Titolo

il prigioniero coreano

 

da domenica  1  a  venerdì 5 aprile 2019

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IL PRIGIONIERO COREANO

regia di Kim Ki Duk

 

 

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: “Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. (…) Si può essere certi che al Nord non lo vedranno mai ma di sicuro anche al Sud non avrà vita facile. Perché il regista ha la consapevolezza di proporre una lettura decisamente scomoda per entrambe le parti in causa. Il povero pescatore, colpevole solo di non aver voluto perdere, salvandosi a nuoto, la propria barca raggiunge quello che per la propaganda del duro regime di Kim Jong il è l'inferno capitalistico dinanzi al quale bisogna chiudere gli occhi per non correre il rischio di esserne tentati. Nam Chul-woo crede nel regime e i funzionari sudcoreani, seppur divisi sul da farsi, non fanno molto per confutare le sue credenze. C'è chi è dotato di un'arroganza di segno uguale e contrario a quella dei potenti del Nord e non mancano anche segni deteriori della società (…) che inducono quest'uomo semplice a chiedersi in cosa consista la democrazia.

(Emanuele Sacchi da mymovies.it)

 

“Trattando nuovamente il contrasto tra le due Coree (già presente in The Coast Guard del 2002), Kim Ki-duk torna a quel cinema politico che aveva segnato i suoi esordi, puntando su una messinscena grezza e su una narrazione che non ammette l’utilizzo della retorica. Esplicito nel messaggio che vuole veicolare (forse anche troppo), l’autore sudcoreano riflette su differenze e similitudini tra le due nazioni (gli interrogatori sono praticamente gli stessi), mostrando il lato più oscuro di entrambe e non risparmiando critiche (anche) al proprio Paese d’origine. Gli spunti non sono banali (…) ma diversi sono i limiti da attribuire a una parte centrale troppo prolissa e ridondante. Resta comunque lo spessore di un’analisi sociale quasi sempre incisiva, soprattutto per quanto riguarda l’insistenza del protagonista nel non voler aprire gli occhi di fronte a un mondo che gli hanno insegnato a non poter guardare.”

(Andrea Chimento, da cineforum.it)

 

 

 

 

 

Giulio Martini

Domenica pomeriggio

 

 

Sempre con emozioni "sul confine"  anche questo film del focoso Kim Ki Duk e' un virulento dibattito  narrativo su che cosa sia giusto e sia meglio tra situazioni socio-politiche contrapposte.

La risposta non arriva ,il  racconto ha qualche passaggio schematico, ma          l 'irruenza dell 'esposizione rende l'insieme  interessate, coraggioso ed originale, cioe' degno del piu' lucido schizofrenico dell 'odierno cinema globalizzato ,in un denso mix di umori  orientali e stilemi occidentali.

 

 

 

 

Giulio Martini

Domenica sera

 

 

 

 

 

 

 

Angelo Sabbadini

Martedì sera

 

 

Kim Ki Duk torna al Bazin dopo un lungo oblio con un film scabro che ci mostra in fulminante giustapposizione le laceranti contraddizioni dei due regimi coreani. Girato in interni claustrofobici il film funziona perfettamente e alla fine la tragica conclusione della vicenda non lascia insensibile gli spettatori in sala. Prosciugato dei suoi orpelli il cinema del geniale Kim sembra acquistare una nuova valenza narrativa e ci fa conoscere il versante politico del maestro coreano.

 

 

 

 

Carlo Caspani

Mercoledì sera

 

 

Prosegue a fasi alterne la sofferta produzione del coreano Kim Ki Duk. Coreano, né nord né sud, come dimostra in modo chiaro la vicenda di questo "The net", da noi "Il prigioniero coreano". La rete del titolo internazionale sottintende non solo la causa di uno sconfinamento anche simbolico del pescatore protagonista da Nord a Sud Corea (mondi fratelli ma socialmente opposti), ma il viluppo di ragioni, violenze, vincoli ideologici che lo fanno due volte prigioniero e vittima fino al finale, come il resto del film apparentemente neorealistico, in realtà pieno di rimandi alle culture coreana e occidentale tra le quali l'autore sembra restare lacerato. Film discontinuo nel ritmo, forse troppo didascalico nella parte centrale, ma comunque forte e interessante

 

 

Rolando Longobardi

 

Giovedì  sera

 

 

Siamo al ritorno agli esordi del cinema politico di Kim Ki Duk, dove il linguaggio diventa diretto e lascia poco spazio all'immaginazione.

La poetica e la dimensione antropologica che veniva espressa sia in Ferro 3 (per citarne solo uno dei tanti film a vocazione poetica del coreano) sono lontani anni luce.

Sicuramente più espressivo ed irritante, ma lontano anche da quella dimensione autoriale che così bene ha caratterizzato la sua produzione.

Un film duro, ma che duro vuole essere.

 

 

 

 

 

Giorgio Brambilla

 

Venerdì sera

 

 

 

 

Kim Ki-duk racconta il dramma della sua terra a settant’anni dalla divisione che l’ha ferita, dal punto di vista di un nord coreano vittima indifesa delle paranoie dei difensori dello Stato prima a sud, poi a casa propria. L’immagine del Nord è peggiore, come si vede esemplarmente dal fatto che i “suoi” lo trattano esattamente come avevano fatto i “nemici”, con una serie di ricorrenze spinte fino al didascalismo, e addirittura lo uccidono; tuttavia il regista insiste maggiormente sulle contraddizioni del Sud, forse perché la situazione avvolge ciascuno - come la rete del titolo originale, che ha distrutto l’elica e la vita del protagonista -, e Kim vuole più che altro denunciare le piaghe della propria società, dalla quale si aspetta un autentico rispetto per i diritti delle persone. Una certa fiducia sembra riporla nei più giovani: prima di tutto la guardia del corpo di Chul-woo al Sud, Jin-woo, e poi la figlia che, al termine del film, rivolge alla macchina da presa un sorriso (per la verità un po’ inquietante, dato che il padre è appena stato ucciso), forse simbolo di un popolo che, non avendo vissuto gli anni della guerra civile, può guardare al futuro con speranza; peccato che questa appaia più fondata su un desiderio che su quanto visto fino a quel momento