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Ritorno a Seul

 

da domenica 14 a  venerdì 19 aprile 2024

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RITORNO A SEOUL

REGIA DI DAVY CHOU

 

“Freddie ha 25 anni, da molto piccola è stata adottata da una coppia francese che l'ha cresciuta amorevolmente, ma per qualche recondito motivo le sue origini coreane rimangono per lei un nodo irrisolto. In maniera piuttosto fortuita è costretta a trasferire il suo viaggio da Tokyo a Seoul, luogo in cui non riuscirà a ignorare il richiamo delle sue radici e finirà per mettersi alla ricerca della sua famiglia biologica. Nel giro di anni, fatti di silenzio, freddezza e poi riavvicinamenti, Freddie prova a ricostruire i pezzi sparsi della sua identità, cercando di comunicare con un padre alcolizzato che non parla nemmeno la sua lingua e una madre che non vuole farsi trovare.

Freddie Benoit cammina a testa alta per le strade piovose di Seoul, sembra trafiggere spavaldamente gli occhi dei passanti con il suo sguardo freddo, quando in realtà si sta guardando dentro, sta fissando il vuoto che lentamente la inghiottisce. Nemmeno lei ha idea di come sia possibile tentare di colmare questo vuoto, viene da chiedersi se l'effettivo ricongiungimento con i genitori biologici e con le sue radici perdute sia abbastanza. Forse, semplicemente ci sono persone piene e persone vuote, e Freddie fa parte delle seconde.

Ma non può fare a meno di sentirsi così, come un buco nero ambulante che annienta tutto ciò che tocca, e se niente può davvero appagarla allora non vale neanche la pena tentare di creare legami durevoli o condividere qualcosa con qualcuno. Come l'ultima bufera invernale spazza via tutti i bucaneve che timidamente cercano di bucare il manto nevoso, Freddie sopprime ogni relazione o rapporto che richieda un minimo di amore e pazienza. La sua vita sembra come in pausa, Freddie si lascia vivere, errando, osservando, sbagliando e facendo finta di divertirsi mentre attende una risposta della sua madre biologica, che nella sua psiche straziata si presenta come l'unica possibile speranza di rinascita.

In un panorama cinematografico ma non solo, che fa dell'ottimismo e della politica del lieto fine la sua cifra, Davy Chou ci mette davanti all'incapacità di risolvere certi nodi identitari o dissidi, senza neanche suggerire una via per poterci convivere: questa è la vera grandezza di Retour a Seoul, riesce ad essere vero senza rinunciare alla delicatezza e alla sensibilità

Tuttavia, anche nei suoi esiti più struggenti ed emotivamente destabilizzanti, Chou ha il pregio di riuscire a donare compattezza e spessore drammatico all'opera, attraverso una sapiente gestione del ritmo, che per quanto composito si mantiene sempre coinvolgente.
Davy Chou con la sua finezza sentimentale e il suo stile, si conferma sempre di più un astro nascente del panorama cinematografico internazionale.”

Archimede Favini da mymovies.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Il film è  l' ulcerante analisi di un trauma assoluto perché -  oltretutto  - i resposabili dell'abbandono non sanno dire nulla alla protagonista del perché  del loro gesto atroce,  anche se ci cimentano in patetici e rituali  tentativi di contatto.

Il racconto nei toni  garbati e lievi della gestualità, del rapporto prossemico e della musicalità  proprii del  sentire orientale  ( contrapposti a quelli europei ) evita  con cura  i modi del nostro  melodramma  e cosi  infonde  lentamente ma inesorabilmente nell' animo dello  spettatore  - fino a soggiogarlo  -  la sensazione  acuta  di un dolore immenso, quello di essere rifiutati dopo aver ricevuto la vita.

Emozione devastante che potrebbe condizionare il giudizio  sul risultato cinematografico., ma che nulla toglie,  anche senza catarsi, alla sua efficacia espressiva.

 

 

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Non è facile per i visionari del Bazin raccogliere la storia del cineasta franco/cambogiano Davy Chou. Si tratta di accompagnare emotivamente e visivamente l’alienazione della protagonista Freddie che modella i propri comportamenti intorno a un trauma irrisolto e insanabile. È faticoso seguirla nella sua congenita incapacità di empatia; è frustrante vederla ripetere con puntualità dinamiche disfunzionali. Il film avanza nel tempo e nello spazio in una Corea sempre fuori fuoco, ma Freddie continua instancabilmente a mettere in atto agiti di respingimento e fuga. Il tutto fino all’epilogo dove si apre un margine di speranza. Film riuscito, efficace ricognizione sul dolore di un regista ossessionato dai primi piani dell’attrice esordiente Park Ji – minh che da voce e corpo al tema delle adozioni internazionali. Un problema particolarmente drammatico in Corea che nasce nel dopoguerra e si trascina fino ai nostri giorni.

Guglielmina Morelli

(mercoledì sera)

In Corea sospesa tra grattacieli e complicati rituali mangerecci, tra pop fracassone coreano e Bach, tra notturni al neon e squarci documentaristici, irrompe Freddie, malmostosa e provocatrice, francese ma dal viso di “un’antica coreana”. Forse cerca qualcosa di sé nel paese asiatico dove, afferma, è giunta per caso, ma certo ne sfida le abitudini, non imparando la lingua (o forse imparandola ma fingendo di no). Si muove tra lingue diverse e necessarie traduzioni più o meno fedeli (costringe l’amica coreana e acrobazie verbali per non offendere l’interlocutore) e questo trucco le consente di coltivare la propria solitudine interrotta da qualche banale incontro maschile. L’approdo in un albergo apre il film e lo chiude, circolarmente; la protagonista è sola in entrambi i casi e come in tutto il film incapace di comunicare o indifferente agli altri, ma la cantata che noi ascoltiamo dice “cerco il giusto cammino”. Forse è anche così per Freddie, ancora non l’ha trovato.

 

 

Giorgio Brambilla

(venerd sera)

Nella prima sequenza di Ritorno a Seoul è già contenuto tutto il film: è inquadrata una ragazza dai lineamenti asiatici che sente in cuffia musica coreana; questa ne vede un’altra, che le chiede in inglese di poter ascoltare, e la prima acconsente. Dopo il passaggio delle cuffie sentiamo la musica a un volume più alto. Questo ci preannuncia che:

- la protagonista sarà la seconda. Tutto il film cerca di mostrarci quello che Freddy/Yeon-Hee sente;

- si immergerà per tutto il film nella cultura del suo paese d’origine, e contatterà i suoi genitori, continuando a sentirsi in parte estranea a essa e a loro (parla inglese ed è in cuffia, isolata dal mondo);

- per tutto il film cercherà se stessa, cioè la sua musica, cercando di suonare a vista, come dice nella scena successiva, ballando più volte da sola, ancora chiusa in sé, in un continuo movimento di ricerca dell’altro e di presa di distanza da esso, per nulla docile e gioiosa, nonostante il nome datole alla nascita.

Queste tematiche saranno sviluppate dal film con estremo rigore. Si interesserà solo a lei, pedinandola con continui primi e primissimi piani, sottolineandone la capacità di essere così sgradevole da respingere tutte le persone che le vogliono bene, al cui destino non dedicherà alcuna attenzione. Le sue diverse anime sono ben rese dal pastiche linguistico creato dall’accavallarsi di francese, inglese, coreano.
L’ultima sequenza mostra l’esito di questo processo: vediamo lei ancora intenta a cercare la sua musica in un hotel rumeno; questa volta è Bach, molto meno chiassoso e più equilibrato della musica precedente, ma non ha nessuno accanto.

Il cerchio si chiude

 

Marco Massara

(jolly)

“Diario di una adottata inquieta”, citando il film di Fran Perry.

Freddie vive una serie continua di repulsione-attrazione-identità e separazione che sembrano ripresentarsi ciclicamente in corrispondenza dei suoi compleanni.

E’ un film duro, spesso spiazzante di quelli che fanno ‘lavorare’ lo spettatore che non ne esce completamente soddisfatto e con qualche dubbio che lo insegue; sono i film che fanno bene.