Titolo

Elvis

 

da domenica 21   a sabato 27 maggio 2023

 

 

ELVIS

REGIA DI BAZ LUHRMANN

 

“Baz Luhrmann fin da ragazzino che viveva nel Nuovo Galles del Sud in Australia, aveva il desiderio di incontrare Elvis. Presley. La sua morte aveva reso impossibile quel sogno. Il cinema ora gli ha consentito di farlo divenire trasposta realtà.

Se non ci fossero state esigenze di immediata riconoscibilità e di sintesi comunicativa questo film avrebbe potuto tranquillamente intitolarsi "Elvis, io e voi". Perché il punto di vista narrativo sin da subito è quello di un mistificatore per eccellenza, quell'Andreas Cornelis van Kuijk che pretendeva di essere americano e si faceva chiamare Tom Parker. È l'uomo che condizionerà la vita di Elvis anche in modo molto pesante ma che non rinuncerà, nel corso del film, a chiamare a complice e, in alcuni casi, a correo il pubblico cioè coloro che hanno amato e adorato "The Pelvis".

È nell'intreccio di queste tre dramatis personae che si sviluppa lo split screen di una vita con la quale il cinema di Luhrmann raggiunge il suo punto più alto realizzando un appuntamento a cui il suo stile non poteva sottrarsi. Perché il suo spettacolarizzare ciò che già di per sé ha tutti gli elementi dell'entertainment raggiunge qui la massima potenza liberandosi dalla gabbia del manierismo. È la vita stessa della star, che con il passare dei decenni conserva intatto il suo carisma, che gli ha offerto la partitura visiva che va a declinare utilizzando tutta la tecnologia attualmente disponibile ma non avendo mai neppure una singola inquadratura fine a se stessa.

Tutto ciò grazie anche a due interpretazioni che definire magistrali è dir poco. Di Tom Hanks si credeva di conoscere tutto dal punto di vista del repertorio professionale ma il suo Colonnello Parker aggiunge una pietra miliare alla sua filmografia. Lo si osservi quando, indossate sul corpo debordante le vesti del padre putativo generoso, guarda da sotto in su quella che ritiene essere la sua sempre manipolabile creatura. Nei suoi occhi, più che nell'espressione della sua bocca, si legge tutta la malignità di quegli gnomi che in alcune fiabe solo apparentemente stanno dalla parte del Bene.

Ma è il trentunenne Austin Butler che rappresenta la grande sorpresa (…) non interpreta Elvis. È Elvis. Chi avrà modo di vedere anche la versione originale potrà verificarlo sequenza dopo sequenza, inflessione vocale dopo inflessione vocale. La sua è un'adesione totale alla persona e al personaggio permettendo così a Luhrmann non solo di narrarne il percorso professionale ma di leggerlo anche su un ancor più complesso piano storico e sociale.

Visto dall'Australia, Presley diviene simbolo di due fondamentali elementi molto made in USA. Se da un lato quel 'voi' viene utilizzato per leggere la creazione di un mito da parte di un pubblico che lo avverte come proprio e al contempo lo adora mentre lo divora (…) c'è un altro aspetto che ritorna insistentemente e che va ben oltre la celebrazione rutilante di un mito. Si tratta del tema dell'integrazione attraverso la musica. Quell'Elvis ragazzino che passa dallo spiare i canti e i balli afro proibiti alla chiesa dove quella stessa anima black si esprime negli inni e nei balli dedicati al Signore tornerà a far memoria di sé nel corso del film trovando nella lucida malignità di Parker l'esigenza di far ritornare 'bianco' quel ragazzo che ha animo e atteggiamenti che per l'America conservatrice incitano alla lussuria e alla perversione. Termini, questi, che nascondono la profonda irritazione nei confronti di chi non nasconde e non vuole nascondere la sua artistica ed intima adesione a un'integrazione che quell'America non voleva e ancora oggi, seppure in parte, non vuole.

Non è necessario possedere tutti i dischi di Elvis né essere stati in pellegrinaggio a Graceland a Memphis per apprezzare questo film. È sufficiente poter accettare l'idea che il cinema possa essere grande intrattenimento e spettacolo senza rinunciare a far pensare. Elvis di Luhrmann lo è. “

Giancarlo Zappoli, da mymovies.it

 

“La butto un po’ sul personale, ma aiuta il discorso. Nonostante non avessi ancora dieci anni (li avrei compiuti un paio di settimane dopo) ricordo perfettamente quel 16 agosto 1977: mi trovavo in auto, appena varcato l’ingresso del lido balneare dove avrei trascorso la giornata, mio padre stava per parcheggiare quando dall’autoradio giunse l’annuncio della morte di Elvis Presley. La cosa mi colpì perché poco tempo prima, in televisione, avevo visto delle immagini che mi avevano turbato: un Elvis in sovrappeso, di un gonfiore innaturale quasi quanto la sua immobilità sul palco, cantava continuando a detergersi il sudore copioso con asciugamani di un candore accecante, poi riposti sul collo come una stola. La cosa che trovavo sconvolgente era l’evidente sofferenza di quest’uomo, ingabbiato nel pesante costume di scena - anch’esso bianco - riverberante sullo schermo per l’effetto fluo della trasmissione: esausto, Presley aveva qualcosa di cristologico, lo show come una via crucis, la performance come una condanna (a morte). Ovviamente il novenne che ero non elaborò un pensiero preciso su quelle riprese televisive, ma l’effetto che suscitarono in lui fu enorme: era un evidente calvario offerto agli occhi del mondo. Chi o cosa costringeva la star più luminosa della musica americana al martirio? E il pubblico che era lì ad applaudire non si rendeva conto di nulla? È questo il complesso di impressioni e di immagini (lo chiamerò trauma, va) che mi si è puntualmente riproposto ogni qualvolta ho incrociato la figura di Elvis nella mia vita: fotografie, canzoni, film mi riportavano sempre al disagio provato in quella occasione. E che ho riscoperto identico in questo Elvis, quando nel finale si propone il filmato di repertorio di una delle ultime esibizioni della star (…) Per dire che mi pare già interessante a priori la prospettiva scelta da Luhrmann per raccontare il personaggio: la cavalcata quasi onirica del suo manager pigmalione Tom Parker che, sul letto di morte, evocando l’incontro con la futura stella, racconta come ne abbia di fatto controllato ogni frangente della carriera. (…) Figura faustiana quella tratteggiata da Tom Hanks: creatore geniale di Elvis, Parker ne è anche il suo disgustoso distruttore, colui che, intuendone da subito il potenziale, mise prima l’artista nelle condizioni di germogliare, poi di appassire. Il sottotesto continuo del film sembra essere: se il mondo ha avuto Elvis lo si deve a lui, a questa sanguisuga a suo modo paterna. A dire che non c’è una storia alternativa di una star chiamata Elvis Presley: l'unica è quella in cui il protagonista alla fine paga con la vita il suo successo. O così o niente Elvis del tutto («Siamo uguali, io e te»). Senza strega cattiva non ci sarebbe Biancaneve.

Luhrmann, insomma, racconta Elvis attraverso il metodico, inflessibile, spietato processo manipolatorio di Parker, il tycoon che porta un ingenuo e talentuoso ragazzo del Sud a diventare un mito. Una specie di arringa immaginaria in cui il Colonnello, nel tentativo di assolversi, pone in piena luce le sue colpe. Ma anche i suoi meriti. Meriti che non sono umani, e forse nemmeno artistici, attenendo di fatto allo show business, il tritacarne che massacrò Elvis. Lo stesso tritacarne che, però, ne ha fatto una stella intramontabile.

È un’intuizione straordinaria, perché quell’argomentare, rammentare, commentare, travisare ad arte i fatti diventa la base del viaggio per immagini - l’unico possibile per il regista australiano - attraverso la vita di Elvis: i voli pindarici di Parker sono quelli di Luhrmann che, tenendo dritta la barra cronologica, si permette digressioni, aperture di parentesi, salti temporali risucchiati in vertigine, con quella vividezza e quell’inventiva visiva che gli conosciamo. (…) Baz Luhrmann riesce a restituire proprio questa cosa qui, il suo cinema (camp in senso amplissimo) sa fare i conti con quell’erotismo trans-sessuale (e con quel linguaggio musicale trans-razziale e quel proporsi trans-classista - le origini umili sempre rivendicate -), con quel dimenarsi ribelle, pre-punk. Luhrmann, insomma, al di là del discorso immaginifico, ci fa comprendere davvero la portata del personaggio e lo fa evitando le pastoie del biopic tradizionale, agendo a un livello profondo, sensoriale. (…) L’ho già scritto su Film Tv, ma lo ripeto volentieri qui: una sola cosa manca a Elvis del tipico film biografico, la noia.”

Luca Pacillio, da spietati