Titolo

Licorice pizza

 

da domenica 20  a  venerdì 25 novembre 2022

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LICORICE  PIZZA

REGIA DI PAUL THOMAS ANDERSON

 

 

LA CRITICA

 

Licorice Pizza rappresenta un cambiamento deciso. L’emozione si trasforma in un abbraccio caldo, una necessità che si insegue nel corso degli anni. Si parte dal significato del titolo. Negli anni Settanta la Licorice Pizza era una famosa catena di negozi di dischi della California del Sud. E ad Anderson ricorda l’infanzia, i tempi più spensierati, in cui bastava un disco per strappare un sorriso. Dunque la musica è un elemento centrale del film: But You’re Mine di Sonny & Cher, Peace Frog dei Doors, Let Me Roll It di Paul McCartney e l’immancabile Life on Mars? di David Bowie, già protagonista del bellissimo trailer. “C’è vita su Marte?”, si chiedeva Bowie nel 1971. Marte per Anderson è l’America della provincia, quella in cui gli adolescenti muovono i primi passi, e vogliono sentirsi eroi. Marte è la San Fernando Valley del 1973, subito fuori dalla Città degli Angeli. Case tutte uguali, villette che si perdono all’orizzonte.  (…) Anderson realizza il suo lavoro più accorato, ottimista, sentimentale. Non serve una pioggia di rane per ripulire la società dai propri errori (Magnolia), qui bisogna guardarsi negli occhi. È quello che fanno Gary Valentine e Alane Kane al liceo. Lui quindicenne, lei che ne ha venticinque. Lui ancora a scuola, lei che fa l’assistente del fotografo. Il loro primo incontro è uno scontro, che la macchina da presa accompagna con un lungo piano sequenza. Non a caso i due all’inizio camminano in direzioni diverse. Già nei primi minuti Anderson delinea la personalità dei suoi protagonisti, sembra ragionare sull’impossibilità di un rapporto, su una solitudine perenne a cui si è sempre costretti. Ma come il regista ci ha insegnato in sala: la persona giusta nella vita arriva una volta sola. (…) È per questo che in Licorice Pizza si corre, e anche molto. Perché l’amore è movimento, sofferenza, disperata felicità. Alane corre dietro alla volante della polizia dopo che Gary è stato arrestato. E insieme corrono tenendosi la mano per la libertà ritrovata. Gary corre verso Alane stesa a terra, quando cade dalla moto guidata da Sean Penn. Entrambi si vanno incontro, cercandosi, bramandosi, in una sera in cui tutto deve finalmente essere chiarito. Il cineasta invita a non rimanere statici, a non aver paura di osare, di difendere i propri affetti. Soprattutto durante la pandemia e la crisi del cinema. (…) È per questo che in Licorice Pizza si ride, si piange, senza mai rinunciare alla vita. Non è più tempo di ragionare sul passato. (…) Anderson in Licorice Pizza rifiuta l’illusione, rifiuta le etichette. La realtà deve essere speranza. Non si può parlare di coming of age, teen movie. Anderson punta all’universalità della vicenda, al dolce ammonimento. Non è un racconto di formazione, non è una storia romantica. È una riflessione sulle esperienze, sulle occasioni perdute e (forse) raggiunte nuovamente, è il malinconico affresco di un rimpianto che può distruggere l’esistenza. Il futuro brilla in Licorice Pizza, nonostante le bizzarrie che si sviluppano sotto le luci dei riflettori. La magia è nell’imperfezione, suggerisce Anderson, bisogna saperla cogliere. Impressionante la prova dei due protagonisti: l’esordiente, ma già cantante affermata negli States, Alana Haim, e Cooper Hoffman, il figlio di Philip Seymour Hoffman. Raggiungerà le vette del padre? È presto per dirlo, ma di sicuro Licorice Pizza si candida per essere il film dell’anno, anche se il 2022 è appena iniziato.”

Gian Luca Pisacane da cinematografo.it

 

 

 

Marco Massara

(domenica pomeriggio)

“Made in American for Americans (only)”.

Salto all’indietro nel tempo, senza avvitamenti nostalgici, per arrivare ai tempi di “American graffiti (George Lucas 1975)” con qualche traccia di “Gioventù bruciata (Nicholas Ray 1954)”, immergendo lo spettatore nel filone del cinema giovanilista. Se sono apprezzabili gli accenni ai primi turbamenti sessuali, con relative gelosie e innocue vendette, il resto scorre un po’ troppo fluidamente dal punto di vista drammaturgico e con un ritmo troppo monocorde, con l’americanata in agguato. Quando Alana, nella scena in sottofinale, scopre il lato sporco del mondo non ha altra soluzione che correre da Gary, giocare ancora una volta a nascondino con i propri sentimenti, e riprendere a correre.

 

 

Angelo Sabbadini

(lunedì sera)

L’inizio è folgorante! Una serie di piani sequenza descrivono magistralmente luogo e protagonisti. Per gli spettatori del Bazin è una manna che li dispone al meglio alla visione. Poi Paul Thomas Anderson comincia a far deragliare la narrazione che diventa episodica e l’afflato emotivo con il pubblico lentamente svanisce. Alla fine fioccano i complimenti per la maestria dell’artefice ma l’operazione nel suo complesso lascia perplessi gli astanti.

 

 

 

Carlo Caspani

(mercoledì sera)

 

Stavolta Anderson rischia il giallo, con un film anni celebrativo degli anni 70 e una storia d'amore che tale non vorrebbe essere, a partire dal divario anagrafico dei protagonisti. Man mano che la vicenda si dipana, portando lo spettatore tra letti ad acqua, crisi petrolifera, la solita famiglia ebrea oppressiva e un mondo affidato a bambini e adolescenti manager, il gioco di PTA si rivela essere una scommessa citazionista per cinefili, omaggio a un'epoca dipinta come irripetibile (ma gli sbirri sono sempre violenti e ottusi, ora come allora), e zeppa di richiami a personaggi e pellicole della Hollywood classica ed emergente. Chi, per motivi anagrafici, quell'epoca l'ha vissuta in diretta fa fatica ad adeguarsi. Il pubblico meno anziano, scusate, maturo, pare vada in brodo di giuggiole. Paul, puoi fare di meglio. Attori comunque notevoli: Cooper Hoffman è davvero figlio di tanto padre (Philip Seyomur), Alana Haim, donna ragazzina, si dimostra dotata di attributi: provate voi a guidare un camion in folle all'indietro in discesa al buio sulle colline di L.A. ...

Giorgio Brambilla

(venerdì sera)

Paul Thomas Anderson ci trascina in un film che non si ferma mai: inizia con l’esplosione in un bagno seguito da contrapposti movimenti di macchina a seguire l’incontro dei due protagonisti, mostra tante corse e si conclude, dopo l’ultima nella quale finalmente decidono di manifestare pienamente il reciproco amore, con i due che se ne vanno tranquillamente insieme al crepuscolo. Un film irrequieto come Gary, apprendista capitalista che insegue i suoi sogni infantili di facili guadagni, e Alana, che più che altro sembra voler fuggire dalla sua famiglia ebrea, nella quale si identifica ma non trova pace. Si piacciono, si provocano, si allontanano per riunirsi nel finale, in un’opera frammentata e ondivaga come le loro vite, ma girata in perfetto stile Anderson, con una cura nelle inquadrature e nei movimenti di macchina che attirano l’attenzione dello spettatore quanto la storia raccontata, almeno alla seconda visione. Un ritratto tenero e spietato di una coppia contraddittoria come l’America sul cui sfondo si muove, prima potenza mondiale nella quale non si riesce a far benzina, dove l’importante sembra essere spararla il più grossa possibile, popolata da una galleria impagabile di cialtroni che alludono a persone realmente esistite. Un sublime caleidoscopio di amore e follia                                             

Guglielmina Morelli

(Jolly)

Paul Anderson è un gran regista e così la critica, con arrampicate sugli specchi più o meno efficaci, ha provato a dimostrare che questo è un gran film. Leggiamo sul libretto di accompagnamento al nostro cineforum lodi sperticate, condite con bizzarre valutazioni tipo “boccata d’aria rigenerante”, il film si libra “nello spazio rarefatto e inesorabile dell’interiorità”, ha in sé “qualcosa di monumentale” (eppure lo sappiamo: tanto più le parole sono ridondanti tanto meno sono portatrici di senso): tanta meraviglia avrebbe dovuto metterci sull’avviso (ingenui noi!). Solo in un commento occhieggiano tra le righe aggettivi che, timidamente, mettono in dubbio l’efficacia della struttura narrativa, la validità della storia e l’autenticità dei personaggi, dell’intero film, insomma (che risulterebbe dunque destrutturato, sfilacciato, sfaldato tanto da lasciare lo spettatore perplesso, disorientato, annoiato). Ecco qui l’essenza vera di questo chilometrico lavoro: un pasticcio incomprensibile, costruito su una storia senza capo né coda, con personaggi improbabili, corredata da qualche “cameo” del cinema del passato appiccicato alla vicenda, lunghissimo e noiosissimo. Un film da dimenticare: in fondo anche Omero, talvolta, fa un sonnellino e qui Anderson si è fatto una bella dormita