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marco massara

domenica pomeriggio

“Carnage” in salsa mediorientale.  Un banale screzio (in realtà nella cultura del posto ‘cane’ è molto più offensivo che da noi) scatena un crescendo di tensioni che agisce come una scintilla nel lago di benzina formatosi  dopo  una guerra civile e di religione mai completamente pacificata. Avesse avuto un po’ meno le forme del ‘legal movie’ il film sarebbe quasi perfetto, comunque è decisamente da apprezzare. Piccolo ragionamento finale: ‘Insulto’ è molto simile ad ‘impulso’: è un invito a pensare all’offesa che possiamo dare all’altro con una parola detta senza passare per il cervello il tempo necessario.

giulio martini

domenica sera

  la dialettica processuale,che struttura  da sempre il Genere giudiziario, qui si  moltiplica per tre, coinvolgendo le discussioni anche tra mariti e mogli, tra clienti ed avvocati, ma questo rende a dovere l'intrico  che  si vive  oggi in  Libano, ex  terra di pace  e di integrazione  oggi summa ed antologia tragica  delle divisioni e delle diversità insanabili  del Medio-Oriente. Il ritmo è ottimo, la recitazione notevole, la Beirut macilenta e spettrale senza sconti di sorta.  Se c'è qualche furbizia nella sceneggiatura ( i Giudici  sembrano ignoranti di fronte alla stage proiettata  sullo schermo, il finale è molto buonista ed improbabile...) l'insieme  scuote  e  convince. Se nel film della Labaki  il simbolo/guida era il cimitero, qui è la gestazione e la nascita: ma il tema di fondo è lo stesso.

angelo sabbadini

martedì sera

Espletate le formalità dell’anteprima, il Bazin fa subito sul serio e precipita gli spettatori nel conflittuale crogiolo di Beirut. Una potente immersione nel cinema di Ziad Doueiri con la sua indiscutibile sapienza cinematografica e la sua incontenibile sovrabbondanza narrativa. Bello dopo il pasticcino di Branagh essere coinvolti nelle urgenze del cinema libanese ! E i visionari del Bazin ci stanno e tra dubbi e qualche perlessità sull'epilogo, non rimangono certo insensibili davanti al sapientissimo lavoro della macchina da presa sui visi e sui corpi degli straordinari attori.

carlo caspani

mercoledì sera

Ziad Doueiri, cineasta di scuola americana ma di evidente cuore libanese, aggiunge un tassello importante al ritratto cinematografico della situazione mediorientale. A qualche critico il tono narativo, la musica e il  taglio da "legal thriller" di tutta la seconda parte  sono parsi fuori luogo, eccessivi; ma l'urgenza dei problemi, la passione verso il proprio paese e l'occhio accorato verso la sua storia, soprattutto quella recente e sanguinosa, superano ogni riserva tecnica e stilistica. E ancora una volta, come nota il pubblico attento, le figure femminili e materne hanno un ruolo di mediazione e comprensione, ma anche di rivolta contro lo status quo di una società troppo "orgogliosa, maschia e virile", come si diceva un tempo

rolando longbardi

giovedì sera
 

Del film di Doueiri si è detto molto e anche bene.
Quello che a mio avviso emerge è la volontà da parte del regista di non "insultare" nessuno attraverso una obiettività delle posizioni in gioco che non vuole e non può fare trasparire un vincitore. 
Il verdetto salomonico così come la legge del taglione che regola il film ha la funzione di non addormentare le parti ma, al contrario di tenere vispe le coscienze, il tutto accompagnato da una tecnica visiva data da un movimento di macchina rapido e attento al primo piano.
Ottima l'interpretazione dei protagonisti.

giorgio brambilla

venerdì

sera

Doueiri sceglie di mostrare quanto sia difficile costruire la pace con un nemico che ci ha offeso, perché bisogna avere la capacità di entrare in empatia con l’altro e vedere anche lui come vittima, attraverso la forma del legal drama. Questo gli consente di sviscerare le proprie argomentazioni in modo un po’ didascalico, forse, ma certamente chiaro e incisivo. Allora questa storia di finzione ambientata in Libano diviene simbolo di mille conflitti, potremmo dire addirittura del conflitto in quanto tale, individuale o collettivo che sia. Ci fa pure comprendere che per riuscire a far pace con l’altro bisogna, prima di tutto, farla con se stessi, affrontando le proprie ferite e accettando la propria fragilità. Bisogna che si incontrino due uomini, “nudi” uno davanti all’altro, magari che si prendano pure a pugni, se non ce la fanno a fare di meglio, ma senza tutte le sovrastrutture che la comunicazione massmediatica interpone tra gli individui. La sceneggiatura ci fa capire cosa ci sia davvero in gioco in modo graduale, toccandoci nei sentimenti, ma lasciandoci sempre la lucidità per riflettere e decidere non a partire da pregiudizi, ma dalla verità che si impone a tutti, dentro e fuori lo schermo