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Dante

 

da domenica 30   aprile a  venerdì 5 maggio 2023

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DANTE

REGIA DI PUPI AVATI

 

 

“È quest'ultima una delle intuizioni migliori di Pupi Avati, che va contro la prevedibilità del mettere in scena gli episodi più memorabili della Comedia per farli rimanere pura poesia nelle parole di Dante, ricordando come l'immaginario di uno scrittore viene ispirato da ogni evento testimoniato o vissuto. D'altro canto, questa scelta narrativa, che ci dà libero accesso alla Storia e alla Letteratura, presuppone una conoscenza capillare del capolavoro dantesco, e potrebbe risultare poco comprensibile ad uno spettatore meno preparato.

Avati sembra partire dal presupposto che la Divina Commedia, così come i sonetti danteschi, siano codificati nel DNA di ogni cittadino italiano, mostrando suprema fiducia in quella scrittura in cui Dante ha convogliato il suo dolore, e che custodisce "l'emozione del mondo". Forse ha ragione, ma dal punto di vista dell'azione filmica la perdita della madre, l'innamoramento di Dante e la morte di Beatrice, il tradimento di Guido Cavalcanti, il tormento dell'esilio vengono raccontati in toccata e fuga in un film di un'ora e mezza che, di nuovo, sfugge alla tentazione enciclopedica, ma può risultare troppo poco movimentato.

In questo contesto più letterario che cinematografico (in termini di azione) spiccano alcuni momenti davvero ispirati, come lo sguardo in camera di Beatrice, o il quadro del Papa ad Avignone che prende vita. Dante di Pupi Avati deve molto a Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, anche in quel far parlare la Storia, e in questo caso la Letteratura, rivolgendosi direttamente allo spettatore, e nel restituire al pubblico una dimensione compositiva che affonda le sue radici nella tradizione pittorica italiana. E la scelta di girare in luoghi per certi versi rimasti intatti nel tempo, come Bevagna o Viterbo, fra l'Umbria, l'Emilia-Romagna e il Lazio, rendono assai credibile la sua ambientazione Medioevale.

Questo Dante è un atto d'amore sviscerato, e il personaggio di Boccaccio è evidentemente l'alter ego di Avati, un estimatore del sommo vate (oggi lo definiremo un groupie!) che sa immaginarlo soltanto eternamente ragazzo, e che del suo idolo vede solo i lati positivi: il che è anche un limite del film, perché il Dante di Avati non ha ombre, è sempre vittima della sua ingenuità e delle sue buone intenzioni incomprese, e dunque meno complesso di quanto la narrazione richiederebbe. Ma nel suo entusiasmo incontenibile Avati restituisce valore all'incanto della poesia dantesca, soprattutto i sonetti, contestualizzandoli nella perfetta ricostruzione di un mondo andato che ancora oggi ci forma.

E se da un lato il regista e sceneggiatore ha il coraggio di essere visionario, dall'altro alcune immagini (…), possono apparire eccessive nel contesto realista della messa in scena. Molto diseguale l'interpretazione degli attori: a tocchi di classe come Erica Blanc, Alessandro Haber, Leopoldo Mastelloni o Mariano Rigillo, che in brevi apparizioni valorizzano tutta la loro esperienza teatrale, fanno da inadeguato contraltare alcuni attori che, oltre alla minore capacità recitativa, hanno fattezze moderne (e debitrici del chirurgo plastico) davvero inadatte alla rappresentazione d'epoca. Così come il commento musicale, di per sé validissimo, sottolinea troppo pesantemente molte scene, accentuando un'emozione cui dovrebbero bastare le circostanze.”

Paola Casella, da mymovies.it

 

“Erano anni che Pupi Avati inseguiva un progetto cinematografico su Dante Alighieri e lo realizza sulla scia del suo libro L’alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, in cui è Boccaccio, primo dantista che la storia ricordi, ad accompagnarci in alcune tappe della vita di Dante attraverso un on the road nell’Italia del 1300. Il fine del viaggio è quello di regolare i conti con un passato ingiusto - in cui Dante fu esiliato e costretto ad abbandonare la sua amata Firenze - tramite un gesto poco più che simbolico di cui Boccaccio si fa messaggero: la consegna di dieci fiorini d’oro zecchino a Beatrice, l’unica figlia di Dante ancora in vita, fattasi suora a Ravenna. Lo spunto consente un’immersione nell’Italia ancora provata dall’epidemia di peste bubbonica, tramite varie tappe che permettono di rievocare figure ed eventi decisivi della vita di Dante. La scelta si rivela felice perché, oltre a una cura formale attenta ai riferimenti pittorici dell’epoca, trova un modo originale per approcciare una materia complessa che una biografia tradizionale avrebbe sicuramente appiattito. Pupi Avati non si piega al timore reverenziale nei confronti del sommo poeta considerato il padre della lingua italiana, ma decide di farlo scendere dal piedistallo, di renderlo umano; lo mostra quindi innamorato ma incapace di tradurre in azione il suo sentimento, viscerale nelle scelte politiche e nel fervore anticlericale, sanguigno nelle amicizie, intento a defecare in battaglia sul bordo del fiume, insomma, “uno di noi”. Anche questa una scelta felice, in grado di accorciare le distanze e di offrire uno sguardo inedito e singolare.

Il genere horror, da sempre nelle corde del regista bolognese, è trasversale al viaggio, nel fetore che si immagina e si respira, nelle unghie nere e nella sporcizia sempre evidenti, ma anche in alcuni dettagli (…) Tentativi riusciti di celebrare il noto con interessante soggettività. Se quindi l’insieme risulta originale e a suo modo efficace, anche nel non citare mai la Divina Commedia ma limitandosi a evocarla, non sempre il passaggio dalle lodevoli intenzioni alla scansione delle immagini arriva però fluido. La necessaria sintesi impone infatti passaggi a volte bruschi (il rapporto di amicizia con Guido Cavalcanti), altri poco chiari senza conoscere già i fatti storici, altri ancora un po’ didascalici nella necessaria ma didattica elencazione di nomi, date ed eventi, con un doppiaggio spesso stridente nella sua asettica innaturalezza. A dominare è però l’approccio personale del regista e la sua capacità di spiazzare evitando le banalità del noto con sorprendente vitalità.”

Luca Baroncini, da gli spietati

 

“Dopo Lei mi parla ancora, Pupi Avati torna alla regia con la più ambiziosa delle opere. Dante è un progetto la cui portata rischia di affossare qualsiasi tipo di trasposizione cinematografica. La messa in scena, anche solo della vita di Dante Alighieri, potrebbe rivelarsi controproducente, in quanto ciascuna sua poesia, poema o scritto filosofico trasuda inequivocabilmente di tutte le sofferenze o le gioie, di tutti i racconti o gli sguardi che il Poeta raccolse durante la propria vita.

Un’impresa titanica, sotto tutti gli aspetti. Eppure, fin dalle primissime sequenze, il film sprigiona l’enorme rispetto e la sincera passione del proprio regista nei confronti del suo protagonista, che protagonista non è a tutti gli effetti. Avati, riprendendo il suo romanzo L’alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, predispone un racconto che segue due direttrici che si inseguono: Boccaccio ripercorre, passo dopo passo, il cammino di fuga che il Poeta, anni prima, dovette compiere in esilio da Firenze. Il viaggio che intraprende l’autore del Decameron ha lo scopo di raggiungere a Ravenna Beatrice, figlia di Dante, per chiederle un perdono, mai concesso al padre, a nome di una città intera. Ma non solo. Boccaccio, durante ciascuna tappa del suo percorso, incontra gli unici testimoni rimasti dell’ultima parte di vita di Dante Alighieri. Solo così, egli sarà in grado di ricostruire la storia della vita del più importante poeta italiano, consegnando il nome di Dante Alighieri al mito eterno. La ricostruzione storica, linguistica e letteraria realizzata dal regista risulta decisamente accurata. In questo senso, Pupi Avati si è avvalso del contribuito di numerosi storici e Dantisti che hanno definito nel dettaglio la resa credibile di uno scenario storico così particolare come quello del 1300. Il fetore dei cadaveri delle vittime della peste e le manifestazioni visive delle malattie del tempo sulla pelle di uomini e donne sono i caratteri distintivi che emergono da una messa in scena contenuta e ben ragionata.

Accanto alla storia, però, c’è l’immortale poesia di Dante. “L’unica vera gioia della mia vita”, dice Boccaccio alla figlia del sommo poeta, una volta arrivato a Ravenna. Il Boccaccio di Avati, interpretato da un commuovente Sergio Castellitto, non vede in Dante soltanto un grande poeta, in lui riconosce la figura paterna, l’unico uomo che gli ha insegnato ad amare. Ed infatti il suo viaggio, che in un certo qual modo è anche il viaggio che lo spettatore intraprende seguendo i movimenti della mdp di Avati, acquista i connotati di un pellegrinaggio spirituale il cui fine è riabbracciare un padre conosciuto attraverso la letteratura. L’immensa riconoscenza di Boccaccio rispecchia, anche e soprattutto, quella del regista che rivendica attraverso la voce di Castellitto tutta la propria gratitudine nei confronti di Dante. Proprio per questo, nonostante il film sia intriso nella sua essenza della poesia di Dante, i momenti in cui l’immagine si confronta esplicitamente con l’opera dantesca sono pochi. Questi riguardano esclusivamente la giovinezza di Dante (interpretato da Alessandro Sperduti) e il suo rapporto poetico, spirituale e (non) carnale con l’amata Beatrice. Rapporto che Avati presenta sottolineandone i caratteri di morbosità e pulsione erotica, attraverso il ricorso al genere horror. Come abbiamo detto in precedenza, trasferire nelle immagini la potenza di queste parole è davvero un’impresa titanica. E, forse, è proprio nel confronto diretto con la poesia di Dante che la forza sincera delle immagini di Avati perde l’incontro/scontro. Ma questo e qualche passaggio a vuoto di scrittura indeboliscono solo in parte un ritratto assolutamente sincero e appassionato di un regista che ha superato i quaranta film all’attivo ma che sa ancora parlare di amore, forse il più grande mai raccontato.”

Giorgio Amadori, da Sentieri selvaggi

 

“C'è il punto di vista di Beatrice Portinari, l'amatissimo bene, con il primo sguardo tra i due, un’imprinting incancellabile, e il flusso emozionale che ne scaturisce. Ne li occhi porta la mia donna amore, dice Dante nella Vita Nova. C'è il punto di vista di Giovanni Boccaccio, l'autore del Decameron, il più entusiasta dei biografi del Sommo Poeta. C'è il punto di vista di Firenze, che dopo aver esiliato nel 1302 "il suo figlio più illustre" in quanto guelfo bianco, tenta un tardivo risarcimento. E c'è il punto di vista di Avati, che umanizza Dante, lo fa scendere dal piedistallo e lo rende uno di noi, oltre gli allori e le celebrazioni postume: un'anima delicata travolta da tradimenti e delusioni, ma senza ostacoli di fronte a un progetto, la Divina Commedia, destinato a diventare immortale.

Un uomo lacerato, fedele a un ideale d'amore ultraterreno, un genio profetico e mistico. Avati aggiunge al profilo visioni, interpretazioni, approfondimenti e un décor suggestivo, connettendo con riverenza fasi controverse della vita errabonda che portò Dante all'ultimo approdo a Ravenna. Come il Guglielmo da Baskerville de Il nome della rosa di Umberto Eco, Boccaccio conduce un'indagine, raccoglie testimonianze, chiede conferme. Compie un viaggio/pellegrinaggio, in quella metà del Trecento che seguì la fine dell'epidemia di peste bubbonica, portando con sé i 10 fiorini d'oro zecchino della Compagnia di Orsanmichele per la figlia del Vate fattasi suora a Ravenna, accanto alla tomba del padre.

E allora, come in una favola rurale, ecco l'amicizia con Guido Cavalcanti, le battaglie antipapiste, Il Dolce Stil Novo, l'ispirazione per i personaggi della Commedia, da Paolo e Francesca al conte Ugolino, fino alla morte, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 dopo aver convogliato nel suo capolavoro il dolore e "l'emozione del mondo".

Il film, girato tra l'Emilia-Romagna e l'Umbria, si illumina figurativamente, ma scende di tono quando illustra le relazioni interpersonali, scegliendo la strada della descrizione e dell'evocazione. C'è un'assonanza con il cinema medievalista di Ermanno Olmi, mentre affiora il senso della Storia come riassunto e apice delle vite individuali.”

Paolo Baldini: da Cinematografo.it

 

Le location del film: oltre a Firenze, il film è stato girato a Bevagna, Foligno e Perugia; la scena dell’incontro tra Dante Alighieri e Beatrice Portinari è girato sul sagrato della chiesa di Santa Maria Assunta a Vallo di Nera.

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Usando lo "sponsor letterario" Boccaccio il sanguigno regista bolognese ridisegna il profilo emotivo del Poeta sommo.

Lo carica delle "prove" ricorrenti nei suoi film ( gli amori delusi, il tradimento tra amici, il senso del demoniaco e del funereo da cui si origina - per cupo contrasto - il desiderio dell'eterno e del sublime, il confronto con l'autorità ecclesiastica ) ma lo depaupera della vasta cultura teologica e della acuta religiosità.

Tanto da eleggere quasi a co - protagonista un mobile - il letto - onnipresente lungo tutto il racconto quale ricettacolo  scenografico di ogni  attività  terrena ( non solo privata ma anche pubblica ) a riconferma sì di una puntuale documentazione storica (cfr. illibro sul tema della Frugoni ) ma anche della sensuale fisicità che pervade sempre le sue pellicole, che poi però aspirano a suggerire dimensioni liriche e spirituali.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Non manca la determinazione all’ottuagenario Pupi Avati! Con Dante porta a compimento l’impresa coltivata da vent’anni e si riprende la scena al Bazin dopo un lungo oblio. Il suo quarantaduesimo film gioca la sua partita con la vita ineffabile del sommo poeta attraverso la traccia del Trattatello in laude di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. E lo spunto funziona tra impeccabili tableaux vivants e ardite invenzioni horror. Il tema della bambola di legno, derivato dal saggio di Franco Cardini, ne è un esempio calzante e assolutamente funzionale alla narrazione. Dante è strappato di mano ai letterati e trascinato nell’agone della tragica quotidianità. Bel risultato e capitolo fondamentale nella storia tra il poeta fiorentino e il cinema. Il tutto in attesa di vedere l'ultimo capitolo: l’opera di Mimmo Paladino che sta per uscire sugli schermi.

 

 

 

Carlo Caspani

(mercoledì sera)

Pupi Avati realizza un sogno durato quasi quindici anni: un film ispirato dalle novelette del Boccaccio sulla vita del Ghibellin fuggiasco. Lo fa con il suo stile, ricco di flashback e ambientato in un cupo Medio Evo di malattie, guerre, carnalità che fanno risaltare, questa è l'intenzione, la poesia e il pathos affettivo di pagine che fanno parte da sempre della nostra lingua e letteratura migliori. Non sempre il gioco riesce appieno: ma, complice un Sergio Castellitto decisamente in parte, alcuni momenti restano impressi nergli occhi dello spettatore: Beatrice, sensualissima, che mangia un cuore crudo in sogno, la guerra contro gli aretini, l'incontro finale con la consegna dei dieci simbolici fiorini e l'epitaffio dedicato dalla figlia all'uomo che conosceva tutte le stelle per nome.

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Pupi Avati ci regala il ritratto del massimo poeta italiano dipinto da due innamorati, lui e Giovanni Boccaccio, suo alter ego nella pellicola. Questa eterogenea coppia non riesce ad immaginare Dante se non giovane, e ci consegna di lui un’immagine ideale più che storicamente precisa. Il regista cerca di mostrarci la scaturigine di molti dei testi dell’Alighieri che probabilmente porta nel cuore, e la individua in episodi molto concreti della di lui esistenza, come a dire che un artista non crea mai dal nulla, ma ha piuttosto il dono di trasfigurare il proprio vissuto e, soprattutto, il proprio dolore. D’altronde alcuni riferimenti storici precisi ci sono, come quello allo scontro tra i nobili fiorentini e il Comune della città. Ne esce un Dante concreto ancorché idealizzato, che vediamo sognare, palpitare d’amore e defecare, costretto all’esilio da uomini tanto più meschini di lui, ma tanto più abili politicamente; un quadro tenero e crudele, secondo lo stile che da oltre mezzo secolo caratterizza il cineasta bolognese

 

 

 

 

 

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Il genere “biopic” è pericoloso: nel cortocircuito tra realtà e creazione il film rischia moltissimo. Se poi il personaggio narrato è un artista le cose si complicano ancora di più: è necessario mostrare come nasce l’ispirazione e come il nostro crea, come le opere si confrontano (si confondono) con la vita del nostro artista. Insomma: un po’ di luoghi comuni che lo spettatore si aspetta. Avati per questo Dante si è in più avvalso della collaborazione di illustri dantisti e medievisti che lo avrebbero aiutato a ricostruire la figura del “vero Dante” inserito nel suo “vero tempo” (inutile dire che ogni dantista ha la sua idea su Dante che non corrisponde ad alcuna altra. È una nevrosi da letterati, lo so, ma accade anche a me!). Vano sforzo: o questo Dante lo trattiamo come un film (e così si deve fare) o non bastano battaglioni di agguerriti dantisti. Dunque, è solo un film, con protagonista un giovanotto con un gran naso e poco acume (anzi, un gran tonto, verrebbe da dire, che quando fa politica lo incastrano come niente con l’accusa di baratteria) interpretato male da un giovane attore. Si innamora non riamato di una ragazza che viene chiamata Beatrice, una bellezza alla Dominique Sanda ma con gli occhi azzurri, che però muore poco dopo il matrimonio (anche questa attrice recita con un po’ di difficoltà). Il nostro protagonista, esiliato da Firenze, si comporta come un partigiano nelle Langhe: fugge nei boschi nascondendosi nei fienili, poi da vecchio trova rifugio a Ravenna, dove muore. Nel frattempo, quando ascolta una storia truculenta pensa che potrà farne un buon soggetto per un suo libro. Il tutto raccontato da un vecchio straccione (poeta anch’egli, ma meno celebre) che cerca la figlia del grande poeta, suor Beatrice, per consegnarle del denaro a mo’ di tardivo risarcimento per il torto subito dal padre. Il plot è questo. Film lento, noiosetto, mal recitato se non per i camei cui si sono prestati veri attori (strepitoso Leopoldo Mastelloni, che in due minuti si mangia il Dante il nasone - Alessandro Sperduti). Infine, il medioevo violento e miserabile già l’aveva raccontato (meglio) Monicelli. Dante, quello vero, non c’entra nulla e quelle operine per cui è famoso ne escono anche peggio. Giallo di stima per Avati, che voleva trasformare Dante in una persona che non può essere, un nostro giovane amico.