Se solo fossi un orso
da domenica 27 a venerdì 1 novembre 2024
Se solo fossi un orso
regia di Zoljargal Purevdash
La yurta è la tradizionale abitazione della popolazione nomade della Mongolia. Nelle rare opere a sfondo etnografico che giungono sui nostri schermi siamo stati abituati a conoscerla come luogo quasi simbolico in cui si conserva e perpetua la tradizione. In questo film, girato nella capitale, questa caratteristica abitazione diventa segno di un inurbamento privo di qualsiasi pianificazione sociale destinato a creare solo disagio. (…) Uzii frequenta una scuola in cui la divisa è impeccabile e in cui apparentemente si è tutti uguali. Anzi, si può essere così diversi al punto da eccellere in una materia grazie anche, se ne osservi il comportamento, ad un insegnante che ama la propria materia e crede nella possibile emancipazione attraverso di essa. (…) Lo sguardo in macchina che Uzii riserva allo spettatore a un certo punto del film interroga i responsabili politici della Mongolia ma, fatte le dovute proporzioni e considerate le differenze, va oltre i confini nazionali per estendersi a tutte le società in cui di fatto gli ostacoli frapposti a chi avrebbe le carte in regola per emergere non sono trascurabili.”
Giancarlo Zappoli, da mymovies.it
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Cento domeniche
da domenica 19 a venerdì 25 ottobre 2024
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Cento domeniche
regia di A.Albanese
“E’ proprio di fiducia che Cento domeniche parla: quella con cui Antonio mette in mano il suo futuro a persone che dovrebbero tutelare i suoi interessi, e non solo i propri. Perché le brave persone come lui appartengono ad un mondo antico in cui la solidarietà e l'aiuto reciproco erano moneta corrente, e la parola data era oro. Nella prima parte del film quel mondo sembra ancora vivo: compagni della bocciofila, colleghi affettuosi, persino un datore di lavoro bonario che gli lascia in gestione un orto e un pollaio (dopo però averlo prepensionato per suo comodo). Ma a poco a poco quel mondo viene sostituito da personaggi che sembrano gli alieni di L’invasione degli ultracorpi rotelle dell'ingranaggio più o meno consapevoli. Un ingranaggio che stritola gli indifesi - i pensionati, i giovani, le donne - lasciando "viaggiare" solo i pochi potenti. Albanese come sempre è magistrale nell'incarnare l'uomo comune, quello che ci rimette perché è in buona fede, che mostra empatia e attenzione (spesso non reciprocata) verso gli altri. Nella prima parte i dialoghi sono eccezionalmente precisi e credibili, mentre diventano più forzati nella seconda parte, forse perché lì Albanese deve raccontare persone molto lontane da lui, e moralmente incomprensibili. Ma i suoi incontri con la madre, interpretata da una monumentale Giulia Lazzarini, sono pieni di verità e infine di strazio. (…) Dal punto di vista della regia Cento domeniche (quelle in cui Antonio ha lavorato per tutta la vita) è convenzionale, quasi scolastico nelle transizioni fra una scena e l'altra, ma ha anche intuizioni bellissime e in qualche modo visionarie: la silhouette della madre di Antonio dietro la porta a vetri, la bambina che gioca a nascondino e gli fa segno di tacere. Al prossimo film speriamo che dia più ascolto a quelle intuizioni e si preoccupi di meno che tutto torni.”
Paola Casella, da mymovies.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Un film onesto, nonostante qualche scricchiolio - in termini di verisimilianza - della situazione, dove un asciutto Albabese affronta un tema quasi tabu' per il cinema : la finanza ( il termine deriva da...fiducia !) per dirci del ruolo essenziale della con - fidenza e della reciproca af-fidabilità nei rapporti quotidiani, che hanno i loro momenti cruciali nel matrimonio ( scambio delle fedi ) o nel consegnare tutti i propri averi al qualcuno. Effetto "familiarità" sugli spettatori lombardi,ormai rassegnati a continui ritratti deprimenti al cinema del loro rapporto tormentato con i dane'.
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Angelo Sabbadini (Lunedì sera) |
Coraggioso l’uomo d’acqua dolce! Affronta di petto un tema da cui il cinema italiano si è tenuto accuratamente alla larga: il default delle banche. E lo analizza in modo informato grazie alla collaborazione di due figure centrali: il giornalista Marino Smiderle che ha scandagliato il fenomeno e la psicologa Emilia Augelli che ha aiutato i risparmiatori truffati. Questo basta a fare di Cento Domeniche un film riuscito? No di certo perché poi c’è il cinema con le sue leggi inesorabili. E qui i visionari del Bazin sono unanimi nel sottolineare come la seconda parte del film sia troppo frettolosa e lavori troppo poco sul dramma di Antonio. Un difetto di sceneggiatura e di regia che limita le ambizioni della quinta regia di Antonio Albanese. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Certo, il focus del film è sui colpevoli fallimenti bancari che hanno rovinato piccoli risparmiatori. Ma anche su un lavoratore orgoglioso di essere un ottimo operaio, uno che fa bene il suo mestiere. Un boomer, come si dice con una punta di disprezzo, che sembra vivere in un passato di tradizioni, abitudini e mentalità. Non si accorge che è fuori tempo, che il lavoro è cambiato, la sua abilità è inutile e la sua fiducia negli altri pericolosa. Il film procede con la lentezza della vita, del succedersi delle generazioni: sono i mutamenti (in peggio, direi) della società a sconvolgere e annientare il protagonista. Forse solo per questo (e per una mostruosa Giulia Lazzarini) darei un bel verde.
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Giorgio Brambilla (Venerdì sera)
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Antonio Albanese ci racconta la storia di un uomo con una vita dignitosa che viene improvvisamente devastata da un investimento suggeritogli dalla sua banca, della quale si fida completamente. Così perde quasi tutto il suo denaro, e realizza pure di essere stato tradito in molti modi, dalla banca, dal suo capo e dall’amante. I compagni di bocce vanno per aiutarlo, ma anche a rimproverarlo per la sua ingenuità; sembra di vedere la scena di Giobbe con i suoi teorici amici venuti a consolarlo. Anche la psicoterapia non è in grado di sostenerlo davvero, poiché ovviamente non può aiutarlo materialmente. Rischiando di diventare un peso per l’amatissima figlia, preferisce farla finita. Una tragedia che tanti hanno vissuto nel nostro paese, e che ci viene illustrata attraverso la storia esemplarmente tragica di un uomo per bene raggirato e distrutto da un sistema che tutela sempre chi di protezione ha meno bisogno. Il regista abbandona completamente lo stile comico che lo ha reso famoso, risultando comunque adeguato nella sua semplicità, creando un’opera moralmente specchiata, come il protagonista al quale presta il proprio corpo
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Marco Massara (jolly) |
Il cinema italiano frequenta poco i filoni della finanza e dei drammi aziendali. Eccezione significativa è l’ottimo ed inconsueto (anche per il regista) “Il capitale umano” di Paolo Virzì che ispira un po’ “Cento domeniche”, anche se con finali profondamente diversi. Se il lessico lombardo mette lo spettatore a suo agio, la discesa all’inferno finanziario del protagonista non può non trasmettergli un retrogusto sicuramente angosciante. Il film sviluppa anche un interessante secondo livello di lettura: quello del confronto generazionale tra quella delle “Cento domeniche “ di straordinari per finanziare il matrimonio della figlia e quella cavallo tra spigliatezza, cinismo e ‘pelo sullo stomaco’ dei giorni nostri. Qualche incertezza di sceneggiatura nella fase iniziale ed il personaggio dell’amante abbandonato in maniera troppo rapida e superficiale sono peccati veniali di un film che fa riflettere.
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Viaggio in Giappone
da domenica 6 a venerdì 11 ottobre 2024
Viaggio in Giappone
regia di E.Girard
“La casa di Sidonie, scrittrice francese, è vuota da quando il marito è morto tragicamente in un incidente. La donna la lascia quindi temporaneamente, cogliendo l’occasione di un viaggio in Giappone per degli impegni promozionali con l’editore che sta curando una riedizione del suo primo romanzo. All’arrivo, quest’ultimo la attende in prima persona, per accompagnarla in un’esplorazione in varie tappe attraverso le meraviglie del paesaggio nipponico. Nella terza regia di Élise Girard c’è una classica associazione tra un viaggio letterale e uno interiore, che mescola dolore e ricordo con lo stupore inconsueto della negoziazione con un luogo che non ci appartiene. (…) In transito per i luoghi magici del paese, da una città all’altra, Sidonie va anche alla scoperta di Kenzo Mizoguchi, uomo profondo ed enigmatico che in un francese un po’ ruvido la aiuta a rimettere in sesto la sua prospettiva esistenziale. Nelle mani di Girard c’è una materia narrativa esilissima, perfino ovvia, ma è una carta velina indispensabile per congiungersi al suo tocco lieve, che accarezza malinconia e un sottile filone di surreale brillantezza. I lutti da superare si moltiplicano, si intrecciano alla storia del Giappone, e alla fine forse è vero che “la gente come noi condivide un paese segreto”. È uno dei tanti dialoghi che rimangono nell’aria e che ben accompagnano le immagini più ispirate di Girard – quelle che isolano i due protagonisti in mezzo a spazi enormi, nella folla, fermi a guardare delle scarpe luminose o a rincorrersi. È un cinema minimalista, elegante, adulto ma con un cuore leggero.”
Tommaso Tocci, da MYmovies.it
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Anatomia di una caduta
da domenica 12 a venerdì 18 ottobre 2024
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Anatomia di una caduta
regia di J.Triet
“Arriva in sala un film sorprendente, appassionante e femminista, ma anche sfaccettato e pieno di colpi di scena come un thriller hitchcockiano, di cui in qualche modo porta con sé la precisione di regia e l’eleganza formale. Anatomia di una caduta della francese Justine Triet, Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes e campione d’incassi in patria, è allo stesso tempo un film giallo, intimista e processuale. Un’opera di alto livello sull’ambiguità del reale, intrisa però di uno sguardo e di un vero sentire umano. (…) Prima di addentrarci oltre, va fatta una necessaria premessa sulla collocazione del film in questo particolare momento storico. Rispetto ad altri titoli vinti da autrici in questi ultimi anni nei grandi festival, è il primo davvero convincente (…) dev’essere chiaro che siamo davanti a un grande film, di notevole finezza e forza, e che se, per l’ennesima volta, la rappresentazione è concentrata sulle problematiche della borghesia, c’è tuttavia il coraggio di virare con nettezza in favore dell’ambiguità delle cose. Il bello è che lo fa in una prospettiva femminista, quella sì senza ambiguità. Riuscendoci, nella sua dimensione più esplicitamente militante, anche molto bene. Ma che si voglia femminista senza ambiguità, è ancora apparenza. E anche per questo raggiunge una dimensione universale.
Riesce perfino a dire qualcosa di nuovo e profondo sul solito tema della finzione che si fonde con il reale. (…) Reinventando il film processuale, la regista ne fa anche un’opera di metacinema, facendo ascoltare o riascoltare da punti di vista diversi momenti di vita, tutti intimi, che corrispondono sempre, in questo film che comincia con una morte fuori campo, a quello che era fuori campo, visivo o audio che sia. In questo modo il cinema intimista, tipico della Francia, è destrutturato, così com’è destrutturata, vivisezionata, l’esistenza della protagonista. E quella di suo figlio, Daniel. Amplificata dai mezzi di informazione, la lettura univoca dell’accusa è a sua volta destrutturata e vivisezionata. Così, quel che (ap)pare acquisito e difficilmente confutabile è rimesso continuamente in discussione, in un senso o nell’altro, in un vortice, una girandola caleidoscopica che sorprende sempre lo spettatore. (…) Se alla fine, molto faticosamente, una verità si afferma, nello spettatore si insinua anche il dubbio che il sistema messo a nudo si possa declinare, in altre occasioni, in altri contesti, in molti sensi diversi, anche del tutto opposti a quello qui rappresentato.”
Francesco Boille, da Internazionale.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Noi come Daniel ( nella fossa dei genitori - leoni ) siamo ipo-vedenti ? Anche noi camminiamo dentro questo racconto ambivalente senza nemmeno un cane guida ( ne' il padre ne' la madre sanno fare il loro mestiere di genitori...) che ci indichi la via da scegliere/ decidere per stabilire cosa è "vero" nella propria storia / vissuto al di là del solo credibile, probabile, possibile ? Il film riporta a fulgore il genere processuale, ma mette anche a confronto e a giudizio le gelosie tra due narratori/inventori di fiction ( la Triet qui lavora con il consorte Harari, che sarà a due volta il regista del processuale" Il caso Goldman", che vedremo a breve al Cineforum) e cosi mette in radicale discussione sia la perenne voglia di attribuire le colpe agli altri per farne capri espiatori delle nostre difficolta', sia la difficolta' oggettiva a decifrare i messaggi persino dei nostri piu' intimi vicini, perché comunicati tra troppi assordanti rumori di fondo e secondo codici linguistici che non conosciamo sul serio. ( Cfr.: l' uso insolito - ma molto significativo - delle didascalie per aumentare l'ambiguità dei punti di vista e della stessa indagine ). Un insolito intreccio multiplo tra fare letteratura, fare cinema e il perenne tentativo di fare parlare... la realta'.
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Angelo Sabbadini (Lunedì sera) |
C’è sapienza nella regia di Justine Triet: lo riconoscono d’istinto gli aficionados del Bazin ! Brava ad imprimere verità cinematografica ad ogni sequenza. Scaltra nel soffocare gli interpreti con l’uso sistematico della camera a mano. Puntuale nei flashback e impeccabile nel dirigere gli attori: da Sandra Huller al piccolo Milo Machado Graner fino al magnifico border collie Snoop. Assoluta padronanza del racconto che giustifica la vittoria a Cannes e il consenso plebiscitario al Bazin. C’è sapienza nella regia di Justine Triet: lo riconoscono d’istinto gli aficionados del Bazin ! Brava ad imprimere verità cinematografica ad ogni sequenza. Scaltra nel soffocare gli interpreti con l’uso sistematico della camera a mano. Puntuale nei flasback e impeccabile nel dirigere gli attori: da Sandra Huller al piccolo Milo Machado Graner fino al magnifico border collie Snoop. Assoluta padronanza del racconto che giustifica la vittoria a Cannes e il consenso plebiscitario al Bazin. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Iniziamo questo nuovo ciclo col botto: un film intenso ma non pedante, problematico ma non noioso; benissimo costruito e meravigliosamente recitato, ambiguo e hitchcockiano. Partiamo dal finale, logico e insieme spiazzante: un testimone cieco, con la sua dichiarazione, suggerisce alla corte la risoluzione del caso. Un ossimoro, potremmo dire. Eppure possiamo non essere convinti, il film ci permette di ipotizzare altre soluzioni: chi è davvero Sandra? Cosa significa la sua teorizzazione (letteraria ma non solo) dell'intreccio inestricabile tra finzione e realtà? Perché suo marito incolpa del suo fallimento professionale solo la determinazione e la spregiudicatezza della moglie? Quanto rancore c’e in questa coppia, nel continuo rinfacciare azioni (malefatte?) del passato (ma noi ipotizziamo questa violenza e la vediamo solo nel video trovato per caso da un investigatore, quindi una narrazione “seconda”, magari addirittura artefatta, costruita ad arte in vista di un possibile processo)? Perché Sandra non vuole parlare francese e quanto si sente isolata? Infine, finzione e realtà vivono davvero nel film: il nome del personaggio femminile (Sandra) è il nome dell'attrice che lo interpreta (Sandra Hüller) così come Samuel, il marito, |
Giorgio Brambilla (Venerdì sera)
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Quando ancora lo schermo è nero sentiamo dire che, quando fruiamo di un’opera di fiction, vogliamo distinguere tra ciò che è reale e ciò che è inventato. Il film che segue è tutto uno sviluppo di questa premessa, declinata prima di tutto in termini artistici, attraverso la riflessione sulle modalità creative dei due scrittori. Poi a livello processuale, dove pubblico ministero e difensore costruiscono ciascuno la propria narrazione della verità, e così fanno pure i testimoni interpellati, a partire dai periti, che propongono ricostruzioni completamente diverse dell’accaduto. Soprattutto questo vale a livello esistenziale, come si vede nell’onestà dell’aspro confronto tra i coniugi, nella difficoltà di parlare una lingua comune, ma in modo decisamente esemplare nel figlio che, cieco, si trova sballottato da una parte all’altra. Prova allora a fare un esperimento “rigoroso” col cane, dopo il quale si trova comunque a dover decidere cosa è accaduto, fidandosi di una sua interpretazione del mondo che lo ha circondato e nel quale continuerà a vivere, senza però trovare davvero pace. Anche lo spettatore, che egli incarna nell’opera, è costretto a muoversi in questa massa di segni contraddittori, senza qualche Poirot che venga a toglierli le castagne dal fuoco, frustrato nello sperimentare gli ineliminabili limiti della propria conoscenza oggettiva, coinvolto in un’esperienza assai più faticosa ma epifanica della normalità cinematografica |
Marco Massara (jolly) |
“Anatomia di una caduta” si muove proprio come una indagine psicologica e necroscopica parallela a quella della caduta fisica che apre il film. Il reperto da analizzare senza esclusione di colpi e quello tra Sandra e Samuel: una indagine spietata per sezionare i lati oscuri e malati della loro relazione, a base di gelosia, tradimenti, rinfacciamenti e delusioni, affidando al figlio Daniel il ruolo di arbitro finale sul destino di Sandra. Non è cinema da tutti i giorni, ma davvero grande cinema ! |
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Oppenheimer
da domenica 19 a venerdì 24 maggio 2024
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O P P E N H E I M E R
REGIA DI CRISTOPHER NOLAN
IO CAPITANO
“Gocce di pioggia sollevano increspature sull'acqua di una pozzanghera: si apre così Oppenheimer, su quello che diventerà un motivo figurativo ricorrente, ripreso per esempio mentre il protagonista guarda una mappa e immagina la caduta di bombe atomiche sulle città, le cui esplosioni sollevano increspature come la pioggia dell'incipit. In mezzo c'è un episodio enigmatico, un breve incontro con Einstein che appare come un affronto agli occhi dell'egocentrico Lewis Strauss. Questi è una figura poco geniale ma con manie di grandezza, che sta a Oppenheimer come Salieri stava a Mozart. Il vero significato di quella sorta di Rosabella che è la conversazione con Einstein si aprirà solo nell'epilogo, quando alla reazione a catena acquatica dell'incipit risponderà un tripudio di fuoco. (…) La circolarità tanto cara al regista dunque non manca e neppure la grandiosità. Il primo film in cui è stata utilizzata pellicola in bianco e nero IMAX 70mm. andrebbe infatti visto in una sala consona, che purtroppo in Italia continua a non esistere. (…) Pur con le sue imperfezioni, che in fondo la rendono anche vitale nonostante l'approccio freddamente calcolato di Nolan al cinema, Oppenheimer è un'opera nel complesso affascinante, complessa e stratificata. Tratta dalla biografia del 2005 "Prometeo americano" di Kai Bird e Martin J. Sherwin, è una pellicola per nulla facile per la sbalorditiva quantità di dettagli storici e di personaggi coinvolti, ma sorretta da un cast stellare.”
Andrea Fornasiero di mymovies.it
“Non credo davvero che sia questo il vero Nolan. Più correttamente: è forse il Nolan che ottiene e otterrà lo universal acclaim ma non quello che merita di essere definito un autore (sempre che la definizione, qui e ora, abbia ancora un senso univoco e condiviso). L’Autore Nolan, semplificando molto ma non troppo, è quello che sviluppa un'idea /soggetto/sfida e cerca le modalità specificatamente cinematografiche più adatte a realizzare quest’idea/ soggetto/sfida (…) L’Autore Nolan è quello che inventa congegni narrativi e spiega agli spettatori come funzionano, trascinandoli quasi nel processo creativo. E dell’Autore Nolan, in Dunkirk prima e in Oppenheimer adesso, c’è poco. E il poco che c’è potrebbe (dovrebbe?) anche non esserci. Per converso, l’Autore Nolan non è un grande sceneggiatore. Di fatto, direi che è più un grande soggettista incapace poi di scrivere personaggi e dialoghi credibili e/o profondi (…) Oppenheimer è, insomma, un brutto film? Non esattamente. si potrebbe concludere dicendo che Oppenheimer è il Nolan che il grande pubblico e l’Industria Cinema merita(no) ma non quello di cui la Storia Del Cinema ha bisogno.”
Gianluca Pelleschi da Spietati.it
“Basandosi sulla fluviale e dettagliatissima biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin (American Prometheus, Premio Pulitzer nel 2006), Nolan rompe come di consueto ogni linearità d’azione e intreccia tre linee temporali nella vita del “padre della bomba atomica”: nel 1942 Robert Oppenheimer (Cillian Murphy nel ruolo della vita) è incaricato dal generale Leslie Groves (Matt Damon) di guidare il Progetto Manhattan per arrivare alla costruzione di una bomba a fissione nucleare prima della Germania nazista; nel 1954 la Commissione per l’Energia Atomica interroga Oppenheimer sulle sue passate frequentazioni con il partito comunista americano e sulla sua attuale ritrosia alla sperimentazione della bomba a idrogeno; infine, nel 1959, il segretario al commercio Lewis Strauss (Robert Downey jr.) viene ascoltato in varie audizioni del Senato americano sui suoi rapporti con Oppenheimer e su presunte manipolazioni di molte verità per meri fini personali (prima che ideologici). In queste tre linee temporali incontriamo decisivi personaggi storici (interpretati da un numero impressionante di divi, difficili anche da nominare in una singola recensione) che strutturano un mosaico stilisticamente e narrativamente troncato in due da un evento. O meglio, dall’Evento per antonomasia. La detonazione del primo ordigno nucleare della storia, il Trinity test del 16 luglio 1945 nel deserto di Los Alamos, esperimento che non solo cambierà il corso della Seconda guerra mondiale “ma cambia definitivamente il mondo” (come sintetizza il fisico danese Niels Bohr interpretato da Kenneth Branagh).
Ecco il perfetto algoritmo nolaniano: tre linee temporali orizzontali (la scienza, il potere, la redenzione) e due blocchi verticali (divisi dalla bomba come rivelazione di un nuovo ordine mondiale). Nella notevole prima parte del film Nolan concepisce ogni inquadratura come estensione dello sguardo di un geniale fisico-teorico che utilizza la sua conoscenza per disarticolare la materia (decisivo in tal senso l’utilizzo della pellicola 70mm IMAX) riportandola a pura radiazione elettromagnetica (quindi a particelle di luce) con effetti di polverizzazione del visibile. (…) Lo spettacolo terribile del primo esperimento atomico, con la costruzione di un enorme set a Los Alamos e poi con la detonazione dell’immagine mancante della modernità, porta con sé i fantasmi in fuori campo dell’indicibile apocalisse di Hiroshima e Nagasaki. Ed è questa la parte più libera e densa del film di Nolan, con le auricolarizzazioni interne di un personaggio che fa esplodere continue bombe emotive represse. (…) Con Robert Oppenheimer sempre più in bianco e nero, roso dal senso di colpa e in cerca di redenzione (“i fisici hanno conosciuto il peccato e da questa consapevolezza non potranno mai liberarsi”). E con gli equilibri narrativi sbilanciati verso il thriller politico sui fantasmi del maccartismo nel quale solo la moglie Kitty Puening e il ricordo amoroso di Jane Tatlock (interpretate rispettivamente da Emily Blunt e Florence Pugh, bravissime entrambe) riescono a preservare l’ultimo afflato umanista. Questa è la parte più tradizionalmente nolaniana, geometrica, fredda, che tende a costruire con pazienza un the prestige narrativo custodito sin dalle prime inquadrature dal mentore Einstein. Ci risiamo, certo. Ma questa volta il discorso filmico del regista-prestigiatore-demiurgo è un po’ meno ingombrante del solito, perché è la densità della materia narrata a garantire la nostra aderenza emotiva.
Concludendo, con i suoi pregi e difetti, Oppenheimer è un film importante per il XXI secolo ed è probabilmente il film più riuscito di Christopher Nolan. Un film costruito su uno squilibrio narrativo e formale sin troppo pensato (e dialogato…) ma che sa cogliere in maniera lucidissima il perturbante balenare della bomba nella storia (e nelle storie) come rottura del tempo lineare e creazione di un nuovo cyberspazio. Nuovi colori, umori e formati dell’immagine che ridisegneranno i confini visibili del mondo tra orizzonti utopici e previsioni distopiche, fusioni fredde di estatica rivelazione e guerre fredde di lugubre manipolazione. Insomma, Cillian Murphy/Robert Oppenheimer chiude gli occhi e interroga urgentemente il nostro presente… per un film del 2023 non è certo una cosa da poco.”
Pietro Masciullo da sentieriselvaggi.it
Giulio Martini (domenica pomeriggio) |
Strabiliante rievocazione del tormentato scienziato ebreo, che voleva sconfiggere i demoni nazisti ma poi temette l'Apocalisse. I problemi più ardui e astratti delle teorie fisiche del '900, le complesse relazioni interpersonali, i labirintici intrighi politici ed i rebus morali si accavallano e scavalcano in un racconto montato "alla Nolan", con immagini splendide e dialoghi spinosi. Tre ore appassionanti di cinema.
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Angelo Sabbadini (lunedì sera) |
Bella la stagione di cinema che abbiamo vissuto al Bazin ! Si chiude con un campione: Christopher Nolan. Il regista inglese mette alla frusta gli aficionados del cineforum con la sua ardita scomposizione della linearità degli eventi. Costringendo così il pubblico in sala a confrontarsi con il loro significato, più che con il loro sviluppo. Idea geniale che conduce gli spettatori nella mente di Oppenheimer (Cillian Murphy). Quest’ultimo è di gran lunga il personaggio più ambiguo della filmografia di Nolan. Oppenheimer infatti non è uno scienziato che ripudia il suo lavoro, opta invece per il suo contenimento, diventando, come è stato osservato, il primo tecnocrate della Storia. |
Guglielmina Morelli (mercoledì sera) |
Tra rutilanti colori, stupefacenti effetti speciali, musiche fragorose, andirivieni temporali, ottima recitazione, Nolan, che è uno bravo, ci ammansisce un film monstre. Al termine però, invece di entusiasta meraviglia, ho provato un disagio sottopelle, intenso e fastidioso. Perché, mi sono chiesta. Perché è prolisso, noioso e scontato nei personaggi e nei passaggi chiave della storia? Perché Einstein è ridicolo e sembra quello che fa la pubblicità ad un supermercato? Perché asseconda il luogo comune dello scienziato matto? Tutto vero, ma troppo poco. Perché non problematizza nessuna tra le infinite questioni legate all’atomica? Ma è solo un film, non un trattato di morale o di filosofia della scienza. Perché dobbiamo gioire per un lieto fine perché a Oppenheimer viene finalmente resa giustizia? E già qui le cose si complicano. Perché i cattivi sono i politicanti arrivisti e i loro tirapiedi? Perché chi è davvero un patriota è americano (e viceversa)e russi (ugualmente bolscevichi e anticomunisti), tedeschi, inglesi e altra umanità sono crudeli oi nfidi? E questa spiegazione mi piace di più. Perché è un film smaccatamente patriottico e ideologico, come non se ne vedeva da anni (ah, la falsa coscienza che non mette in discussione la narrazione americana circa la scelta di sganciare non una ma due bombe su un Giappone sconfitto, giusto perché faceva brutto provarla direttamente sui sovietici, i cui scienziati però erano così tonti da costruire la bomba solo grazie ad una spiata di un anglo-tedesco)? Non so, non ho ancora deciso e quindi mi fermo qui.
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Giulio Martini (venerdì sera) |
Giulio ha sostituito Giorgio |
Marco Massara (Jolly) |
“le dimensioni contano” diceva il trailer di Gozilla. E in effetti ogni tanto realizzano oggetti cinematografici poco maneggevoli. Molto interessante il modo in cui Nolan costruisce la narrazione della prima e nella terza delle parti in cui il film è strutturato: una narrazione che ‘avvolge’ lo spettatore consapevole del fatto che non riesca a recepire ed organizzare tutte le informazioni che gli vengono trasmesse e che costruisce un ‘modello’ di Oppenheimer sostanzialmente definito, anche se incompleto. (del resto anche la teoria quantistica “non arriva fino in fondo” Cit.) In mezzo Nolan ci mette la cronaca del “Trinity test” in una forma classica, quasi fumettistica e avvincente al punto giusto. Lo spettatore esce con una idea del protagonista abbastanza solida, ma anche con una sensazione di un certo sovraccarico. Io lascerei un lenzuolo appeso ad asciugarsi……..
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