Titolo

Le 8 montagne

 

da domenica 16   a  venerdì 21 aprile 2023

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LE OTTO MONTAGNE

REGIA DI FELIX VAN GROENINGEN, CHARLOTTE VANDEMEERSCH

 

 

«Le montagne della Valle d’Aosta finiscono sugli schermi di tutta Europa in una maniera che ti toglie il fiato. Il film crea un grande coinvolgimento con i personaggi e con il paesaggio che cementa tutta la storia. È un risultato incredibile». Alessandra Miletto, direttrice della Film Commission Valle d’Aosta, è emozionata nel parlare del film Le otto montagne dei registi di Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen, che ha vinto il Premio della Giuria al 75° Festival di Cannes. Tratto dall’omonimo bestseller di Paolo Cognetti (vincitore del Premio Strega del 2017), è stato girato all’80% in Valle d’Aosta (il restante 20% tra Torino e il Nepal).  Per ospitare la casa di Pietro, uno dei due protagonisti della storia, è stata scelta la vecchia scuola di Graines, un villaggio nel Comune di Brusson, a 1.375 metri di quota, formato da una dozzina di case, che è abitato da alcune famiglie solo nella stagione estiva. L’edificio, di proprietà del consorzio, è parzialmente diroccato e in fase di ristrutturazione. La produzione, a tal proposito, si è fatta carico di una parte dei costi di sistemazione. La frazione è raggiungibile attraverso una stretta strada di montagna. Da Graines si parte per raggiungere a piedi un’altra zona ‘simbolo’ della storia: i laghi di Frudiere, a 2.400 metri di quota. L’altra location del film è l’alpeggio in località Merendioux, a oltre 2 mila metri di quota, che nel libro viene ristrutturato da Bruno (e si chiama Barmadrola). Si trova sopra Estoul (Brusson), poco sotto i laghi di Palasinaz. La struttura è molto vecchia ed è stata in parte risistemata durante le riprese. Si raggiunge facilmente a piedi mentre per i mezzi fuoristrada il percorso è meno agevole lungo una strada sterrata di montagna. In questo caso è stato usato più volte l’elicottero per portare in quota attrezzature e attori.

 

LA CRITICA

 

Due di due. Potremmo tirare in ballo il titolo di un altro romanzo, di Andrea De Carlo, per dire de Le otto montagne, il libro di Paolo Cognetti (Giulio Einaudi editore, Premio Strega 2017) portato sul grande schermo da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, e quei due sono Pietro (Luca Marinelli adulto) e Bruno (Alessandro Borghi adulto), l’uno di città, l’altro montanaro, che bambini, ragazzini e uomini scriveranno tra i monti i propri destini incrociati. Prodotto da Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa per Wildside, società del gruppo Fremantle, scritto dagli stessi registi (il belga van Groeningen, classe 1977, ha in carnet Alabama Monroe e Beautiful Boy), Le otto montagne è in competizione al 75. Festival di Cannes e arriverà nelle nostre sale con Vision Distribution.

L’incontro tra Pietro, i cui genitori sono incarnati senza infamia né lode da Timi e Lietti, e Bruno avviene a Grana, Valle d’Aosta, alle pendici del Monte Rosa: dopo aver stretto un’amicizia profonda, i due si perdono di vista, scontando entrambi rapporti difficili con i propri padri. Invero Bruno lega con il papà di Pietro, che al figlio lascerà in eredità proprio l’amicizia con Bruno e la montagna, segnatamente un rudere da ristrutturare. Riusciranno così vicini così lontani, così uguali così diversi i due uomini a ricostruire la relazione? Una leggenda nepalese riportata da Pietro illumina la via: vuole che al centro del mondo ci sia un monte altissimo, il Sumeru, attorniato da otto montagne e otto mari, e i nepalesi si chiedono se avrà imparato di più dalla vita l’uomo che ha scalato il Sumeru o quello che ha esplorato le otto montagne, da cui il titolo. Il primo è Bruno, arroccato in una solitudine alpina che ne pregiudica non solo l’interazione con l’amico, ma anche con la compagna e la figlia, il secondo è Pietro, che ai piedi dell’Himalaya troverà l’amore, ma senza dimenticare il suo – è così? – alter ego: due di due, talvolta due di uno, infine uno di due.

L’adattamento è fedele, nella lettera e nello spirito, e se possiamo sicuramente stigmatizzare la voce over di Marinelli, altresì dobbiamo riconoscere un lavoro puntuale, empatico, sincero. Certo, è facile con quei paesaggi, con quella natura – occhio a chiamarla così che Bruno dissente, ma chiediamoci: un formato panoramico non avrebbe giovato? – meravigliosa, con quella spinta ascensionale da mozzare il fiato e la visione, ma la fotografia (Ruben Impens) ha più di un merito, al netto appunto dell’aspect ratio ingeneroso. Anche l’alveo in cui si inserisce il film è singolare e significativo: un film d’avventura, di maschia e ruvida amicizia, con lampi di bromance, che nell’aura ci fa rievocare la nostra infanzia, sia per le montagne che per la letteratura.

E poi ci sono loro, Marinelli e Borghi, entrambi reduci da prove opache (…) che ritrovano l’alchimia di Non essere cattivo (2015) e singolarmente sé stessi: sono bravi, diremmo, sono amici e lo trasmettono come il film richiede, come meglio non potrebbero, con menzione speciale per Borghi e il suo dialetto – no, non era facile, sebbene stia diventando, vedi Favino, un pericoloso rito di passaggio per i nostri interpreti principali.

Non c’è da dire molto altro, Le otto montagne è un film medio con, ehm, alcune vette: l’ambientazione, i protagonisti, la musica di Daniel Norgren. Forse più d’acchiappo che da arrampicata, tant’è.”

Federico Pontiggia da cinematografo.it

 

 

Marco Massara

(domenica pomeriggio)

Una lunga e forte amicizia, il rapporto col padre, la visione del mondo. Temi forti che richiedono un film che abbia immagini forti e tempi adeguati.

Il risultato funziona e soprattutto non sceglie una posizione dalla quale derivare una sorta di ‘visione unica’, ma preferisce suggerire ed interpellare o spettatore lasciandogli alternative su cui ragionare.

Ottima la recitazione.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

Dopo due settimane di astinenza c'è una gran voglia di cinema al Bazin ! E il piatto è davvero ricco: tutti dichiarano di avere letto il fortunato libro di Paolo Cognetti e di non vedere l'ora di conoscere la trasposizione cinematografica. Che, per carità, è bella, ben congegnata, con qualche lungaggine di troppo e una compilation musicale troppo insistita. Ma l'operazione nel complesso funziona e incornicia splendidamente le montagne in formato 4:3. Alla fine la sensazione è che il pubblico abbia finalmente trovato il film candidato a vincere il premio di gradimento della stagione 22/23. Alla fine solo note positive e un gran desiderio di Wilderness.

 

Carlo Caspani

(mercoledì sera)

Da un romanzo di Paolo Cognetti, la coppia Van Groeningen e Vandermeersch ricava un film di ambientazione montanara ricchissimo di contenuti. L'amicizia adolescenziale tra Pietro e Bruno si apre, si sospende, riprende e matura in storia di  fratellanza, di scelte di vita, d rapporti di paternità, e molto altro ancora. Girato in un 4/3 classico, degno dei documentari di un tempo, senza concessioni alla mistica spettacolare delle scalate esotiche ed eroiche, parla di vita dura montanara in una Val d'Aosta riconoscibile tra dialetti volutamente generici e accennati, per rendere più assoluta la metafora narrativa, e apre al pubblico occhi, cuore e mente.

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch propongono un film in 4/3, che sta attaccato ai personaggi, soggettivando il racconto anche quando mostra gli splendidi paesaggi valdostani o tibetani. Al centro ci sono Pietro/Berio e Bruno e il loro rapporto. Dopo un inizio nel quale centrale è la relazione di Pietro con il padre, si va avanti nel tempo e nell’animo dei protagonisti attraverso la voce over, i silenzi, l’interiorizzazione degli accadimenti. Alcuni snodi narrativi decisivi, come la morte del padre di Pietro, sono raccontati in modo estremamente sintetico. Salti di anni sono solo allusi, con rapidi movimenti nello spazio, come quando la madre di Bruno riferisce che suo padre l’ha portato con sé e Pietro fugge nella stanza sopra, e quando la macchina da presa arriva è diventato un giovane che sta a fatica nel letto. Insomma il film racconta di una grande amicizia e della difficoltà di trovare il proprio posto nella vita, della necessità di esplorare il mondo e di ripercorrere i passi del proprio padre per trovare se stessi, con uno stile asciutto e contemplativo, che elimina l’inessenziale per mettere a fuoco ciò che conta davvero

 

 

 

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Chi si aspettava un film sulla montagna sarà stato in parte deluso; chi aveva praticato, per contro, il libro da cui è stato (con molta fedeltà) tratto, sapeva che i temi erano anche altri. Il rapporto dei due protagonisti coi padri (veri o “putativi”), il passaggio dalla adolescenza (o pre-adolescenza, come ora si chiama) alla maturità (improvvisa e precoce per Bruno; incerta e continuamente rimandata per Pietro), le difficoltà nel trovare una propria dimensione accanto agli altri. Diversi per provenienza, status sociale e poi scelte di vita, Bruno e Pietro si riconosceranno sempre sodali nell’amore per la montagna, per il silenzio, per gli spazi disabitati e legati da indissolubili relazioni di affetto e reciproca accettazione (nonostante litigi cinematograficamente inevitabili). Film lineare, un po’ scontato, un po’ lungo (ma questa è una pena cui ormai siamo sottoposti), dai tempi lentissimi (che devono assecondare la scelta di Bruno per una vita secondo i ritmi della montagna e dei suoi animali, cui si oppone il vagabondare intellettualistico di Pietro), è riscattato dalla recitazione di Borghi che si trasforma vieppiù, fisicamente e psicologicamente, in un personaggio chiave della mitologia delle Alpi: l’homo selvadego.