Vajont - La diga del disonore

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Una scena del film

( dal sito ufficiale)

Le prove dell'alluvione

(si ringrazia http://www.kataweb.it )

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Il sito che meglio rappresenta la tragedia del Vajont. Ricco di immagini, testimonianze e documenti.

Il sito ufficiale del film

Per saperne di più

Sulla pelle viva"

di tina merlin

ed. cierre

 

IL CAST

Regia Renzo Martinelli 
Sceneggiatura Pietro Calderoni , Renzo Martinelli
Direttore della fotografia Blasco Giurato 
Scenografia Francesco Frigeri
Costumi Luigi Bonanno 
Montaggio Massimo Quaglia
Musica Francesco Sartori
Effetti speciali Marcello Buffa , David Bush
Origine Italia, 2001

Interpreti

Michel Serrault .... Carlo Semenza 
Daniel Auteuil .... Alberico Biadene 
Leo Gullotta .... Mario Pancini 
Laura Morante .... Tina Merlin 
Jorge Perugorría .... Olmo Montaner 
Anita Caprioli .... Ancilla 
Philippe Leroy .... Giorgio dal Piaz 
Jean-Christophe Brétigniere .... Edoardo Semenza 
Nicola Di Pinto .... Francesco Penta 
Claudio Giombi .... Celeste 
Massimo Sarchielli .... Don Carlo 
Federica Martinelli .... Margherita

 

Il film ricostruisce gli anni che precedettero la tragica notte del 9 ottobre 1963, quando la frana di una montagna fece alzare un onda di 25 milioni di metri cubi d'acqua nella diga del Vajont, provocando la morte di 2160 persone. Dal progetto di costruzione della diga della società elettrica SADE, alla consapevolezza dei rischi sulla montagna derivati dall'invaso, alla denuncia sull'Unità della giornalista Tina Merlin: il film denuncia tutti gli elementi che vennero sottovalutati e di cui tutti erano coscienti.

le recensioni

Si poteva evitare la tragedia del Vajont? Si possono evitare molte tragedie che tutt'oggi accadono perché l'umanità del profitto, marcia fino al midollo, insabbia, omette, ignora deliberatamente? Il film di Renzo Martinelli è un'efficace provocazione, molto più che uno spunto di riflessione su questi argomenti.
Una pellicola corale, popolata di personaggi divergenti, per lo più testoni montanari e ingegneri a loro fortemente contrapposti, un racconto senza peli sulla lingua che porta sullo schermo i documenti reali, le meschinità di chi, allora, mise i preavvisi a tacere per non perdere il suo gruzzolo investito.
Tutto è descritto minuziosamente: le località, gli avvenimenti, i particolari... e colpisce come ogni personaggio sia caratterizzato da una diversa passione che lo anima: c'è la giovinetta in età da marito, piena di speranze e spaventata dalle voci sulla diga, c'è il vecchio testardo attaccato alla sua terra più che alla vita, c'è il giovane geologo che avvisa la S.A.D.E. del pericolo. E poi c'è lei, Tina Merllin, la giornalista che scrisse articoli contro quel colosso di marmo sull'Unità e fu anche processata per questo. Laura Morante la porta sullo schermo in tutta la sua battagliera femminilità, la colma di passione per il vero, la fa parlare velocemente e con un'agitazione che le rompe la voce.
Un film di rara efficiacia, tanto è commovente vedere come degli ingenui contadini, con il loro passato legato a precise abitazioni e terre, le loro piccole grandi speranze e le loro tradizioni spezzate, siano stati raggirati da chi sapeva e poteva prevenire.
Il paesaggio, mirabilmente ricostruito (il girato comprende 270 inquadrature digitali) prende il posto di quella enorme distesa di fango che ora, da allora, è la tomba comune di migliaia di corpi mai ritrovati, e subisce i continui mutamenti di terremoti e frane, fino a culminare nella scena dell'inondazione, realizzata con effetti digitali che ben competono con quelli delle majors americane.
Un cinema della memoria, permeato di un lieve sentimento religioso non bacchettone, non edulcorato e non banale, che troppo spesso manca nel nostro paese.
Federica Alianohttp://www.35mm.it 

L'artificio, la natura e gli uomini, questi sono i tre elementi universali che Martinelli propone in una forma particolare: la diga, il monte Tok e gli italiani degli anni '60. Tutto ruota attorno dalla relazione che si instaura tra questi protagonisti. Da un lato la montagna vista come un elemento vivo e imprevedibile nelle sue reazioni, dall'altro il delirio d'onnipotenza di alcuni ingegneri e burocrati che per ingordigia e profitto vogliono dominare ciò che, invece, non può essere tenuto sotto alcun controllo. In mezzo la grande opera, la diga, il prodotto attraverso il quale la follia umana violenta la natura e gli uomini che essa ospita da sempre.

E' drammaticamente spaesante osservare tanta ottusità nell'uomo. Ed è proprio questa progressiva insensatezza della ragione che Martinelli mette sotto la lente d'ingrandimento senza indugiare sulla catastrofe finale e sui morti. Egli insiste sugli antefatti per registrare le continue occasioni mancate di poter da un momento all'altro recuperare un'intelligenza comune venuta meno.

Da questo punto di vista, notiamo una strana e inversa proporzione tra l'enormità senza misura della diga e la miseria, anch'essa senza misura, di coloro pronti a coprire ogni verità, e persino a mentire a loro stessi, pur di realizzare la grande impresa. Più la diga tende verso il cielo, più l'animo dell'umanità che ha progettato quell'artificio mostruoso sprofonda verso il basso.

La natura ama nascondersi e la stolta e criminale mente dell'uomo non ha occhi per vedere che la tremenda vendetta degli elementi si sta compiendo. A niente vale il fatto che una sola donna, la giornalista Tina Merlin (Laura Morante), possieda quell'intelligenza propria di quegli individui che sanno pensare con indipendenza e onestà e che, al tempo stesso, comprendono il valore inestimabile della vita altrui. La sana ragione nell'Italia di quel lontano e vicino 1963 apparteneva solo a Tina e questa solitudine è bastata per condannare a morte migliaia di persone.

Il crollo del monte Tok, chiamato così dagli abitanti del luogo perché privo di solidità, diventa allora la metafora di un'umanità senza consistenza che nel suo franare travolge ogni cosa e produce macerie dalle quali non è possibile ricostruire alcunché. Dunque, tanto sono più spettacolari le immagini, tanto più è esemplare la rappresentazione del tracollo di una civiltà. Solo in questo punto, forse, spettacolo e realtà riescono a sovrapporsi in modo non contraddittorio, perché solo la potenza della finzione, quando non ha pretese estetizzanti, può esibire esemplarmente una realtà che altrimenti non sapremmo riferire in alcun modo.

Mazzino Montinari, http://www.kataweb.it

la Repubblica (22/10/2001)
Roberto Nepoti

Dietro il progetto di Vajont s'intravede l'eredità del "cinema civile" italiano dei Petri e dei Rosi: raccontare la verità su un evento a suo tempo rappresentato come "fatale", in realtà dipendente da precisi interessi, ricerca di profitto, arroganza, cinismo, disprezzo della vita altrui. Il film comincia nel 1959, durante la costruzione della diga di 263 metri nella valle del Vajont, e presenta con tratti nitidi i personaggi principali: gli ingegneri Semenza (Michel Serrault) e Biadene (Daniel Auteuil), responsabili della società di costruzione e dell'alluvione che costerà duemila vite; il titubante Mario Pancini (Leo Gullotta), diviso tra obbedienza e senso di responsabilità; il geometra Olmo (Jorge Perugorria), fautore del progresso nella valle ma destinato a ricredersi; Tina Merlin (Laura Morante), giornalista "pasionaria" che dalle colonne dell'Unità lancia allarmi, inascoltati, sulla sciagura imminente. Malgrado la scoperta di una spaccatura sul fianco del monte Toc, che minaccia di far franare nel bacino un'enorme massa di terreno, i dirigenti fingono che tutto proceda per il meglio, spingendosi fino a falsificare i risultati delle perizie: vogliono rivendere la diga allo Stato, che sta nazionalizzando le industrie idroelettriche. Il 9 ottobre 1963 la tragedia annunciata si consuma. Ai tempi del cinema di denuncia civile Vajont sarebbe stato narrato, con ogni probabilità, nella forma di una cronaca semidocumentaria; e a sentire il regista Renzo Martinelli, che parla di un "thriller politico pieno di suspense" ma senza nulla d'immaginario nella sceneggiatura, già scritta nei documenti e nelle testimonianze, ci si poteva aspettare il ritorno a quella, tutt'altro che disprezzabile, tradizione. Rispetto alla quale, invece, Martinelli conserva solo l'uso delle didascalie temporali, preferendo rappresentare i fatti come (sono ancora parole sue) "un evento di proporzioni bibliche", un epic rivolto più alle emozioni che alla ragione dello spettatore. Anziché nello stile del cinema citato, insomma, siamo dalle parti degli Ultimi giorni di Pompei o del film catastrofico anni '70: buoni e cattivi, innamorati divisi, lotta contro il tempo e così via, fino all'epilogo spettacolare. Il tutto sa di vecchiotto, ma è ben diretto e corredato di efficaci effetti speciali. Peccato che il cast multinazionale, composto di ottimi attori, resti inferiore alla somma delle sue parti.



l'Unità (24/10/2001)
Alberto Crespi

Ritorniamo a bocce ferme su Vajont, il film di Renzo Martinelli sulla strage - non usiamo volutamente la parola tragedia: almeno questo, alle vittime, glielo dobbiamo - del 1963. Un film sul quale l'Unità è doppiamente coinvolta. Per un motivo specifico: il giornale é letteralmente un "personaggio" del film, perché la nostra cronistoria Tina Merlin fu l'unica a segnalare la pericolosità della diga già quattro anni prima che venisse inaugurata. E per un motivo, diciamo così, ideale: Vajont segna un ritorno del cinema civile e spettacolare, un genere che in Italia ha avuto una grande tradizione e che Martinelli aveva già preso robustamente di petto nel suo lavoro precedente, quel Porzus che tante polemiche suscitò ad una vecchia Mostra di Venezia. In quel caso, il regista ricostruiva un tremendo episodio della Resistenza - L'eccidio di partigiani cattolici, da parte di altri partigiani comunisti e filo - jugoslavi, alle malghe friulane di Porzus con un virulento stile alla Peckinpah, o alla spaghetti - western. Stavolta l'operazione é ancora più ambiziosa: Vaojnt é, al tempo stesso, un film-reportage e un melodramma sentimentale. Rievoca la costruzione della diga, gli inutili allarmi (di Tina Merlin e di pochi altri) sua pericolosità, i maneggi politici fra la Sade (Sigla che stava per Società Adriatica di Elettricità), L'Enel e i governi del tempo, fino alla frana annunciata del monte Toc che fece tracimare il lago artificiale distruggendo i paesini montani di Erto e Casso e la cittadina, a fondovalle, di Longarone. Lo fa con piglio cronachistico, intervallando però la ricostruzione con la storia d'amore fra Olmo, geometra che lavora alla diga, e Ancilla, telefonista in quel di Longarone. Con queste premesse, ci costa un dolore quasi fisico scrivere che Vajont non ci é piaciuto, anche se non ci ha provocato il dissenso pressoché totale che provammo di fronte a Porzus. É, ovviamente, un film con due anime. La storia d'amore è melodrammatica, alla Matarazzo, e improponibile: con una scena-culto, il bacio sulla diga fra Jorge Perugorria e Anita Caprioli al suono della canzone Stella di Filippa Giordano, che sembra un'involontaria parodia di Titanic (la scelta delle musiche é di un kitsch sfrenato: quando allo schermo tracima il pezzo Proteggimi di Andrea Bocelli, si vorrebbe esse altrove). La parte "civile" ha ritmo serrato, scene emozionanti, momenti di sincera e contagiosa indignazione, effetti speciali (soprattutto nella prima parte) di alto livello. Ma é condizionata da una sceneggiatura spesso scritta con l'accetta (non si può mostrare il cinico ingegner Biadene che, poche sere prima del disastro, va in chiesa colto da crisi mistica e mormora "non si sa più a che santo votarsi"), da un simbolismo troppo sottolineato (il Cristo ligneo che galleggia nel lago, la stretta di mano fra la giornalista comunista e il prete di Erto) e da una recitazione discontinua. Martinelli é un importante regista di spot pubblicitari, e ha una simbiosi quasi fisica con la macchina da presa, che si scatena in gru e carrelli audacissimi, ma non sembra interessato a dirigere gli attori: chi è bravo (come Leo Gullotta e i due francesi, Michel Serrault e Daniel Auteuil) se la cava da solo, gli altri si perdono. E fra i disperati, ahimè, c'è Laura Morante, che disegna una Tina Merlin tutta smorfiette, bronci e ripicchi. Preveniamo l'obiezione: il giudizio non dipende dalla frequentazione diretta di Tina. Per motivi banalmente anagrafici, non l'abbiamo conosciuto, anche se come tutti coloro che sono entrati all'Unità negli anni 70' - siamo un po’ cresciuti, giustamente, con il suo mito. Il problema è che, quando la Morante entra in scena, non si vede una giornalista all'opera, ma un'attrice che fa la giornalista secondo l'antico cliché cinematografico della cronista d'assalto. Vajont è comunque partito bene nel primo week-end di programmazione, e nelle zone del Veneto e del Friuli dove è uscito già da due settimane la gente fa la fila per vederlo. Pur non apprezzandolo, ne siamo felici: il Vajont è un orrore che non va dimenticato. Lo spettacolo teatrale di Marco Paolini aveva già dato un'immenso contributo alla memoria. Ben venga anche il film.



il Giornale Nuovo (17/10/2001)
Maurizio Cabona

Fare oggi un film su quella tragedia significa fare un film sul potere e sull'uso che ne fanno le classi sociali e politiche che lo detengono. E' sorprendente che in questi quarant'anni nessun cineasta abbia sentito il dovere di raccontare la storia del Vajont. Severo ma giusto, come certi arbitri, Renzo Martinelli è consapevole di essere il prirno cineasta ad avere sentito quel dovere. Così si è rivolto a Rai Cinema, ai cui vertici - ironia del destino - é il figlio di un altissimo esponente democristiano, figura di primo piano delle «classi politiche» prese di mira dal film. Scritto e diretto da Martinelli, Vajont fa rimpiangere lo stile lutulento, ma serrato ed efficace del Francesco Rosi di una volta. C'è chi lo chiama «cinema civile», come già I cento passi. Civile per loro, rozzo per noi, coi buoni ingenui e poveri tutti di qui e i cattivi perfidi e ricchi di là. Conniventi, se non complici con la società elettrica costruttrice della diga, i dc., citati talora per cognome, visto che non contano più molto. Conta invece ancora il clero, così il prete (massimo Sarchielli) stringe commosso la mano alla più commossa corrispondente da Belluno dell'Unità (Laura Morante). Insieme, i due non evitano il dramma - contano poco -, ma annunciano la buona novella: il compromesso storico. Il quale non ha nulla a che fare né con la diga, né col disastro, né ha prodotto il film di Martinelli. Magli eredi del compromesso storico contano ancora e allora... Coerente Martinelli, dato che sempre lui nel 1997 toglieva con Porzus gli scheletri resistenziali dall'armadio del Pds e li metteva in quello di Rifondazione comunista. Ai sopravvissuti (fra i finanziatori c'è il comune di Vaiont), il film Vajont non é piaciuto. Hanno ragione: é mal scritto e mal recitato. Per fare recitare male Lorenzo Crespi e Gianni Cavina, come in Porzùs, basta lasciarli fare. Ma Michel Serrault e Daniel Auteuil sono bravi, di solito, e quindi dovrebbero querelare i doppiatori. Quanto alla catastrofe, é ricostruita con tecnica da film-tv e da videoclip; e la personalizzazione della catastrofe è affidata alla vicenda di una coppia, un geometra del cantiere (il nullo Jorge Perugorria) e la moglie incinta (Anita Caprioli) che si comportano come fossero gli amanti di Titanic... Dove Vajont «tiene», é dove Martinelli non mette nulla di suo: nella nuda realtà che, con la sola voce, Marco Paolini ha altrove evocato con vigore e rigore, i duemila morti, il precedente analogo disastro di Fréjus, le varie sentenze risoltesi in poco più di un anno di galera per uno solo degli imputati (quello interpretato da Auteuil). Quando sono i fatti a parlare, lo fanno meglio degli attori. L'àcme della suggestione non si raggiunge coi vantati effetti speciali, ma con le didascalie sui titoli di coda. Nella fiacca recitazione generale, si distingue la Morante per il fatto di interpretare più se stessa che una giornalista: qualcuno dovrebbe dirle che non basta deglutire a ripetizione per esprimere un turbamento. Bravo solo nel trovare soggetti il velleitario Martinelli. Lo scenografo Franceso Frigeri è degno di lui. All'involontaria comicità di un nugolo di moto e scooter, sempre gli stessi, che spuntano sullo schermo, tutti insieme, a più riprese per dare l'idea della vita quotidiana a Longarone, si somma l'anacronismo vedere modelli di Vespe e Lambrette - per non dire della 130 Fiat - non ancora in produzione nel 1959, quando si svolge la prima parte del film. Nella seconda, l'ora dell'incubo è data dalla macchina da presa fissa su un orologio che ha in bella evidenza la scritta Quartz.Nel1963 quel meccanismo, se non era inesistente, non era comunque di uso comune.



Il Giorno (19/10/2001)
Silvio Danese

Come eravamo. Già, come eravamo? L'Italia dei lavori pubblici falliti nel dopoguerra ambizioso e clientelare in un caso emblematico: il disastro annunciato della diga del Vajont. Duemila morti e tre paesi spazzati via dalla faccia della terra per tener fede agli accordi tra lo stato e i costruttori, nonostante le prove di cedimento, le denunce, i dubbi e, poi, le certezze. Diranno in molti che il film voluto e diretto da Renzo Martinelli, che ha l'ambizione di diventare l'Oliver Stone italiano (dopo "Porzus" sulla strage tra partigiani), è enfatico, elefantiaco e incontinente nella misura epica (i paesani strapaesani, la stretta di mano tra la giornalista comunista e il prete ribelle, la reiterate riprese dal basso degli eroi e della diga). Vero, se pensiamo al risultato estetico, con quegli attori tutti bravissimi e sovradosati (da Gullotta e Auteuil, da Leroy a Laura Morante e Perugorria), schierati come un esercito per dimostrare la potenza artistica in rapporto alla potenza della tragedia raccontata. Ma la ricostruzione della verità di cronaca cade efficacemente sulla coscienza dello spettatore in un film d'impegno civile e denuncia storica in difetto per eccesso di solerzia narrativa. Da vedere comunque.