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Cafarnao

 

da domenica 27   a  mercoledì 30  ottobre 2019

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CAFARNAO

regia di Nadine Labaki

 

 

 

Cafarnaoè ambientato a Beirut, nel Libano casa della regista, in un quartiere molto povero della città dove sopravvivere è la parola d’ordine giornaliera insieme a combattere per un futuro migliore. È la storia di Zain, 12 anni, che un bel giorno decide di ribellarsi al sistema e denuncia i suoi stessi genitori per averlo messo al mondo. È un film difficile da capire, estremo, duro, lineare e potentissimo. Lascia profondamente il segno su chi lo guarda, focalizzando l’attenzione su un unico, magnifico aspetto: la voglia (e in questo caso necessità) di vivere.

 

 

 

 

 

Roberta Braccio

Domenica pomeriggio

 

 

Sono tanti i temi in questo film, tenuti insieme da due ingredienti: tanto cuore e tanta empatia. Per questo, gli si può perdonare a tratti un eccessiva ridondanza e qualche ricatto emotivo. Se si ha qualcosa da dire per provare a cambiare il mondo, e se si sa usare bene un’arma, è giusto provarci con tutti i mezzi: è quello che fa la Labaki, che insinua una denuncia sociale in una storia che sembra privata. Facile scandalizzarsi davanti all’incapacità genitoriale, facile applaudire la denuncia del bambino “cosa mi resterà di voi? Le botte, gli insulti?”. La verità è che al protagonista restano, dai genitori, le stesse armi di sopravvivenza; solo che in quanto bambino, le nuove ferite fanno più male. Diciamolo, con pochi mezzi  e tanto amore, non è che al piccolo Johna vada molto meglio e l’happy ending finale (così scomodo a chi cerca più la realtà della fiction) è un miracolo che nasce dal cuore per invogliare un cambio sociale. Resta purtroppo un miracolo, in cui sperare e per cui lottare. In sala, la domenica pomeriggio, questo film ha mosso tanti commenti e tante riflessioni di spessore: un film che fa venire voglia di dire la propria idea è già davvero moltissimo

 

 

 

 

Giulio Martini

Domenica sera

 

 

 

lucido ed appassionato invito alla propria Madre/Patria a compiere un coraggioso  esame della propria miseranda condizione spirituale,culturale e politica in cui si trova.

L'aveva fatto con toni ironici nei film precedenti,qui invece sfida il documentarismo televisivo con uno stile narrativo equilibrato,per nulla melodrammatico.

Il Libano era un'oasi paradisiaca nel Medio Oriente,oggi è sempre più un'infernale catastrofe umanitaria.

Di chi la colpa ?

La Regista non fa considerazioni ideologiche,etniche o religiose.

Ci mostra solo protagonisti innamorati della vita anche se inorriditi dalle infinite cattiverie di chi sta attorno.

E senza i toni metafisici di Pasolini o la commiserazione solidale di De Sica/Zavattini pone comunque domande potenti,attraverso i bambini,qui interpreti meravigliosi, a chi  - generandoli - li getta in luoghi e situazioni apocalittiche che loro stessi da adulti non sanno né capire né gestire. Il sogno "arcobaleno " del Libano è finito ?

 

 

 

 

 

Giorgio Brambilla

 

Lunedì sera

 

 

 

 

Nadine Labaki stavolta rinuncia totalmente ai toni della commedia e, anche se era preferibile il precedente “E ora dove andiamo?”, che sapeva far pensare ma insieme sorridere, anche quest’ultima opera è decisamente interessante. Si intuisce il gran lavoro necessario per rubare momenti così intensi agli attori bambini e all’intero cast di non professionisti. Inoltre il film ci sbatte letteralmente in faccia, attraverso la camera a mano, una lunga teoria di problemi molto concreti, come ad es. la mancanza di documenti, l’indifferenza che circonda la coppia di “fratellini” con surreale passeggino, il giovane protagonista che spaccia o deruba i bimbi più piccoli, ma non giudica con troppa facilità nessuno, neanche i terribili genitori di Zain o il patetico marito/vedovo della sorellina. La trovata del processo è poi molto intelligente, come altre da intendere in senso simbolico, non realistico. Si può qui applicare, mutatis mutandis, la tesi di Benedetto Croce, che affiancava alla poesia, opera di verità, la letteratura, opera di civiltà; direi che non è poco

 

 

 

Angelo Sabbadini

Martedì sera

 

 

Beirut come non mai: la baraccopoli di Cola, la prigione di Roumieh, il souk Al Ahad e le tristi illusioni del Beirut Luna Park sono le tappe dolenti di una visita guidata nel caos. È un cinema immersivo quello della Labaki che ci fa sentire sulla pelle il respiro dei suoi bambini resilienti e il tradimento delle loro famiglie angustiate. L’affresco è forte e sincopato dai tempi della macchina da presa. Da un punto di vista cinematografico non tutto funziona ma il film riesce a far arrivare in platea una bella sassata che non lascia insensibili gli spettatori del Bazin..

 

 

 

 

Guglielmina Morelli

Mercoledì pomeriggio

Al netto di alcune ovvietà relative al senso di mostrare al cinema “bambini poveri” (è bene perché ci aiuta a prendere coscienza, è male perché suscita commozione con mezzucci triviali) e di alcune evidenti considerazioni, non banali, sullo sfruttamento dell’infanzia e sul traffico di esseri umani, credo che il film possa riservare molti percorsi. Fermarsi solo alla lettura più evidente dell’immagine (le baraccopoli riprese col drone, vecchi sciroccati e male in arnese, bambini usi a giocare alla guerra come piccoli miliziani di una qualunque delle fazioni che controllano il Libano) non ci porta là dove il film davvero si dirige: Zain appartiene a quella genia (cinematografica ma non solo) di piccoli intellettuali che, meglio degli adulti, hanno colto il più autentico senso dell’esperienza umana. Nonostante la povertà, le botte, i furterelli, sa che la vita deve essere responsabilità, verso se stessi (il desiderio di studiare, di essere un uomo buono, amato e rispettato) e verso gli altri. La straordinaria attitudine ad una genitorialità affettuosa e attenta di Zain (che si combina con quella di Rahil, altra emarginata “senza identità”) è il contraltare alla squallida indifferenza dei veri genitori, che egli giustamente incolpa non tanto della condizione di povertà in cui vive ma del disinteresse e della violenza con cui sono stati allevati lui e l’adorata sorella, venduta come sposa bambina (per cui ha persino immaginato una meravigliosa festa nuziale). Chi è responsabile sente il peso e l’angoscia dell’impegno preso, Zain “vende” il piccolo quando, incapace di comprendere ciò che è accaduto a Rahil, capisce che non può più nutrirlo e, nonostante la sua dichiarata astuzia, si fida dell’adulto sbagliato. Il finale – senza la parola fine - è però il bel sorriso di questo ragazzino finalmente riconosciuto come esistente attraverso un “documento”: una carta d’identità. Vogliamo immaginare che la sua vera vita inizia ora, protetto da una bella avvocatessa, la regista stessa che si ritaglia una particina da adulta “buona” in un mondo di “cattivi”!

 

 

 

 

Carlo Caspani

Mercoledì sera

 

 

Docufilm che mira al cuore e al portafogli dello spettatore, passando per lo stomaco, o sincera narrazione partecipe di una situazione estrema ma reale?

Siamo per la seconda ipotesi, pur riconoscendo qualche tono troppo didascalico nella parte finale: ma la materna Labaki (qundo latte, quante madri vere o surrogate, compreso lo straordinario protagonista didicenne...) ha davvero a cuore i suoi personaggi, per i quali il lieto fine della vicenda è dovuta ricompensa a una vicenda che tocca nel profondo e non lascia nessuno indifferente.