical come solo a Broadway sanno fare un Eastwood meno cupo, più pacificato, come si conviene a un ottantenne di grande mestiere,che si concede pure la civetteria
dell'autocitazione (Rawhide in tv...)=

marco massara

giovedì sera

La prima volta in cui entriamo nella casa di Frankie questi è a tavola con davanti a sé un piatto di spaghetti (!) e un bicchiere di latte. Al di là di quanto orrida al nostro gusto possa sembrare questa accoppiata, in fondo essa racchiude la filosofia di questo film e di gran parte della idea di cinema di Eastwood.; Mescolare tradizione e trasgressione, integrità e corruzione mantenendo sempre accesa la questione se il suo cinema sia reazionario o progressista. Film ottimamente girato e montato, ma purtroppo la tensione si spegne un po’ proprio sulle scene cantate che vengono vissute dallo spettatore più come uno spettacolo che come un tassello della narrazione. Grandissimo Christopher Walken che letteralmente accende la scena con la sua sulfurea recitazione.
giorgio brambilla venerdì sera Clint Eastwood ci racconta il sogno americano con tutte le sue contraddizioni. Non fa un quadro sociologico sulla difficile situazione dell'epoca, che illustri quant'è difficile crescere in un quartiere dove le uniche possibilità d'impiego per un giovane sono la guerra, la mafia o una folgorante carriera nello spettacolo. Racconta, come sempre, la storia di individui precisi, con le loro conquiste e drammi personali, ponendosi dal punto di vista di quattro ragazzi italoamericani del Jersey che hanno sperimentato sulla propria pelle quale sia il prezzo del successo; proprio per questo, assumono il ruolo di narratore, uno per ognuna della quattro stagioni che hanno attraversato. Evidentemente non è il film più obiettivo possibile, ma il regista, alla tenera età di ottantaquattro anni, si cimenta in qualcosa di nuovo, divertendosi parecchio e facendo divertire lo spettatore in modo mai banale. Non sarà Mystic River o Gli Spietati ma, nei limiti dell'operazione, tanto di cappello

 


 

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Il capitale umano
 

da domenica 19 a venerdì 24 ottobre 2014

Gli animatori lo hanno visto così

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IL CAPITALE UMANO

REGIA DI P.VIRZI

 

I progetti faciloni di ascesa sociale di un immobiliarista, il sogno di una vita diversa di una donna ricca e infelice, il desiderio di un amore vero di una ragazza oppressa dalle ambizioni del padre. E poi un misterioso incidente, in una notte gelida alla vigilia delle feste di Natale, a complicare le cose e a infittire la trama corale di un film dall’umorismo nero che si compone come un mosaico. Paolo Virzì stavolta racconta splendore e miseria di una provincia del Nord Italia, per offrirci un affresco acuto e beffardo di questo nostro tempo.

dal Press-book

Gli animatori lo hanno visto così:

marco massara

  domenica

 pomeriggio

Paolo Virzì opera un doppio trasferimento: abbandona l’ambientazione toscana – meglio se livornese – della maggior parte delle sue commedie per trapiantarsi in una terra brianzol-varesotta (tirando qualche sasso ben assestato e qualcuno fuori bersaglio in cristalleria) ed abbandona appunto i toni della commedia per immergersi in tonalità decisamente più drammatiche con qualche traccia di noir. Il risultato è apprezzabile, il fim è molto meno ‘dimenticabile’ (il vero punto debole delle commedie precedenti) e assume uno spessore inconsueto; merito di una narrazione non lineare e con sfasamenti temporanei che è rivelano l’intreccio con coinvolgente gradualità e di un quartetto (due Fabrizi e due Valerie) di attori davvero efficaci; su tutti un grande Fabrizio Gifuni nella parte sgradevole e molto più difficile rispetto a quella facile di un sopravvalutato Fabrizio Bentivoglio .

giulio martini

domenica sera

esemplare presa in giro della mentalità lombarda sul versante dei  danè  e della presentabilità sociale, con micidiali frecciate al leghismo più becero e  riferimenti multipli a  vicende del gossip nostrano. Il film del siculo /toscano
Virzì vale quanto "Sedotta ed abbandonata" a suo tempo. Germi allora  era considerato un regista minore. I siciliani si imbufalirono.
Ma - come qui - la  vera "commedia all'italiana", quella feroce e grottesca, fece centro e fece meglio dieci noiosi manuali di antropologia culturale.

angelo sabbadini

martedì sera

Eccolo il nuovo bestiario italiano aggiornato all'età della crisi! A proporcelo è di gran lunga il miglior commediante italiano, maestro del montaggio, che in questo film sposa la commedia nera e disegna maschere inquietanti e grottesche che valgono molto di più di tante, verbose analisi sociologiche. Su tutti svetta Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) squallido arrampicatore sociale con la sua frangetta tinta di fresco, gli occhi da faina e un eloquio cantilenante che dapprima diverte e poi spaventa. Gran film!

carlo caspani

mercoledì sera 

Virzì serio, serissimo pur nel grottesco di certe esagerazioni
volutamente macchiettistiche (Bentivoglio per tutti), perché solo così
si riesce a rendere la ridicola pochezza morale che crea danni
irreparabili in in paese che scommette sul proprio fallimento, e
vince. Come cantava De André tanti anni fa, anche se vi credete
assolti siete lo stesso coinvolti

roberta braccio

giovedì sera

Virzì si butta sul noir e fa bene. Il fatto di partire da un solido romanzo ambientato nel lontano Connecticut e di “tradurlo” in una storia tutta italiana, dà al film una struttura solida e originale, oltre ad un buon spazio di manovra di libertà alla squadra degli sceneggiatori. Il senso poi di continua angoscia è reso benissimo, complice anche la divisione in capitoli, mantenendo sempre alto un livello di minaccia che il noir deve avere. Un ottimo lavoro dunque, che personalmente preferisco a molte sue recenti commedie. Resta come unico neo il personaggio di Bentivoglio, su cui regista e attore si sono evidentemente divertiti un po’ troppo, calcando un po’ la mano: tutti i dettagli in lui sono esasperati e caricaturali (non da ultimo, la cicca ripetutamente masticata a bocca aperta) e, e per questa eccessiva “fumettizzazione”, a mio avviso, risulta poco credibile, specie nel finale.
giorgio brambilla venerdì sera Paolo Virzì cambia completamente strada, decidendo di aggirarsi in una Brianza che rappresenta l'Italia tutta (e non solo) nel suo lato peggiore, assetata di facili guadagni e inconsistente. Con i suoi co-sceneggiatori, Bruni e Piccolo, costruisce un racconto stratificato che, passando di personaggio in personaggio, ci dà elementi sempre nuovi per risolvere il “giallo” dell'incidente ed insieme far emergere, da una parte, la miseria degli adulti e, dall'altra, le fragilità frammista a nobiltà dei giovani, vittime dei primi. Il risultato è un'opera mai banale, che sa essere cattiva quanto basta senza diventare manichea e che pone in modo chiaro la domanda: per cosa vale davvero un uomo? Per i soldi che è plausibilmente in grado di guadagnare nella vita o per la sua statura morale? La società esalta il primo aspetto, come si vede dalla festa finale dei “vincenti”; ma il film ci dice che davvero ricchi sono due ragazzi che, in un luogo non certo idilliaco come la galera, stanno costruendo un rapporto degno di questo nome. La profondità, la lucidità e la raffinatezza del racconto rendono questo film davvero notevole

 

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una vita difficile
 

da domenica 10 a  venerdì 15 aprile 2016

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UNA  VITA  DIFFICILE

REGIA DI D.RISI

 

Panoramica su venti anni di vita italiana attraverso le vicende di un ex-partigiano giornalista che si inserisce nel sistema di una borghesia reazionaria”, spiega sinteticamente il Morandini: dalla resistenza al boom economico Risi (grazie anche alla splendida sceneggiatura di Sonego) racconta la storia dell'Italia e degli italiani di un mondo nuovo e pulsante che però premia arrivisti e gente senza scrupoli. Vent'anni di vita del nostro Paese in un film amaro che è considerato fra le migliori prove di Dino Risi.

Nessuna celebrazione, poco ottimismo, ancor meno entusiasmo. Tipica commedia all'italiana, Una vita difficile dimostra che, nonostante bozzettismi e facilonerie, il genere può aver valore di documentario e di satira. In una delle ultime interviste televisive rilasciate prima di morire, alla domanda del giornalista su quale fosse il personaggio interpretato a cui era maggiormente legato, Sordi rispose essere quello di Silvio Magnozzi, il protagonista del film, aggiungendo, come seconda risposta, quello di Giovanni Vivaldi, protagonista della pellicola Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli.

 

matteo mazza

domenica pomeriggio

Uno dei capolavori degli anni Sessanta, senza dubbio; uno dei migliori film di Dino Risi, certamente tra i più complessi al pari de Il sorpasso (forse il vero apice della commedia all'italiana e il vero specchio del boom). Qui si precede, si intravede qualcosa, si percepisce una trasformazione umana-politica-culturale-ambientale che determina lo sviluppo degli anni a venire e si arriva a questo qualcosa con lo sguardo di chi ride a denti strettissimi. Questo è un film in cui si racconta il consumo: delle cose, delle persone, dei sogni, delle idee. Alcuni momenti sublimi legati al cibo: l'osso del prosciutto sbranato nei mesi di "licenza", la cena dai monarchici durante il referendum, il calviale del finale. Ma anche quei momenti invisibili di cinema puro che consentono di comprendere il senso di una forma così equilibrata. Prendete la scena in cui Elena va a riprendere Silvio che, ubriaco, sputa sentenze: si accorge di essere rimasto solo, Elena fugge in auto, entrano in quadro il pastore con le pecore. Silvio è solo, e un po' pecora. Geniale. Oppure, il lungo piano che segue Silvio rincorrere e sputare le automobili di Viareggio. Ma anche il finale: quello schiaffo, finalmente, ritrae l'uomo Silvio nella sua dignità ricostruita e, finalmente, condivisa da Elena. Non un semplice schiaffo di ribellione autoreferenziale ma la presa di coscienza di un'identità. S'incamminano, mano nella mano, sulla strada della vita. Se non è un lieto fine questo...

giulio martini

domenica sera

il film - per cui persino  Palmiro Togliatti fece i complimenti ad un imbarazzato Alberto Sordi - regge al tempo, ma si evidenziano  certi tratti tipici  da  prima Repubblica , che oggi sembrano lontanissimi. Dino Risi non  controlla  sempre  un Albertone scatenato nelle sue troppe varianti, che rendono contraddittorio - nell'insieme - il suo personaggio. Ma questa  "mini storia di un italiano" ha scene memorabili, strordinarie  della più nera, moralistica ed autentica "commedia all'italiana".

angelo sabbadini

martedì sera

Tra le molte commedie della stagione è bella l’idea di recuperare un classico del genere: quella lontana “Una vita difficile” (1961) che molti ritengono il miglior risultato di Dino Risi. E l’operina, orchestrata magistralmente secondo un sapiente dosaggio di tragedia e comicità, funziona a meraviglia convincendo l’attento pubblico del Bazin. Non solo, ma la location di Lenno suggerisce ai presenti l’idea di una futura gita di piacere cinefilo sul Lago di Como…

carlo caspani

mercoledì sera

Fuori classifica come tutti i classici, un  Dino Risi esemplare che  merita un posto particolare nella storia della commedia italiana. Ritratto spietato di un borghese intellettuale e velleitario dietro le gigionerie di Alberto Sordi grazie alla sceneggiatura del suo "cervello", Rodolfo Sonego, che scrive il suo lavoro forse più autobiografico. Una storia di dopoguerra e boom, di coerenza tradita, con Roma la Versilia la provincia lacustre di Como raccontate ridendo, per non piangere. Lea Massari adorabile. Il vero finale, ovviamente, è quello con Sordi ubriaco che sputa alle macchine sullo stradone del lungomare a Viareggio, all'alba.

fabio de girolamo

giovedì sera

Al di là dei pallidi tentativi di imitazione attuali (vedi Se Dio vuole), questa è la commedia all’italiana. Dire che Una vita difficile è un film attuale è quasi scontato. Pensare che è ambientato quasi completamente negli anni ’50, gli intoccabili anni del boom economico, del benessere per tutti, dell’Italia che si risolleva dalle devastazioni della guerra, degli ultimi veri grandi statisti e, soprattutto, dei grandi imprenditori geniali e illuminati è inquietante. Sì perché, al di là della mitologia, gli anni della rinascita raccontati da Risi appaiono contenere già in nuce tutti gli aspetti, appena meno esasperati, della attuale (non si sa se e quando reversibile) decadenza italica. Come a dire che l’Italia repubblicana è già nata sotto questi auspici. Tanto di cappello alla lucidità analitica del regista e alla sintetica efficacia della messa in scena, ma anche al coraggio dei produttori di andare fino in fondo, fino a un dolce-amaro (finto happy)-end che la commedia italiana di oggi non avrebbe più neanche più la volontà di immaginare.

giorgio brambilla

venerdì sera

Dino Risi e Alberto sordi ci regalano un personaggio straordinario, questo Sergio Magnozzi che incarna così bene i pregi e, più ancora, i difetti del protagonista della commedia all’italiana, il quale riesce a farci ridere e piangere insieme, con la sua nobiltà comica e la sua esclusione tragica finale. Un individuo capace di resistere a tutte le tentazioni e sopportare ogni umiliazione per fedeltà a un ideale o a una donna, che poi butta via per la propria cialtroneria. Un’opera che mostra in  modo  convincente l’imbarbarimento della società civile italiana nei quindici anni successivi alla guerra e che, pur con qualche difetto, resta una pietra miliare in quello che sarà il genere cinematografico più bello e dannato del nostro cinema, con sequenze che fanno ormai parte dell’immaginario nazionale. E per di più è assolutamente consapevole di ciò che vuol fare, come si vede dai tentativi del protagonista di far pubblicare o trasformare in film il proprio, omonimo, romanzo. Cinquantasei anni e non sentirli!     

 

 

 

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La famiglia Belier
 

da domenica 4 a venerdì 9 ottobre 2015

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LA FAMIGLIA BELIER

REGIA E. LARTIGAU

 

 

 

La parola al regista: “I produttori Philippe Rousselet ed Eric Jehelmann mi hanno mandato la sceneggiatura. All'epoca ero nella fase iniziale di un progetto che desideravo scrivere… sulla famiglia. Dunque, è evidente che si tratta di un tema che non mi abbandona... o meglio che io non abbandono. Malgrado non mi ritenessi disponibile, ho immediatamente detto un enorme e incondizionato «sì» a La famiglia Bélier. Sono rimasto profondamente toccato dalla storia. A posteriori potrei ragionare sui motivi per cui certi temi mi sono piaciuti e sulle ragioni che mi hanno portato a scegliere di fare questo film piuttosto che l'altro, ma la verità è che la mia scelta è stata del tutto impulsiva. Non c'è dubbio che la famiglia sia un soggetto universale che, peraltro, è stato trattato migliaia di volte nel cinema. Ma è un tema che mi piace e mi interessa, poiché è il luogo dell'epidermide, è il luogo dove nascono tutte le emozioni primarie, le sensazioni animali. Adoro esplorarlo. Le risate e le lacrime, l'ingiustizia provata da qualcuno confrontata con la verità sentita da qualcun altro. In quanto regista, mi piace non essere costretto a scegliere tra tutti questi modi di sentire. Amo la commedia tanto quanto la tragedia e adoro soprattutto mescolare i due estremi, come accade nella vita reale, quando da una situazione drammatica scaturisce una situazione divertente o assurda… Il soggetto e la sceneggiatura originali erano di Victoria Bedos. Dopo aver accettato il progetto, rileggendo la sceneggiatura e di comune accordo con lei e con il suo co-sceneggiatore Stanislas Carré de Malberg, ho sentito l'esigenza di fare mia la loro storia... Inizialmente da solo e in seguito insieme a Thomas Bidegain... Ma tutti i temi erano già presenti, avevo giusto bisogno di appropriarmi della storia. A proposito della sua scrittura, Victoria Bedos parla spesso della sua «piccola musica». Mi restava solo da trovare la mia, poiché a quel punto dovevo inventarla in immagini. Innanzitutto mi ha stimolato il tema della partenza, della separazione vissuta come una lacerazione. È possibile lasciarsi con dolcezza? È possibile amarsi profondamente senza vivere in simbiosi? Come lasciare a ciascuno il suo spazio di libertà? Che ne è del nostro sguardo sull'altro quando cresce ed evolve? E il fatto di amarsi molto non vuol dire necessariamente che ci si ama bene. In una famiglia, che cosa aiuta a costruire, che cosa serve per andare avanti, che cosa ci fa soffocare? Dove posizionare il cursore in queste scelte? Anche il tema della paura, quella che ti impedisce di agire, quella che ti blocca… La fine dell'adolescenza è un momento cardine della vita. Guardare da lontano il mondo degli adulti nel quale si sta per essere catapultati senza rete può generare terrore. Persino il corpo non è ancora completamente formato. È un'età vibrante e vacillante che mi tocca molto. Raccontare i primi passi incerti di questa giovane ragazza il cui orizzonte si spalanca bruscamente mi ha appassionato. Il percorso di Paula, prima che trovi la sua strada e si assuma la responsabilità del destino che le si profila davanti, appartiene a ciascuno di noi. E sarà anche quello dei miei figli e dei miei nipoti. E poi trovare il proprio posto. Divenire se stessi. Bisogna per forza tradire un po' i propri genitori, uccidere il padre, come si suole dire? Del resto, è bello uccidere un padre quando questi, all'improvviso, si rende conto che quest'atto di violenza di fatto altro non è che una rinascita. In quanto genitori, cerchiamo di accompagnare al meglio queste creature così «fragili». Quello che mi divertiva in questa storia era spingere gli spettatori a chiedersi dove si possa situare la normalità. Sappiamo bene che è lo sguardo degli altri a determinare quello che è normale e quello che non lo è: abbiamo una grande capacità di imprigionarsi in un castello di idee preconcette e una certa propensione ad avventurarci su strade sbagliate. Lavorando a questo progetto, mi sono reso conto che i sordi non hanno lo stesso concetto del rapporto con gli altri degli udenti: sono estremamente diretti e se una cosa non gli sta bene non si fanno scrupoli girandoci attorno, ma al contratto vanno dritti al punto e, a volte, questo loro cogliere l'essenza può apparire volgare. Coloro che escludono al pari di coloro che sono esclusi hanno bisogno di affermare la loro appartenenza. L'istinto gregario riguarda ciascuno di noi, è un difetto che condividiamo tutti.”

roberta braccio

domenica pomeriggio

Si comincia l’anno con l’applauso in sala. Questo film dimostra ancora una volta come molti registi francesi siano ben sintonizzati  sulle emozioni universali e come sappiano muoverle a regola.  I tipici toni sempre un po’ stonati, o sul melodramma o sulla comicità che sfiora il cattivo gusto,  sono un vero e proprio marchio di fabbrica di un’industria ben rodata e consapevole che è ciò che piace ad un pubblico, ormai forse assuefatto agli scossoni emotivi. E allora via, su una girandola di sentimenti. Poco importa se la regola è il politicamente scorretto: sappiamo bene che alla fine la piccola voce (tanto difficile da accettare per la madre) scoppierà in un tripudio di gioia. Poco importa  qualche banalità ( ogni pezzo s’incastra alla fine e persino il cinico professore troverà l’amore): la storia è così originale che forse un po’ di banalità la rende fin rassicurante. Sebbene a mio avviso un film sfrontato non sia per forza coraggioso, questo resta un film riuscitissimo, e davvero piacevole.

giulio martini

domenica sera

dopo molti film targici o melodrammatici  su  vari tipi di handicap,e  a seguito della svolta "emotiva" di  Quasi amici, i francesi ci riprovano con questa famiglia di provincia che supera l'immancabile esame funale  ( a Parigi ! ) in un campo che è  che è l'esatto  contrario del difetto  di  partenza ( Bélier, contiene - all'origine -  il conecetto di  belare
non certo di cantare...). Girato con  scrupolos a attenzione al pubblico dai 7 ai 77 anni,  e avendo per  colonna  sonora  un  cantuatore  DOC  - Sardou -   che ha fatto di tutto  per non farsi  conoscere all'estero, il film  graonda  di  aromi e  profumi d'oltralpe, occuratamente citati ( dalla Bretagna ai formaggi locali ) e riconferma uno stile inimitabile nel racconto
e nellle battute: ma le critiche dell' Associazione sordomuti di Francia per alcune  situazioni  forzate ed improbabili sono legittime e rappresentano il punto debole dell'insieme.

angelo sabbadini

martedì sera

I sordomuti in forma di commedia: a memoria nessuno mai prima del regista Eric Lartigau aveva tentato l’impresa. E a giudicare dalle calorose reazioni del pubblico del Bazin ci è riuscito in pieno nonostante il carattere palesemente consolotario dell’operina e il vezzo di accentuare a dismisura la gestualità degli attori che interpretano i genitori della brava Louane Emera. Insomma l’operazione è piaciuta molto ma la sistematica propensione a semplificare l’assunto ne limitano inevitabilmente la portata.

carlo caspani

mercoledì sera

Storia di famiglia molto particolare, di passaggi e talenti adolescenziali, e di comunicazione: i sordomuti si affidano alla protagonista per mediare il loro rapporto col mondo cosiddetto "normale", e tutto passa attraverso una forte fisicità che è linguaggio del corpo, espressione di emozioni e in alcune situazioni pretesto per una comicità di grana grossa codita da qualche luogo comune che funziona molto bene, almeno in Francia, nel generare un film ad alto gradimento di pubblico.

marco massara

giovedì sera

E’ una questione di approccio: se si mette il film sotto la lente di ingrandimento del critico inquisitore è innegabile che si evidenziano dei difetti più o meno importanti : al di là del punto di vista verso l’handicap non proprio ortodosso ci sono dei cascami di narrazione non completati e qualche incertezza nel ritmo. Tuttavia la presa emotiva ha il sopravvento e si apprezza la delicatezza del tocco, la qualità della recitazione e la freschezza che nella commedia francese è quasi una garanzia. E con un pizzico di generosità si dà il primo ‘verde’ della stagione.

giorgio brambilla

venerdì sera

La famiglia Bélierracconta il passaggio di una giovane donna all'età adulta, con annesso distacco dalla famiglia e realizzazione di un sogno fondato sul dono del canto. Una storia che sarebbe oltremodo prevedibile e scontata, se non fosse inserita in un contesto di sordomuti. Questo aggiunge materiale per una serie di gag originali e amplifica un altrimenti semplice contrasto generazionale, perché il canto viene avvertito inizialmente dalla famiglia, soprattutto dalla madre, come una sorta di tradimento. Si introudce così prepotentemente anche il tema della diversità, intesa non solo negativamente, ma come capace di conferire identità; questo porta alla difficoltà e possibilità di comprendersi (non a caso “je vous entends” è il motto del padre per le elezioni), come quando, dopo la soggettiva acustica del concerto di fine anno, prima il padre fa cantare Paula mettendole una mano tra il cuore e la gola, e poi, al concorso, lei canta accompagnando le note con i gesti, per  comunicare sia con la giuria sia con la famiglia. C'è qualche caduta qua e là, ma nel complesso risulta un'opera divertente e non banale


 

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