Titolo

Cry Macho

 

da domenica 11  a  venerdì 16 dicembre 2022

vai ai commenti degli animatori

vai ai commenti del pubblico

 

CRY  MACHO

REGIA DI CLINT EASTWOOD

 

 

LA CRITICA

 

“La quarantesima volta dietro la macchina da presa, lungometraggi, del novantunenne Clint Eastwood ha titolo quanto mai incardinato nelle ragioni del suo cinema ultimo scorso, diciamo dal 2000 in poi, e del tempo che stiamo (soprav)vivendo:Cry Macho. Eppure, e qui sta ancora una volta la natura complessa della sua semplicità, il libro da cui attinge, Cry Macho di N. Richard Nash, qui sceneggiatore, è del 1975: fare del passato presente è proprio la cifra poetica del film, in bilico tra summa e memento, lezione e congedo con chiaro voltaggio autobiografico e metacinematografico.

Ritorno a casa, predica non geograficamente, il sottotitolo italiano, e a volerlo giustificare dovremmo volgerci al genere d’appartenenza, il western, hortus (non) conclusus del Nostro, battezzato da Sergio Leone (la “Trilogia del Dollaro”), cresciuto per conto terzi (L’uomo dalla cravatta di cuoio, Impiccalo più in alto) e maturato da autarchico, da Lo straniero senza nome (1973) a Gli spietati (1992). Non crepuscolare, solo senile, questo western è sui generis, di più, eterodosso, ancor più, dialettico e confliggente rispetto ai topoi di riferimento: l’ex stella del rodeo, ci ha rimesso la schiena, è diventato allevatore di cavalli, alla bisogna veterinario, e dopo l’orticoltore del gemello The Mule – Il corriere (2018) non può sorprendere, solo ribadire l’intenzionale decostruzione, la volontaria demitizzazione dell’ex uomo senza nome. Qui si chiama Mike, Mike Milo, e accetta l’incarico dell’ex boss di riportargli a casa il figlio, Rafo (Eduardo Minett), dal Messico: il coming to age si instraderà sul coming home, per vie secondarie e incontri fortuiti alla volta del Texas, tra autostop sentimentale e riscatto esistenziale. Una bella vedova messicana per l’ultimo ballo, un gallo di nome Macho per terzo (in)comodo, l’(auto)ironia per compagna, lo slapstick per antidoto alla violenza, insomma, del western duro e puro, del western eastwoodiano c’è poco, ovvero il contrario di tutto: l’educazione sentimentale anziché marziale, la fragilità e la sofferenza di un corpo nonuagenario in guisa degli antichi ardori marziali, la paternità culturale al posto del primato del sangue, sparso o trasmesso. Una nuova terra promessa, che non è più l’avito Texas, bensì lo straniero Messico, dove il caro vecchio Clint può appendere il cinturone al chiodo, ma non ancora la macchina da presa: una camera, la sua, con vista sul proprio passato e sul nostro presente, ché “questa cosa del macho è sopravvalutata” e i sentimenti buoni di necessità e per virtù.”

Federico Pontiggia da cinematografo.it

 

Giulio Martini

(domenica pomeriggio)

Il vegliardo Clint racconta un fiaba western,con autoironia e mettendo a dura prova l'incredulità, sempre sospesa per altro al cinema, dei suoi estimatori.

Ancora una volta ha una missione da compiere, ancora una volta la coscienza la vince sulla legge specie se c'è da aiutare/istruire un giovane.

La morale  pseudo - carducciana è :" La mia favola -non breve - è quasi finita, il solo immortale è l'Amor".

Coraggioso cmq e per questo da non disprezzare.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera

Domina il desiderio di redenzione in "Cry Macho". E l'utopia sembra realizzarsi in Messico nella "Casa di Marta" dove il cavaliere pallido sembra mettere fine ai suoi struggimenti. L'ennesima variazione sui temi cari a Clint Eastwood scivola però sulla sceneggiatura: questa volta il fido Nick Schenk costruisce un trattamento che spesso lascia perplessi per le semplificazioni e le ripetute incongruenze.

 

 

 

 

Carlo Caspani

(mercoledì sera)

Le forze oscure dell'informatica, del digitale e dell'elettricità congiurano contro i malcaspitati amici del Bazin che mercoledì scorso hanno dovuto rinunciare alla proiezione per mancanza di sonoro: ci fosse stato almeno un pianista come ai bei tempi...

Parlando del film, un nuovo tassello del percorso "all'inverso" di Eastwood regista e attore, che sembra rivisitare i luoghi e i personaggi del suo cinema adattandoli alla saggezza e alla senectus contro cui non puoi combattere (classe 1930...) Una vicenda di recupero della figura paterna, un viaggio salvifico con sirena travestita da ostessa messicana, qualche concessione poco credibile alla passione per le donne del nostro stagionato Ganimede (voglio il nome del suo andrologo...), alla fine una favoletta feel-good che si conclude come tutti vorremmo in questo periodo prossimo alle feste. Continuiamo a preferire altri suoi film, ma siamo disposti ad accontentarci: la mano dietro alla macchina da presa è comunque ancora salda, onore quindi al merito e alla passione per il cinema dell'ex sindaco di Carmel.

 

 

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Il vecchio Clint ci consegna un’opera nella quale dichiara che “questa storia del macho è sopravvalutata”: dopo essere stato simbolo di virilità per una sessantina d’anni, da Rawhide e dagli western di Leone all’ispettore Callaghan e così via, già con “Gli spietati” trenta (sic!) anni fa aveva demolito il genere e il personaggio che l’avevano reso celebre. Adesso va ancora più avanti e, superati i novanta, mette in scena un anziano cowboy che ha la stessa grinta e ironia di sempre, mescolate però con la consapevolezza della propria fragilità e del fatto che non si hanno tutte le risposte che da giovani si pensa di avere. Un piccolo film di una sincerità commovente, tutto centrato su di lui, il quale costituisce idealmente l’ultima lezione di un grande maestro di cinema e di umanità. Purtroppo è un po’ più sbrigativo e stereotipato di altre opere precedenti, ma merita ancora abbondantemente il prezzo del biglietto, soprattutto per i molti che in tutto questo tempo gli si sono davvero affezionati

Marco Massara

(jolly)

Colto dalla “sindrome di Allen” che fa realizzare un film dopo l’altro e forse anche dalla consapevolezza dell’ “essere in riserva”. Clint Eastwood ci regala il suo ultimo (?) film, traboccante dei propri stilemi e delle sue fortissime rettitudini morali.

La qualità però stavolta non va oltre quella del compitino ben fatto e non riesce ad accendere nello spettatore la partecipazione di suoi altri film di decisamente maggior spessore. In ogni caso onore al merito del decano dei registi e alle sue 92 primavere!