Film TV (31/10/2000) Enrico Magrelli |
Placido Rizzotto osserva, dall'alto, la sua amara Corleone. Scruta quei tetti e quelle strade e guarda più in là verso un futuro che gli sarà negato. Da quell'utopia, da quella lotta contro i mafiosi e contro le regole feudali imposte dai proprietari terrieri, che, per il protagonista, sono un dovere, un'emozione, una volontà in forma di politica. Il segretario della Camera del Lavoro è un eroe tragico (interpretato, con una stupefacente ed emozionante adesione, che sfiora l'identificazione, da Marcello Mazzarella) e va incontro alla morte con la consapevolezza di chi conosce i nomi di tutti i morti e di tutti i carnefici. Sparirà la sera del 10 marzo 1948 e il suo corpo non sarà più trovato. Pasquale Scimeca (autore di "Il giorno di San Sebastiano" e "Briganti di Zabut") dedica a questo morto senza tomba un film molto bello che sottrae la cronaca e i personaggi al realismo, all'inchiesta televisiva e alla tradizione del cinema civile. Mettere in scena un frammento ambiguo della storia costa, spesso, ai cineasti, le semplificazioni del docudrama o del teatrino pedagogico. Al regista non interessano. La cadenza narrativa è quella della favola, del racconto orale, del patrimonio drammaturgico dei cantastorie, di un'esistenza racchiusa in piccoli quadri, di sequenze che non svelano e non spiegano una vita, ma la rappresentano, dei paesaggi brulli e maestosi, degli interni in cui due generazioni (padri e figli, vecchia e nuova mafia) si fronteggiano senza comprendersi, di scene laceranti e di abbandoni poetici. Mettere in scena la Storia significa interrogarla, sottoporla ad un'inchiesta indiziaria, come fa il giovane capitano dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e non arrendersi, non avere tentennamenti, come farà lo studente universitario, Pio La Torre, che sostituirà Rizzotto alla guida dei contadini. Entrambi, anni dopo, cadranno vittime dello stesso potere che, sul finire degli Anni '40, passa nelle mani di Luciano Liggio. In una terra magnifica chiamata Sicilia. |
la Repubblica (22/10/2000) Roberto Nepoti |
Visto a Venezia, nella sezione «Cinema del presente», Placido Rizzotto è uno dei titoli del neofilone di cinema civile. Il film di Pasquale Scimeca è basato su avvenimenti autentici: l’omicidio del sindacalista siciliano, avvenuto a Corleone nel marzo 1948. Con la prima sequenza, concitata e violentissima, il regista fa quasi una dichiarazione di poetica: il suo è un epic, attento alle figure del linguaggio cinematografico e montato come un film di Sergio Leone. Il protagonista è un eroe del dovere, un eroe tragico, e la narrazione ha la struttura della tragedia. Tornato a casa dopo avere combattuto nella Resistenza, Rizzotto (Marcello Mazzarella) si impegna nell’attività politica e diventa segretario della Camera del Lavoro. Le sue scelte lo mettono in conflitto generazionale col padre, che non riesce a capirle, ostacolano il suo amore per la bella Lia (Gioia Spaziani) e fanno di lui il nemico principale della mafia che, dopo provocazioni e aggressioni, ne sentenzia la morte. Lo spettatore apprende i fatti attraverso le testimonianze rese al capitano dei carabinieri che indaga sull’omicidio: racchiuse in flashback incompleti, che si ripetono precisandosi via via. La condanna a morte di Placido è eseguita con tutta la truculenza dell’odio personale (ancora la tragedia: l’eroe è bello e nobile, l’antagonista fisicamente deforme ed equivoco) da Luciano Liggio, detto lo sciancato (Vincenzo Albanese), che desiderava Lia da molto tempo e, prima del delitto, l’ha violentata. È a proposito di questo episodio che si affaccia la prima riserva sul film — bello, potente e ben diretto — di Scimeca. Con un’inattesa ambiguità, la sequenza ci mostra la ragazza che prova piacere allo stupro, secondando un vecchio pregiudizio che speravamo sepolto. Gli altri appunti che si devono muovere al film sono il commento musicale, invadente e pompieristico al punto da togliere drammaticità all’immagine, anziché aumentarla, e l’ingenua coda didascalica. |
Ciak (1/10/2000) Sandro Rezoagli |
Corleone, Sicilia. La sera del 10 marzo 1948 scompare nel nulla Placido Rizzotto, giovane segretario della Camera del lavoro. I suoi assassini (tra i quali il futuro mammasantissima Luciano Liggio) vengono arrestati dal giovane capitano dei cabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. La sua eredità tocca al giovane studente Pio La Torre, altro destino di martire. Con una materia tanto incandescente poteva uscirne un'ennesima similpiovra o uno scontato docudrama alla Giuseppe Ferrara. Trappole che Giuseppe Scimeca ha evitato, scegliendo una strada ardua e bellissima: raccontare la storia di Placido , "uomo dei sogni", alternando le cadenze epiche del teatro dei pupi al cinema di poesia di Pasolini allo straniamento brechtiano. Ma senza ombra di intellettualismo e con uno straordinario lavoro su e con gli attori. Tutti, tranne il siculo- parigino Marcello Mazzaella semisconosciuti. |